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«Mangiare è un atto agricolo». Incontro con Weldell Berry,"intellettuale" dei campi"

di Carlo Petrini - 05/10/2005

Fonte: lastampa.it

Solo il ritorno all'agricoltura di sussistenza può salvarci.

Si moltiplicano i meeting e le iniziative in tema di globalizzazione. Ma i soggetti più direttamente interessati e colpiti dai suoi effetti non sono mai coinvolti di persona; ai destini dell'umanità ci pensano politici, funzionari, scienziati, professori. Terra Madre, il meeting mondiale delle comunità del cibo di ottobre, vedrà invece protagonisti proprio loro, i semplici, le classi una volta definite «subalterne». Contadini soprattutto, come Wendell Berry dal Kentucky, che è pure grande poeta e saggista: un «intellettuale della terra» nel più ampio senso del termine.
La sua frase più famosa, che mi piace sempre citare, è: «Mangiare è un atto agricolo».
«I consumatori urbani stanno decidendo il tipo d'agricoltura che ci troviamo oggi e in buona parte del mondo questa è una scelta basata completamente sull'ignoranza. L'agricoltura industriale, per dirne una, è un'invenzione urbana. I contadini ormai sono così pochi, negli Usa meno del 2%, che non possono decidere da soli la strada produttiva da seguire. Fanno quello che gli chiede il mercato. È quindi meglio partire subito dal presupposto che se ci sarà spazio per una nuova agricoltura, anche questa dovrà essere un'invenzione urbana. Bisogna che il consumatore si renda davvero conto di che cos'è importante affinché l'agricoltura possa portare a un panorama globale accettabile e a una produzione di cibo buono, salutare e gustoso. Per questo in Kentucky stiamo facendo delle associazioni che cercano di mettere insieme agricoltori e consumatori, per farli conoscere, per stimolare una comprensione reciproca.

Lei che tipo di consumatore è, qual è il suo rapporto con la gastronomia? Se mangiare è un atto agricolo anche coltivare deve essere un atto orientato da principi gastronomici.


«Il mio rapporto con la gastronomia è sostanzialmente con ciò che cucina mia moglie, che è sempre fantastico, perché noi produciamo il nostro cibo e ci divertiamo a mangiare. Ma la gastronomia, è vero, è molto importante. I consumatori urbani purtroppo non hanno questo rapporto immediato con del cibo davvero buono e locale. Possono avvicinarvisi nei Farmer's Markets, i mercati che gli agricoltori organizzano in città, o tramite la Community Supported Agricolture, un modo intelligente e funzionale per finanziare le produzioni agricole locali e avere allo stesso tempo cibo fresco a casa tutto l'anno. Una delle cose più difficili rimane però aiutare i cittadini a imparare come utilizzare i nostri prodotti una volta tornati a casa dal mercato».


I Farmer's Markets sono il luogo eletto per il fiorente movimento del biologico. La sensazione che mi sono fatto negli States però, visti i prezzi cui è venduta la merce in questi eventi, è che coinvolgano un gruppo molto elitario, di veri e propri ricchi. Non trova che ci sia il rischio di perdere di vista l'aspetto umano e sostenibile di un tale tipo di produzioni, formando un settore di consumo per facoltosi senza incidere realmente sull'alimentazione di tutti?


«Il biologico oggi è diventato, come del resto era destinato a diventare, semplicemente un'etichetta. Secondo me non è mai stato un termine buono: infatti è sempre stato possibile avere delle monoculture biologiche che uccidono il terreno con la sua fertilità. Non ho mai usato questa parola e penso sia molto meglio parlare di buona agricoltura e di buon cibo: questi termini sono troppo piatti e poco entusiasmanti per diventare degli slogan o delle etichette. Quindi, se li usi, sei sempre obbligato a spiegare cosa intendi: questo evita la tentazione di semplificare le cose. Mi preoccupa già da parecchio tempo la tendenza elitaria nel biologico e nei tentativi di produrre buon cibo. Ma l'altra parte della risposta è che in qualunque modo si arrivi alla produzione di buon cibo è sempre meglio che niente: quindi se i ricchi mangiano bene stanno comunque imparando qualcosa. Oggi ci piace il pane bianco perché l'elite lo ha imposto: possiamo solo sperare che l'elite in futuro inizi a preferire il pane integrale».


Mi hanno detto che comunque sono in corso tentativi per «democratizzare» in qualche modo la produzione di cibo locale e biologico negli Stati Uniti. Ci sono progetti governativi che permettono di acquistare nei Farmer's Market con i «food stamps» dati ai più poveri e ci sono ristoranti interessanti, non molto costosi. Penso ad esempio a quello nel Vermont dove tutto il cibo che si serve non proviene da una distanza superiore a 100 km, è d'altissima qualità e ha prezzi popolari.
Ma se non sbaglio lei ha criticato questo famoso locale, perché?


«Ho detto ironicamente che 100 km sono troppi, ma non intendevo criticare il ristorante, volevo dire semplicemente che se avessimo abbastanza buoni contadini in giro il gestore del locale non avrebbe avuto la necessità di andare a comprare le materie prime così lontano. L'unico modo per permettere condizioni di vita sostenibili è quello di creare una domanda locale per produzioni locali, perché tutta questa teoria di dare accesso ai nostri contadini al mercato globale, significa semplicemente che questi contadini verranno distrutti. Il mantra che ci sentiamo ripetere spesso, "bisogna competere nell'economia globale", non vuol dire altro che svendere al minor prezzo a chiunque nel mondo. Ecco perché abbiamo un forte desiderio per la costruzione di una partnership tra città e campagna. Quello che stiamo cercando sono le ragioni pratiche per sostenere effettivamente la nostra agricoltura. Noi tutti sappiamo quali sono i vantaggi del buon cibo per il benessere dell'uomo, non ci vuole niente a fare una lista, ma ci sono anche ragioni più pratiche, economiche e di sopravvivenza delle comunità rurali».


Ogni realtà locale esige un approccio diverso e specifico, non c'è una formula uguale per tutti. Bisogna lavorare con la propria diversità, che è anche sempre la vera forza di un territorio. Quindi è fondamentale ricostruire il ruolo e le forme delle comunità rurali. L'omologazione lascia dietro di sé il deserto.


«Le comunità locali oggi sono diventate più consce di quello che sta succedendo nel mondo e questo è bene; ma non è bene che ciò che conoscono del mondo a un certo livello le distragga o le distrugga. Mentre ovviamente sarebbe poco saggio dire che le comunità dovrebbero sapere meno di quello che accade sul pianeta, è un disastro che conoscano sempre meno se stesse e i loro luoghi. Sono convinto che una delle risposte è quella di stimolare l'esigenza di cibo prodotto localmente nei consumatori urbani e nei contadini stessi: è forse l'unico modo perché le comunità ricomincino a capire chi sono e dove vivono».


Tra le contraddizioni cui ci pone di fronte la globalizzazione economica, ne esiste una tra l'agricoltura sovvenzionata, che può salvare determinate produzioni locali nel mondo ricco, in contrapposizione ai bisogni delle economie più povere, che per colpa delle sovvenzioni non trovano vie di sviluppo sostenibile e realizzabile.


"La situazione attuale non è certo quella ideale, siamo nel bel mezzo del fallimento di questo modello che ha causato molte perdite, anche irreparabili. Per i prossimi anni bisognerà essere guidati da principi diversi. Più praticamente dobbiamo iniziare a avere un approccio che chiamo di "adattamento locale". Si tratta di un principio che ogni specie animale sulla terra pratica da sempre e non si vede perché la specie umana debba essere esente da questa necessità. Nel passato l'abbiamo fatto perché non avevamo scelta: l'agricoltura era adattata al territorio perché non c'era nessun'altra alternativa. Ci siamo poi allontanati da questo principio perché la natura ci ha dato carburanti a basso costo e la regola economica è diventata: se non lo puoi prendere qui lo puoi prendere da un'altra parte. Ma quando questo metodo non sarà più conveniente, e ci siamo vicini, dovremo pensare di nuovo ad adattarci localmente, il che vuol dire che dovremo di nuovo pensare a qual è il potenziale di una zona e ai suoi limiti. Questo concetto è strettamente collegato a quello di sussistenza, ovvero la capacità delle persone di un luogo di vivere delle loro risorse. Uno dei fattori che ha accelerato la transizione verso l'agricoltura industriale è stato il convincere le famiglie a rinunciare alla sussistenza generata dalla loro piccola azienda agricola. La regola dovrebbe essere: prima di tutto, qualunque stato o comunità deve pensare a nutrire se stesso e solo una volta raggiunto quest'obiettivo potrà pensare ai commerci. Dunque sussistenza prima di tutto e poi, eventualmente, il surplus, che può essere usato per carità o commercio".


La base del capitalismo è guadagnare sul surplus, sarà dura...


«La base del capitalismo è il peccato! Un altro principio è quello di buon vicinato: se hai un vicino che è povero e affamato allora gli regali del cibo, se il vicino è affamato e ha dei soldi, glielo vendi a un giusto prezzo. È un principio di giustizia».


Parla di carità: la donazione è un concetto molto profondo nella cultura contadina.


«Negli anni passati, prima che l'agricoltura fosse industrualizzata così tanto, prima che avessimo tutti questi strumenti di riduzione del carico di lavoro, facevamo il nostro dovere all'interno della famiglia e scambiavamo il lavoro con i vicini. Vigeva la regola che nessuno terminava il proprio raccolto finché tutti gli altri non avevano finito il loro. Ho conosciuto persone che erano fiere di aver lavorato in tutte le fattorie del circondario senza aver mai ricevuto soldi: questo non è capitalismo. Al massimo si può vedere come una forma strana di investimento: investire nel corpo della comunità».


So che lei ha un rapporto molto particolare con la tecnologia, ha scritto un pezzo diventato famoso contro i computer, le dà quasi fastidio usare il telefono di casa, figuriamoci il cellulare.


«Ho 69 anni e sono cresciuto nel mezzo dell'agricoltura vecchio stile del mio paese. Era un'agricoltura di sussistenza, la struttura sostanziale di produzione di cibo era tutta all'interno della fattoria. Sono cresciuto con un amore molto forte per questo modo di lavorare, ho imparato molto dai contadini del tempo, i miei maestri. Il buon senso dice che non ci può essere una condanna a priori della tecnologia industriale: la questione invece è che tipo di standard dovrebbe essere usato per poterla applicare bene. Perché se le potenzialità massime della tecnologia diventano lo standard ovunque si rovina la terra. Invece se lo standard è la salute della terra, beh allora c'è della speranza».


Consiglierebbe ai giovani di fare i contadini?


«No, perché tanto se lo vogliono fare lo fanno comunque. A parte le battute, ricevo tante lettere di persone che vogliono lasciare tutto e tornare in campagna, ma io gli rispondo "Non fatelo!" Le persone che tornano in campagna per un richiamo superficiale sono un fallimento dopo l'altro. Secondo me il problema più urgente è quello di riuscire a dare sostegno ai ragazzi che sono stati allevati nelle fattorie e vogliono mollare. Ma in linea generale è molto pericoloso dare dei consigli ai giovani. Io gli chiedo soprattutto di imparare a conoscere le loro terre e d'iniziare a farsi delle domande riguardo alle loro economie del cibo. Qual è la storia di una testa di lattuga? A quale costo culturale ed ecologico è stata prodotta? Mi auguro che riescano a capire che per poter comprendere la storia di ciò che mangiano dovranno iniziare a mangiare prodotti locali. Spero in un processo più naturale: se si sviluppa una domanda locale per cibo locale, allora a quel punto le persone normali inizieranno ad avere una cognizione maggiore sui problemi dell'agricoltura e alcuni di questi avranno una vocazione vera per lavorarci. Una domanda forte di alimenti locali porterà a una diffusa diversificazione produttiva che a quel punto avrà bisogno di persone che se ne occupino: i giovani allora potrebbero avere un'alternativa reale».

Fonte: www.lastampa.it
3.08.04