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Liberarsi dalla fascinazione di due leader negativi che stanno portando l’Italia al precipizio

di Francesco Lamendola - 03/05/2011

 

 

Tutti sappiamo, anche se digiuni di studi pedagogici (o, come pomposamente oggi li chiamano, di scienza dell’educazione), nonché di pratica didattica, che cosa sia la figura del leader negativo: quel soggetto che sa esercitare un’influenza sul gruppo non per le sue capacità propositive, ma, al contrario, per le sue qualità distruttive e antisociali.

Come fa ad esercitare un’influenza un individuo del genere? Semplice: perché possiede del carisma. Ma un carisma tutto particolare: un crisma alla rovescia. Là dove gli altri si sforzano di costruire, lui prende a picconate; dove gi altri cercano la mediazione, lui preferisce lo scontro, non per amore di principî ideali, ma per il gusto della zuffa, della violenza e, possibilmente, della sopraffazione; là dove gli altri cercano di condividere, di puntare su ciò che unisce, su ciò che fa squadra, lui aggrega, sì, gli altri, ma all’insegna della contesa, dell’egoismo, dello sfascio.

Non sa edificare, ma sa distruggere molto bene; e, quel che più conta, sa fare leva sull’aspetto nichilista, cinico, cialtrone che giace, in qualche misura, al fondo di ciascuno di noi; se strappa la risata, è sempre a spese di qualcun altro; se fa dell’umorismo, non è mai per allentare la tensione, ma per accrescerla; se trascina gli altri, non è per guidarli verso una meta, ma per allontanarli da essa: in breve, è uno che sa tirare fuori dal prossimo la parte peggiore.

Il leader negativo non piace a tutti, grazie a Dio, né esercita su tutti il suo sinistro incantesimo; perché quelli che non si intruppano al suo seguito, cioè i migliori, generalmente lo temono e se ne tengono alla larga.

In un ambiente socialmente e spiritualmente sano, il leader negativo viene messo nell’angolo e diventa un botolo rabbioso ma impotente, che ringhia ma non è in grado di mordere alcuno; invece in un ambiente conflittuale, dove prevalgono le logiche più grettamente individualistiche e ciascuno pensa solo a se stesso, ecco che il leader negativo trova il varco per infilarsi e per esercitare una sorta di oscura tirannia, un ricatto permanente.

Talvolta, in un gruppo - per esempio, in una classe scolastica - ne capitano più d’uno, di leader negativi; allora formano una piccola banda che impone un dominio assoluto e spadroneggia alla luce del sole, costringendo tutti gli altri ad adeguarsi alle sue quotidiane prepotenze, alla sua filosofia darwiniana del più forte che comanda.

Accade talvolta, nella storia dei popoli, che il leader negativo, strisciando nell’ombra come un serpente e poi, via via, facendosi sempre più audace e sempre più sfrontato, riesca a dare la scalata al potere supremo e a soggiogare una intera nazione; lo abbiamo visto più volte e non solo nei tempi antichi, ma anche nella storia recente: basti pensare ad uno Stalin, l’ex seminarista che pian piano si impadronisce delle leve del potere di uno Stato immenso come la Russia e vi impone un regime totalitario così brutalmente feroce, quale mai si era visto neppure ai tempi degli Zar e delle disperate rivolte contadine di Pugacëv: il tutto in nome di grandi e nobili ideali, con una ipocrisia rivoltante e, nondimeno, con il sostanziale consenso delle masse.

Ma che succede se, in una fase delicatissima della vita di una nazione, appaiono simultaneamente due leader negativi, i quali, dopo essersi misurati e affrontati, decidono di giungere a un accordo e di spartirsi il potere, sfruttando l’ascendente che riescono a esercitare su una società sempre meno desta e consapevole, sempre più condizionata e manipolata dal potere mediatico, sempre più deresponsabilizzata e sospinta verso bisogni artificiali e forme di partecipazione illusorie e ritualizzate: in breve, sempre più controllata con la politica del «panem et circenses»?

È quello che sta capitando in Italia da una ventina d’anni.

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi sono due grandi leader, due leader carismatici: peccato che siano entrambi dei leader negativi e che abbiano siglato un patto scellerato per spartirsi il potere e sostenersi l’un l’altro, nel sospingere il popolo italiano verso forme di vita politica sempre più demagogiche e mistificanti, sempre più rozze e volgari, sempre più lontane dai problemi e dalle esigenze reali del Paese e sempre più finalizzate alla conservazione pura e semplice del potere da parte di quei due signori.

Entrambi si sono circondati di una pletora di fedelissimi che li seguono ciecamente e che non sanno fare altro che dire sempre di sì a tutte le loro sparate, per quanto assurde, per quanto contraddittorie, per quanto pericolose per il bene del Paese; delle emerite nullità che in qualunque altro Paese serio non sarebbero arrivate nemmeno al grado di usciere comunale.

C’è un motivo, naturalmente, se due leader così intelligenti, o almeno così furbi, si sono circondati di un simile grigiore: oltre che per l’innato autoritarismo, che li porta a cercare non dei collaboratori, ma dei lacchè, la ragione principale è che solo circondandosi di yes-men a un tanto il chilo possono far rifulgere se stessi in tutto il loro discutibile splendore e, al tempo stesso, garantirsi da possibili infedeltà e ammutinamenti.

Circondarsi di collaboratori intelligenti, capaci di pensare con la propria testa e, se necessario, anche di esporsi per sostenere il proprio punto di vista, è pericoloso per chi voglia esercitare un dominio assoluto sulla propria parte: lo insegnava già, a chiare lettere, messer Niccolò Machiavelli cinque secoli fa; e, sebbene molta acqua sia passata sotto i ponti, non solo dell’Arno, ma di tutto il mondo, la vecchia massima è sempre più che mai valida e attuale.

Naturalmente, non basta dire che il consenso di cui godono è frutto unicamente della manipolazione delle masse e del conformismo sociale; non basta dire che è il risultato di una concentrazione senza precedenti del potere finanziario, mediatico e politico, anche perché questa spiegazione può valere per Berlusconi, non per Bossi. E non basta neanche invocare il secolare servilismo degli intellettuali cortigiani, i quali, da Petrarca in poi, non aspettano altro che vendersi al migliore offerente e tessere le lodi del potente di turno.

Il fatto è che sia l’idea del centro-destra, sia quella leghista, rispondono ad esigenze reali della società italiana, ad un malessere diffuso e a un desiderio di cambiamento che nasce da un vuoto della politica, da una sua radicale inefficienza, da una sua strutturale incapacità.

Un Paese moderno, ad esempio, che non sa fare la guerra alla mafia e alla camorra con la grinta di chi è deciso ad arrivare sino in fondo, di chi è convinto di poterla vincere, prima o poi rimane infettato: perché il compromesso con la malavita organizzata, l’adattarsi a convivere con essa, inevitabilmente finisce per produrre l’effetto devastante di un veleno sottile che mina le istituzioni, la loro credibilità, la loro efficienza e che, nonostante il coraggio e lo spirito di sacrificio di singoli funzionari, paralizza le forze sane della società e della politica e riproduce, a livello locale come a livello nazionale, le logiche perverse di quel potere occulto che lo Stato non è stato capace di affrontare e di sconfiggere.

Dunque: le ragioni del centro-destra ci sono e ci sono tutte.

Lo statalismo assurdo e soffocante; l’esosità del prelievo fiscale sulle forze produttive; il guazzabuglio e la patologica lentezza della macchina della giustizia; la pesantezza elefantiaca di una amministrazione pubblica che serve in primo luogo a giustificare e sovvenzionare se stessa, invece di rispondere alle esigenze del territorio e della popolazione; un inconcepibile buonismo verso chi viola le leggi e una demagogia sfrenata circa il problema epocale della immigrazione straniera: questi, tanto per citarne alcuni, sono gli aspetti patologici della società italiana, e il fatto che una forza politica sia sorta con lo scopo dichiarato di porvi rimedio è non solo normale, ma decisamente positivo.

Il problema è che a Berlusconi non importa affatto di dare una risposta a quei problemi: l’unica cosa che gli interessa, fin da quando ha deciso di entrare in politica, è di difendere se stesso e i suoi privati interessi, con qualsiasi mezzo e a qualunque costo. Egli non ama l’Italia e non ha a cuore il bene comune, ma solo il suo vantaggio personale.

Inoltre, essendo un leader negativo, non cerca né desidera una pacificazione sociale e una effettiva risoluzione delle contraddizioni più vistose della vita italiana: al contrario, ha costantemente bisogno di aprire le ferite, di dividere le coscienze, di creare risentimento e avversione contro qualcuno, per poter radunare i propri sostenitori intorno a un’idea comune: che, non potendo essere, per definizione, il bene di tutti, non può essere che il bene di alcuni e il male degli altri.

Gli manca totalmente il senso dello Stato e il senso della democrazia; lo Stato, per lui, è un’azienda, puramente e semplicemente; e in azienda il padrone decide e comanda, gli altri eseguono o se ne vanno. Le critiche lo fanno infuriare, i consigli lo irritano: non accetta le prime e non ha bisogno dei secondi. È convinto di avere le capacità per fare tutto da solo, non sa dove stiano di casa l’autocritica e neppure un minimo di autoironia; si ritiene infallibile e vorrebbe poteri sempre più ampi, perché, se i problemi del Paese non sono stati ancora risolti, la colpa è di quelli che lo criticano e di quelli che cercano di limitare il suo strapotere.

Gli manca anche il senso della realtà: se dice che il problema dei rifiuti di Napoli è stato risolto, allora vuol dire che è stato risolto e basta; e se qualcuno gli sventola davanti le immagini del capoluogo partenopeo che, a un anno di distanza dall’emergenza rifiuti, è ancora intasato da montagne d’immondizia, si rifiuta di guardare: dice che sono solo calunnie di una opposizione comunista e distruttiva.

Così pure, messo davanti all’evidenza di suoi comportamenti quanto meno discutibili che, dalla sfera privata, invadono quella istituzionale, come nel caso della telefonata alla Procura di Milano per far rilasciare la “nipote” di Mubarak, parla di fango che i magistrati cattivi vogliono gettare su di lui per farlo fuori politicamente; non gli viene in mente di aver fatto tutto da solo: qualunque cosa accada, la colpa è sempre di qualcun altro.

Sono comportamenti patologici, nel senso clinico del termine; eppure piacciono, almeno ai suoi sostenitori: e questo è, appunto, l’effetto che produce sul gruppo un leader negativo, quello di tirar fuori dalle persone il loro lato peggiore.

Di Bossi c’è poco da dire, oltre a quello che già disse, nell’uscire dalla Lega Nord, un uomo come Gianfranco Miglio: che il Senatur pensa solo al potere anche se parla tanto di federalismo e che nella Lega lui sarebbe rientrato, quando quello se ne fosse andato.

D’altra parte, il carisma di Bossi è ancora più schietto e genuino di quello di Berlusconi: non proviene dall’odore dei soldi o dal successo nel mondo degli affari, ma dalla capacità di sintonizzarsi nel modo più diretto con la gente. Gente che è stanca di un certo andazzo, centralista e vuotamente retorico, dello Stato italiano; e che ne ha ben donde.

Anche nel caso della Lega, dunque, le esigenze di autonomia locale sono più che giustificate e l’unica disgrazia è che a intercettare la domanda di cambiamento sia stato un leader negativo come Bossi: uno che non si rivolge all’intelligenza delle persone, ma alla loro pancia; che scherza col fuoco di pericolosi estremismi e non capisce, o capisce fin troppo bene, la differenza che passa tra certe frasi dette al bar, con gi amici, fra un bicchiere e l’altro, e le stese frasi dette dal microfono di una tribuna istituzionale.

È una autentica disgrazia che le legittime domande di cambiamento di queste due aree sociali siano state strumentalizzate da due personaggi che non amano l’Italia, che non hanno il senso dello Stato, che non sanno parlare in positivo, ma che fanno continuamente appello allo spirito di contrapposizione, perché hanno sempre bisogno di un nemico.

Sono dei grossi capi fazione, come potevano esserlo quelli dell’epoca dei Guelfi e dei Ghibellini, o dei Bianchi e dei Neri, sul tipo di un Corso Donati, per fare un esempio; ma senza la magnanimità di un Farinata degli Uberti, colui che, dopo aver sconfitto Firenze, «la difese a viso aperto», solo contro tutti, salvandola dalla distruzione.

È necessario che gli Italiani si liberino dalla fascinazione di simili personaggi e ricomincino a distinguere fra l’esercizio della politica e il cieco, fideistico abbandono alla volontà di un leader maximo, considerato infallibile e indiscutibile.

Lasciamo questa mentalità ai seguaci di Fidel Castro e di Gheddafi.

Cerchiamo di essere protagonisti, e non semplici spettatori, del nostro futuro.