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Abbiamo perduto l’ingenuità, ma senza diventare migliori

di Francesco Lamendola - 05/09/2011



Se dovessimo indicare il cambiamento più evidente che si è verificato nella psicologia delle ultime due o tre generazioni, la trasformazione più radicale, senza esitazione risponderemmo: la perdita dell’ingenuità.
Si è trattato di un fenomeno mondiale e, come il fronte di uno sconvolgimento meteorologico, ha investito le diverse regioni in ondate successive: prima i Paesi anglosassoni, poi, gradualmente, il resto d’Europa, infine il resto del Pianeta.
Nel caso di quel pezzetto d’Italia in cui noi, personalmente, siamo entrati a contatto con il mistero del reale, esso si è prodotto tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso: vale a dire che è ancora fresco nella memoria di molti; eppure è come se una distanza abissale, incolmabile, lo separasse dal presente.
L’ingenuità era la cifra della vita prima che il passaggio alla società pienamente industrializzata invadesse i modi di vivere, di pensare e perfino di sentire delle campagne più tradizionali, dei villaggi più appartati, delle valli alpine più chiuse in se stesse.
Ingenue erano, tutto sommato, le aspirazioni delle persone comuni: una casa che fosse essenzialmente un nido; una famiglia con almeno due figli; un lavoro sicuro e onorato, anche se non particolarmente redditizio; un abbigliamento pratico e funzionale, con una punta di eleganza alla domenica; la partita di carte al bar con gli amici; una settimana di vacanza al mare, nella località più vicina; un minimo di comodità nelle cose di ogni giorno; quattro soldi messi da parte per eventuali necessità impreviste o malattie; una vecchiaia serena, rallegrata dai nipotini.
Il veleno sottile del consumismo e, con esso, il pungiglione della incontentabilità, si è insinuato soltanto a poco a poco e, almeno all’inizio, in forme quasi impercettibili: prima il televisore, poi il telefono, da ultimo l’automobile; un’ombra di scontentezza, se non di aperto disprezzo, si è posata sui mestieri più umili, mentre incominciava la corsa all’università di massa, per sfornare professionisti di massa, desiderosi di una affermazione sociale di massa;  la vacanza si è allungata ad almeno due settimane e si è spostata geograficamente verso nuove mete, più ambite e prestigiose; si è diventati più esigenti nell’abbigliamento, nelle cure estetiche, nel godimento del tempo libero.
Al primo televisore se ne è aggiunto un secondo, poi un terzo; la prima utilitaria è stata sostituita da un modello di automobile più grande e possente, fino agli attuali fuoristrada, mentre ciascun figlio riceveva le chiavi in mano di una nuova auto al compimento della maggiore età, intasando rimesse e cortili, fino a renderli simili a dei parchi-macchine;  i vecchi frigoriferi, poco eleganti ma efficientissimi, sono stati rottamati in cambio di cucine supertecnologiche piene di accessori, ma non sempre altrettanto pratiche e funzionali; alla macchina da scrivere ha fatto seguito il computer e siccome uno non bastava, se ne è comperato uno per ciascun membro della famiglia; poi i telefonini, almeno quattro o cinque per famiglia; e così via.
Con il diffondersi del cosiddetto benessere, il comune sentire delle persone si è radicalmente modificato e, di conseguenza, sono cambiati i comportamenti.
Si è data sempre più la precedenza ai diritti, alle libertà, all’io: al proprio piacere, alle proprie comodità, ai propri bisogni (magari artificiali); le case si sono svuotate di bambini, mentre negli ospedali si moltiplicano gli aborti; gli anziani, rimasti soli, chiudono tristemente la loro vita, assistiti non da figli, nuore e nipoti, ma da badanti straniere; le famiglie si sfasciano una dopo l’altra, magari dopo pochi anni o mesi di matrimonio, con gran disorientamento dei figli, checché ne dicano legioni di progressisti psicologi da strapazzo; i bambini non giocano più fra di loro e a contatto della natura, ma da soli e seduti davanti un marchingegno elettronico; le case si sono fatte più belle, o almeno più pretenziose, con degli eleganti prati all’inglese in giardino, mobili costosi, tende e tappeti da rivista di arredamento, ma anche più vuote, più silenziose, più tristi, dove ormai, la sera, parla solo il televisore…
La cultura, onorata e rispettata anche e soprattutto da coloro che non la possedevano, è diventata una merce che si vende con disinvoltura nei supermercati delle scuole superiori e delle università, somministrata da professori che, talvolta, parlano di grandi cose ma non riescono neppure a scrivere una frase alla lavagna senza infarcirla di marchiani errori di grammatica; e qualunque genitore si sente autorizzato a far la predica non al figlio che non ha voglia di studiare, ma al professore, che non saprebbe insegnare in maniera adeguata.
Si leggono sempre meno libri e sempre gli stessi, perché le case editrici inseguono unicamente i gusti più corrivi del pubblico: fino a cinquant’anni fa, anche le case editrici più modeste si sforzavano di diffondere le buone letture, i grandi classici, in una veste grafica forse, appunto, ingenua, ma ad un prezzo accessibile a tutti; oggi puntano tutto sulla quantità, sul grosso nome, sulla campagna pubblicitaria, interessate solo e unicamente a rientrare nelle spese e supremamente indifferenti alla diffusione di voci nuove, di idee alternative.
Al cinema, vedere un film intelligente e artisticamente curato è diventata un’impresa quasi disperata: questo è, forse, l’ambito in cui meglio si può misurare il regresso degli ultimi decenni. Non che un tempo il cinema fosse tutto di qualità: ce n’era per tutti i gusti; oggi, ce n’è per un gusto solo: quello di un pubblico che si crede colto e smaliziato, mentre è sempre più manipolato e sospinto verso i discutibili lidi della volgarità e della stupidità standardizzate.
Perfino la protesta, perfino la ribellione avevano, fino al giro di boa degli anni Sessanta-Settanta, un qualcosa di profondamente ingenuo: gli scioperi studenteschi, la contestazione nell’abbigliamento e nei capelli lunghi, la musica leggera degli urlatori contro quella dei cantanti melodici, i Rolling Stones contro Claudio Villa, le manifestazioni a favore del popolo vietnamita (mentre non ci si accorgeva che la speculazione edilizia stava distruggendo le nostre città e le nostre campagne): tutto questo, a guardarlo da un punto di vista psicologico, non può fare, oggi, che una profonda tenerezza, non priva di una sfumatura di malinconia.
In vacanza, non ci accontentiamo più della pensioncina familiare e della spiaggia più vicina a casa, andiamo all’ufficio turistico e scegliamo fra le Maldive e Santo Domingo; magari facendo grossi debiti, perché i tempi sono quelli che sono e la crisi sta bussando anche alle porte che aveva finora risparmiate: abituati a un certo tenore di vita, preferiamo indebitarci o impelagarci in biblici pagamenti rateali, piuttosto che tagliare il superfluo.
I nostri bambini, intanto, tornano a casa da scuola con la testa piena di nuove e difficili nozioni, di schemi, di schede, di questionari a risposta multipla, di testi e ipertesti e chissà quante lingue straniere (ma senza avere imparato bene l’ortografia, la grammatica, il far di conto), ma senza più curiosità, senza più stupore per il mondo, come dei precoci e tristi vecchietti, improvvisamente ingobbiti sotto il peso di un sapere che non stimola, non arricchisce, non sfama…
Ecco, questa è la perdita dell’ingenuità.
Ci è stato fatto credere che l’ingenuità sia una cosa negativa, o, per lo meno, patetica; ci è stato detto, esplicitamente o implicitamente, che, nelle meraviglie del progresso, non vi è più posto per l’ingenuità, ossia per lo sguardo incantato che si apre sul reale, carico di senso del limite e di senso del mistero: e noi ci abbiamo creduto.
Abbiamo creduto a tutto, digerito tutto, eseguito tutto, purché rispondesse alle nuove Tavole della Legge scientista, utilitarista, edonista; e siamo caduti in una forma di ingenuità molto più grossolana e distruttiva, quella di chi crede di sapere e di aver capito ogni cosa, mentre non sa nulla e non ha capito un bel nulla; quella di chi si crede libero ed emancipato, mentre non è che un povero burattino eterodiretto, manipolabile a piacere da qualunque potere che sia abbastanza astuto da tenersi un po’ nel’ombra e fare leva sui luoghi comuni della Vulgata dominante.
L’ingenuità non è una cosa brutta; l’essere ingenui non è una cosa di cui ci si debba vergognare: tutto al contrario.
Per gli antichi Romani, “ingenuus” significava “naturale”, come in Lucrezio («De Rerum natura», 1,230: «unde mare ingenui fontes externaque longe flumine suppediant?»), nel senso di “generato dentro”, da cui il verbo italiano, ormai poco adoperato, “ingenerare”, ossia di dare origine a qualcosa. Sempre per i Romani, “ingenuus” era anche, per estensione, la persona nata in condizione di libertà, in contrapposizione a “libertinus”, che era lo schiavo affrancato e divenuto, quindi, giuridicamente libero per un atto di magnanimità del suo padrone.
Essere ingenui, quindi, non è un disonore e “ingenuità” non è una parolaccia; tanto è vero che, nell’italiano moderno, solo in seconda o terza battuta riveste una connotazione negativa, quella di “sempliciotto, credulone”; mentre il significato fondamentale è quello di persona innocente, candida, priva di malizia; o, ancora, di persona schietta, semplice, naturale, che è così come appare e non cerca per niente di simulare o dissimulare i propri pensieri e sentimenti.
Qualcosa di cui si può essere fieri, dunque.
A tali significati noi aggiungeremmo quelli di «persona capace di stupirsi, di ammirare il mistero del mondo, di provare gratitudine e reverenza davanti alle meraviglie del creato, a cominciare da quelle del nostro stesso esistere»; e, inoltre, capace di avvicinarsi al prossimo senza artifici, senza secondi fini, senza astuzie di alcun genere, ma mostrandosi per quello che è, con tutti i suoi pregi e difetti, trascurando volutamente di apparire migliore al solo scopo di piacere.
Cercare di sembrar migliori di quello che si è corrisponde ad una forma di manipolazione del prossimo: è una maniera di ingannarlo, di usarlo, di piegarlo ai nostri scopi, di ridurlo a strumento dei nostri progetti e dei nostri calcoli; e Dio sa quante persone lo fanno.
Ecco: i nostri padri e i nostri nonni erano ingenui, perché erano schietti; non cercavano di piacere ad ogni costo, talvolta erano perfino rudi, ma quasi sempre leali e sinceri.
Il padre e la madre non cercavano di piacere ai loro figli: si sforzavano, molto più semplicemente, di insegnare loro la differenza fra il bene e il male, magari con l’ausilio di qualche punizione e anche, orrore degli orrori secondo i moderni pedagogisti, di qualche sonoro ceffone.
Il sacerdote o l’insegnante non cercavano di piacere ai loro fedeli o ai loro studenti: si adoperavano per trasmettere loro, rispettivamente, il senso del sacro e l’amore, o almeno il rispetto, per l’intelligenza e per la cultura; e scusate se è poco.
Il lavoratore manuale non cercava di apparire diverso da quello che era. Faceva il proprio mestiere meglio che poteva - il fornaio, il ciabattino, il barista, il contadino - rispettando un codice etico che aveva ricevuto da generazioni: essere sobrio ed onesto, non mentire, non imbrogliare nessuno e confidare nell’aiuto della Provvidenza.
I giovanotti cercavano, quelli sì, di piacere alle ragazze, forse raccontavano anche qualche balla per darsi un tono, ma sempre entro certi limiti: se erano poveri, non se ne vergognavano; le uniche vergogne erano l’essere disonesti e non aver voglia di lavorare, a tutto il resto c’era rimedio e lo si poteva mostrare agli altri senza vergogna.
Qualcuno, leggendo queste righe, potrebbe pensare che stiamo facendo della poesia, oppure che stiamo inutilmente rimpiangendo un passato di sapore quasi pasoliniano, che - forse - non è mai esistito; ma non è vero.
Quel tempo è esistito e noi possiamo testimoniarlo, perché lo abbiamo vissuto.
Allora le nostre mamme cantavano, in casa, mentre sbrigavano le faccende quotidiane, perché avevano il cuore contento: anche se, nell’armadio, avevano tre o quattro vestiti in tutto e anche se dalla parrucchiera ci andavano, al massimo, una volta al mese.
Chi le ha mai sentite cantare, le giovani donne di oggi, anche se vivono in una bella casa, se hanno una bella automobile in garage, se fanno le ferie come minimo alle Isole Canarie, con i rispettivi mariti o compagni o amanti o come li vogliamo chiamare, comunque uomini sbiaditi, quasi evanescenti, che oggi ci sono e domani non ci saranno più?
E chi li sente più, i bambini, correre e saltare in strada e ridere come matti, nelle sere d’estate, felici soltanto di esistere e di non essere soli?