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«Libia 2011»: un paese che non c'è più

di Gian Paolo Calchi Novat - 13/10/2011


 
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Autocrazia, insurrezione, libertà. Il quadro della transizione in Libia - o per meglio dire della guerra che ha accompagnato o addirittura determinato la transizione - ha ancora molti lati oscuri, per non parlare dell'incertezza degli sviluppi futuri. Le manipolazioni in cui si sono esercitate le potenze impegnate nella guerra contro Gheddafi potrebbero sortire effetti sgraditi.
Una evoluzione molto vicina a un'eterogenesi dei fini potrebbe persino favorire una successione gestita da una coalizione in cui gli islamisti - temuti dagli occidentali a parole - potrebbero avere una funzione preponderante. Ancora nel mese di gennaio, Frattini giustificava l'appoggio dell'Italia al regime poi tanto riprovato con la funzione preziosissima di tenere lontano da Bengasi e quindi dall'Italia il pericolo incombente di cellule terroriste. Gli Stati Uniti, come si deduce anche dai documenti rivelati da Wikileaks, guardano soprattutto alla sicurezza delle fonti energetiche e per soddisfare questa esigenza strategica sono pronti a servirsi di brandelli persi per strada da al-Qaeda e adeguatamente riciclati attraverso la Cia (come sarebbe il caso del governatore militare installato a Tripoli dai ribelli o dalla Nato). Per il momento, il recentissimo libro di Paolo Sensini, Libia 2011 (Jaca Book, pp. 174, euro 12, prefazione del vescovo di Tripoli Giovanni Martinelli), che si muove bene fra cronaca, testimonianza e qualche rinvio storico, si ferma alla constatazione perentoria ma nient'affatto forzata che la Libia non c'è più.
L'epitaffio vale anzitutto per la Libia di Muammar Gheddafi e le sue capacità - non sempre rettilinee e coerenti, al di là degli abusi all'interno e delle trasgressioni verso l'esterno - di sfidare gli assetti fissati dai vertici del sistema. Probabilmente questa «specialità» si è via via logorata anche perché chi di contraddizioni ferisce di contraddizioni può perire. Giustamente Sensini evidenzia l'incongruità di assommare tutti i poteri e tutte le iniziative in uno stato mentre si cercava di renderlo irrilevante come «fulcro di identità politica». Sulla scena del mondo, Gheddafi aveva finito per adattarsi a certi obblighi che sono propri della globalizzazione mantenendo in modo un po' avventato la pretesa di comportarsi come se gli spettassero, magari su un piano più dimesso, i privilegi del Centro.
L'accordo firmato con l'Italia del 2008 ne è una conferma quasi di scuola. L'allergia del Colonnello alla guerra fredda lo aveva costretto quasi sempre al ruolo ingrato di «cavaliere solo» sfruttando al più il braccio di ferro Est-Ovest per riempire gli arsenali militari libici. Comunque, nel 2011 al pari del 1986, Gheddafi si è trovato irrimediabilmente isolato: nessuno l'ha soccorso oggi come allora e anche le armi per cui aveva speso così tanto non lo hanno salvato. La ritrosia dei cugini africani ad avallare la logica dell'interferenza «umanitaria» per sostenere gli insorti non è bastata a compensare il totale abbandono dei fratelli arabi. Non è detto però che la diversità della Libia sia finita con Gheddafi perché lo stesso Gheddafi ha basato la sua politica su dati culturali e geografici che potrebbero riproporsi anche nel «dopo».