
Non ci si può nemmeno più sposare con quel poco di appariscenza che rende magico il giorno dell’unione. Giustamente, la cronista fa la domanda che sorge spontanea: ma una cerimonia povera, solo il rito ma ricca di cuore, no? No, secondo i due. Che tradiscono una mentalità mercantile che mette i brividi: «Mica vogliamo la carità, la nostra è una proposta di marketing, un cambio-merci: gli sponsor ci danno qualcosa e noi garantiamo visibilità e pubblicità», è l’agghiacciante risposta di Benedetta. Il pudore e la riservatezza di un evento che dovrebbe essere sacro e ristretto ai propri cari, familiari e amici? Macchè. Secondo l’osceno andazzo di mettere in piazza le proprie cose più intime, per attirare gli inserzionisti i futuri sposi apriranno un blog dove pubblicheranno logo, siti e foto delle aziende che li sponsorizzeranno. Matteo espone un vero e proprio business plan: «Offriamo la possibilità di mettere totem con nome e pubblicità di chi ci sostiene davanti alla chiesa e al ristorante, poi un tavolo dedicato agli sponsor, con depliant, biglietti da visita. Ma pensiamo anche ad adesivi e depliant da distribuire nelle Fiere dedicate agli sposi a Padova e a Bologna. Naturalmente massima pubblicità tra parenti e amici. Poi cercheremo di coinvolgere tivù e giornali il giorno delle nozze. Siamo disponibili ad altre forme di cambio- merci che ci suggeriranno loro».
I soliti cervelli all’ammasso tacceranno ciò che sto per scrivere come moralismo, ma io, se non avessi un soldo per sposarmi, lo farei comunque. Sobriamente ma dignitosamente. Poveri ma belli dentro. Non c’è bisogno dell’ambaradan di status-symbol nuziali, dovrebbe bastare un festeggiamento con poche pretese ma molto affetto. E di sicuro non occorre, per pronunciare il fatidico “sì”, mettere in piedi un disgustoso ufficio-vendite dove si fa mercato persino del sentimento più disinteressato che ci sia: l’amore. Un ennesimo scampolo di quotidiana disumanità commerciale. C’è da compatirli, i due sposini di marca.