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Obama, scene da basso impero

di Michele Paris - 17/11/2011

 
    


Ultimato alle Hawaii il vertice APEC (Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico), il presidente americano Barack Obama è atterrato mercoledì in Australia per una visita destinata a cementare la partnership militare tra i due paesi alleati in funzione anti-cinese. In occasione dell’incontro tra l’inquilino della Casa Bianca e il primo ministro, Julia Gillard, è stato festeggiato il 60esimo anniversario dell’alleanza militare tripartita tra USA, Australia e Nuova Zelanda (ANZUS) e, soprattutto, è stato dato l’annuncio ufficiale del prossimo dispiegamento di truppe militari americane sul suolo australiano.

In una conferenza stampa congiunta nella capitale, Canberra, Obama e il premier laburista Gillard hanno presentato il progetto di collaborazione che prevede, a partire dal prossimo anno, la presenza di circa 250 marines americani in una base di Darwin, nel nord dell’Australia. Il numero dei militari a stelle e strisce potrebbe salire fino a 2.500 nei prossimi cinque anni. Inoltre, secondo l’accordo bilaterale, l’Australia ospiterà a rotazione un certo numero di aerei da guerra statunitensi e viceversa.

Il patto tra i due paesi non si tradurrà nella creazione di una base americana stabile in Australia ma permetterà ai militari USA di avere più rapido accesso a un’area cruciale del sud-est asiatico come quella del Mar Cinese Meridionale. Dal nord dell’Australia è infatti più agevole raggiungere questa regione che dalle basi americane situate in Giappone e in Corea del Sud. In realtà, gli Stati Uniti dispongono già di una base in territorio australiano, quella dell’intelligence a Pine Gap, nel centro del paese, condivisa con i colleghi locali.

Questa iniziativa di Washington in Australia fa parte di una più ampia strategia, destinata a riproporre una massiccia presenza americana in Estremo Oriente e nell’Oceano Pacifico, adottata dall’amministrazione Obama fin dall’indomani del suo insediamento nel gennaio 2009. Quest’area è giudicata dagli USA come cruciale per i propri interessi strategici, da difendere contenendo a tutti i costi la crescente espansione dell’influenza cinese.

Dal Mar Cinese Meridionale transitano alcune delle rotte commerciali più cruciali e trafficate di tutto il pianeta e, come se non bastasse, non solo al di sotto di questi fondali ci sono ingenti risorse petrolifere non ancora esplorate, ma i confini delle acque territoriali e alcune isole sono aspramente contese tra Pechino e paesi come Filippine e Vietnam. Su queste rivendicazioni gli Stati Uniti hanno da qualche tempo fatto sentire la loro voce, sostenendo la necessità di trovare una soluzione mediata dalla comunità internazionale, laddove Pechino predilige invece la strada di accordi bilaterali senza interferenze esterne.

Il ritorno della regione estremo orientale al centro degli interessi americani è stata ribadita ieri da Obama a Canberra con un tono di minaccia nemmeno troppo velato. Per il presidente democratico, USA e Australia sono “due nazioni del Pacifico” e la sua visita nella regione serve a chiarire che “gli Stati Uniti stanno aumentando il loro impegno verso l’intera area dell’Asia e del Pacifico”. Alle iniziative americane di questi giorni la Cina ha risposto duramente, bollando il prossimo dispiegamento di soldati USA in Australia come “una mossa inopportuna” che “potrebbe contrastare con gli interessi dei paesi della regione”, come ha affermato il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Liu Weimin.

Obama, da parte sua, sostiene che la presenza statunitense nella regione non deve essere interpretata in un’ottica anti-cinese e che, anzi, Washington vede con favore la crescita di Pechino e gli sforzi per affrancare dalla povertà centinaia di milioni di cinesi. In realtà, com’è evidente, tutta la strategia degli USA in Asia orientale è guidata precisamente dalla necessità di fronteggiare l’espansionismo e la competizione cinese sui mercati della regione.

Tutt’al più, gli Stati Uniti sono interessati alla crescita del mercato interno cinese, come destinazione del proprio export, e all’apertura del paese alla penetrazione ancora più sostenuta dei capitali americani. In questo senso vanno interpretati i continui appelli - ripetuti da Obama e Julia Gillard mercoledì a Canberra - per una Cina che “rispetti le regole del gioco” sullo scacchiere globale.

L’atteggiamento complessivamente più aggressivo di Washington nei confronti della Cina è ora dettato anche da esigenze di politica interna. A un anno dalle elezioni presidenziali, Obama è pressato da quasi tutti i candidati repubblicani alla Casa Bianca, che l’accusano di essere troppo tenero verso Pechino e chiedono misure punitive, ad esempio, sulle questioni del mancato rispetto della proprietà intellettuale e della svalutazione artificiosa della valuta cinese per favorire le esportazioni.

Anche per questo, nel recente summit dell’APEC alle Hawaii, l’amministrazione Obama ha cercato così di adoperarsi per rafforzare l’area di libero scambio trans-pacifica (Tran-Pacific Partnership, TPP) - formata da Brunei, Cile, Nuova Zelanda, Singapore, Australia, Malaysia, Perù, Vietnam e Stati Uniti - da cui la Cina continua significativamente ad essere esclusa. Proprio durante il vertice di Honolulu, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha tenuto un discorso nel quale ha ripetuto come la creazione di un sistema di relazioni tra il proprio paese e l’area Asia-Pacifico sia diventata una priorità americana fin dal 2009.

Lo stesso messaggio è stato trasmesso, a Pechino così come agli alleati americani nella regione, anche dal Segretario alla Difesa, Leon Panetta, nel corso di un suo recente tour asiatico. Il numero uno del Pentagono ha escluso che i possibili futuri tagli al bilancio della Difesa porteranno a una diminuita presenza americana in Asia orientale. Questo riallineamento degli obiettivi strategici degli Stati Uniti, come ha fatto notare qualche giorno fa il consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, è anche il risultato della presa di coscienza che le guerre in Iraq e Afghanistan hanno nel recente passato distolto l’attenzione americana dall’Estremo Oriente, a tutto vantaggio degli interessi cinesi.

Pechino ha effettivamente costruito intensi rapporti soprattutto commerciali con i paesi del sud-est asiatico in questi anni di crescita impetuosa. Inoltre, le preoccupazioni degli USA sarebbero causate dalla presunta corsa agli armamenti da parte della Cina, anche se il budget militare di quest’ultima rimane tuttora una frazione di quello, colossale, del Pentagono.

In ogni caso, molti dei paesi oggi economicamente dipendenti dalla Cina sono alla ricerca di legami più stretti con Washington, così da bilanciare l’influenza del potente vicino settentrionale. Alcuni sono peraltro alleati storici degli USA, mentre altri - come il Myanmar - solo ora stanno mostrando aperture strategiche verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, da parte loro, cercano di sfruttare ogni occasione per schierarsi al fianco di questi stessi paesi, spesso alimentando le divergenze tra di essi e Pechino. La più recente disputa in questo senso è stata registrata proprio questa settimana, quando la Cina ha emesso una nota di protesta ufficiale verso un progetto di esplorazione delle Filippine in un’area contesa al largo delle coste di quest’ultimo paese.

A ulteriore conferma dell’importanza che gli americani attribuiscono a quest’area del pianeta, dopo la visita in Australia, Barack Obama si recherà a Bali, in Indonesia. Il 19 novembre, qui andrà in scena infatti il sesto Summit dell’Asia Orientale (EAS), un forum annuale dei leader di 16 paesi della regione che verrà allargato quest’anno anche a Russia e Stati Uniti e al quale, per la prima volta, parteciperà in prima persona un presidente americano in carica.