Il mammone killer fra cronaca e tragedia greca
di Stenio Solinas - 12/02/2012
In ... e ora parliamo di Kevin le colpe di un ragazzino ricadono sulla madre, una Tilda Swinton in stato di grazia
Mentre in Italia infuria il dibattito sui figli mammoni e bamboccioni, arriva un film che invita a considerare anche un altro aspetto del problema. Si intitola ... e ora parliamo di Kevin e tratta dei mostri che, senza accorgercene, alleviamo in casa: violenti, sadici, assassini...Ingrandisci immagine
Kevin di Lynne Ramsay, con una superlativa Tilda Swinton, racconta proprio i rischi esplosivi che derivano dal perdere il contatto con i propri figli. Qui c’è un adolescente (il gelido e antipatico Ezra Miller) che un bel giorno entra nel suo liceo, ne blinda le porte con lucchetti da bicicletta e poi con arco e frecce fa strage dei compagni di scuola. Le avventure di Robin Hood era l’unica lettura con cui sua madre era riuscito a far breccia nella sua resistenza di bambino e, crescendo, il padre (John Reilly) gli aveva regalato archi sempre più professionali. È un mostro, Kevin, l’emblema del male, un essere patologicamente portato alla distruzione di ciò che lo circonda?
Negli ultimi anni le cronache hanno portato alla ribalta queste esplosioni di violenza, di solito conclusesi con la morte, di propria mano o per opera della polizia, del massacratore in erba. Qui, invece, il ragazzo non si suicida né viene ucciso: si fa docilmente arrestare, quasi assaporando la propria resa: ha appena sedici anni, non passerà il resto della sua vita in galera... Tilda Swinton è Eva, la madre. È una che ha girato il mondo, ha scritto libri di viaggio, pensa di conoscere la vita. Quando si sposa, il marito le chiede di piantare radici: Kevin è un figlio voluto, eppure inconsciamente è anche l’ostacolo insormontabile che l’ha costretta a un cambiamento radicale. Lei gli si è comunque dedicata anima e corpo, ma resta un’ostilità sorda, mai dichiarata e sempre presente.
Per certi versi Kevin è una tragedia greca e il fisico quasi anoressico della Swindon, il cui pallore naturale nel film è accentuato per contrasto da un colore scuro di capelli, rimanda a quelle Euridici della classicità, sopravvissute agli olocausti familiari e però inseguite e perseguitate da ciò che si è loro abbattuto sopra, impossibilitate a non convivere con la colpa, l’impossibilità di un riscatto e persino di un’espiazione.
Oltre trent’anni fa Robert Bresson fece un film che aveva per protagonista un ragazzo solitario, scontroso, Charles, conscio della propria diversità. Ha provato ogni cosa, dal sesso alla politica attiva, alla droga, ma sempre con l’atteggiamento di superiorità aristocratica che gli ha permesso di uscire indenne da ogni dramma per riaffermare se stesso e il proprio disprezzo verso il mondo circostante. Non è un animale da gruppo (infatti il «gruppo», pur ammirandolo, lo evita), la sua superiorità e la sua ricerca di assoluto è tale e tanta da non accettare mezze misure: esige tutto dalla vita, fino alla scelta estrema della morte. Il film si intitolava Il diavolo probabilmente. Visto con gli occhi del presente, è un film angelico.