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Gilbert Rist: storia di una credenza chiamata sviluppo

di Paolo Scroccaro - 10/07/2006

 

 

"La storia dimostra che lo sviluppo è un'invenzione re­cente. Se il mondo ha potuto vivere senza di esso per tanto tempo,è legittimo pensare che la vita continuerà quando esso sarà scomparso”(G.Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale. Bollati Boringhieri, 1997,pag.252).

Oggi la Decrescita è un’idea abbastanza conosciuta e diffusa; non era così nel 1997, quando uscì in lingua italiana il testo sopra citato di Rist. L'autore è professore all'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI STUDI SULLO SVILUPPO (IUED)di Ginevra,e in precedenza si era già occupato ampiamen­te di questa tematica,come evidenziano le numerose referenze bibliografiche citate nel testo che stiamo considerando. E’lo stesso Serge Latouche a ricordare l’importanza delle sue ricerche in questo campo; nella premessa al recente “Come sopravvivere allo sviluppo” Serge si esprime così:”Desidero tuttavia menzionare in particolare il mio clone ginevrino, Gilbert Rist, con cui da oltre trent’anni condivido i motivi essenziali di queste analisi e che, più di ogni altro, ha contribuito ad arricchirli”. Stante questo lusinghiero riconoscimento del principale ispiratore della Decrescita, a maggior ragione G. Rist può ben collocarsi accanto agli altri critici delle idee ".sviluppiste":M.Rahnema,G.Esteva,W.Sachs,F. Capra, R. Panikkar, E. Goldsmith....(e, in Italia, M. Pallante, M. Bonaiuti, P. Cacciari… ). Il sottotitolo del volume di Rist già preannuucia la tesi di fondo:l'idea di "Sviluppo” , con le conseguenti promesse di maggior benessere per i popoli è so­lo una recente credenza occidentale, una fede (il termine è di Rist), una fede nel senso più deteriore, inventata nei paesi occidentali a capitalismo maturo ed esportata anche nei paesi terzomondisti e  “sottosviluppati".

Perché una mediocre e passeggera credenza? La risposta può essere  

semplificata in questo modo: perché lo sviluppo economico, dove si è imposto, lungi dal migliorare le sorti dell'umanità e del pianeta, le ha aggravate notevolmente, approfondendo le ingiustizie sociali preesi­stenti, generando nuovi meccanismi di esclusione a danno della stra­grande maggioranza dell'umanità (ed a vantaggio di pochi), minaccian­do una volta di più gli equilibri ecologici (vedi deforestazione e desertificazione crescenti, effetto serra, allargamento del buco dell'ozono, estinzione di specie animali e vegetali etc. ), trascinando verso un produttivismo frenetico e irresponsabile, che ha comportato lo sradicamento alienante di popoli e culture.

La fine del sovietismo, salutata da molti come una liberazione, ha di fatto agevolato il trionfo definitivo del liberalismo e i programmi "sviluppisti", apparsi più credibili nella formula neoliberistica ri­spetto alle versioni produttivistiche socialiste, accusate di ineffi­cienza.

In realtà, "questa credenza, così comunemente condivisa perché ovunque imposta, non corrisponde ad alcuna realtà storica", scrive Rist (pag. 216), ed i fedeli (gli sviluppisti) "non si preoccupano del fatto che le loro proprie pratiche contraddicono regolarmente i valori ai quali dichiarano di aderire" (pag. 218).

Occorre perciò condividere la conclusione di A. Hirschman quando os­serva che "il declino dell'economia dello sviluppo è in parte irreversibile”

poiché essa "lungi dall'apportare la buona vita sperata,non ha fatto che accrescere le ineguaglianze e la marginalizzazione" (pag.221).

Come mai le bugie "sviluppiste" trovano ancora,nonostante i clamoro­si insuccessi,molti sostenitori?

Questa la risposta di Rist:perché,attorno all'ipotesi sviluppista, si è creato,a livello internazionale,un apparato mastodontico,arti­colato anche a livello locale,che può sopravvivere solo grazie agli investimenti sviluppisti.Il mega-apparato è formato dai funzionari della Banca Mondiale,del Fondo Monetario,del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo,delle varie agenzie con pretese più o meno umanitarie(UNICEF,FAO,OMS,UNESCO,O.I.LAVORO,... );a tutto ciò si aggiunga il codazzo dei vari ministeri nazionali per la Cooperazione e lo Svilup­po, i divulgatori agricoli,gli "esperti", i ricercatori,gli agronomi, i periti forestali,gli operatori sanitari.i vari pianificatori,i volontari delle ONG,i missionari e chi più ne ha più ne metta…senza dimenticare poi le aziende multinazionali più che mai interessate a investire e smerciare nei vari "paesi in via di sviluppo"... "E come cifrare tutti i posti di lavoro indotti dall'insieme di que­ste attività multiformi che non potrebbero esistere senza segretarie, senza mezzi di telecomunicazione e di trasporto,senza locali,senza fornitori di materie di ogni sorta e senza compagnie aeree?"(pag.224). Veri e propri eserciti con o senz'armi(trattasi di dettaglio seconda­rio), di varia nazionalità,sono schierati per far funzionare i progetti sviluppisti,e nel loro insieme costituiscono un mega-apparato sopranazionale, con giri d'affari multimiliardari ogni anno;a questo punto,po­co importa che tali progetti risultino costosissimi e fallimentari a ripetizione;ciò che veramente conta,per gli uomini dell'apparato svi­luppista, è che esso non venga smantellato e si perpetui indefinitamen­te, attirando energie,miliardi e speranze.. .in vista di fini dichiarati che mai verranno realizzati(in realtà si potrebbe dire che,anche in questo caso, il mezzo,cioè 1'Apparato,da mezzo si è trasformato in fine assoluto).

Vale per l'Apparato sviluppista ciò che molti hanno più volte ripetuto a proposito del P.N.L.(Prodotto Nazionale Lordo):se si dovesse calcola­re tutto,cioè non solo quanto prodotto,ma anche le perdite,cioè quanto consumato e distrutto per ottenere un certo P.N.L. o un certo livello di funzionamento dell'Apparato,si capirebbe immediatamente il carattere mistificatorio e fallimentare del P.N.L. e dell'Apparato sviluppista ad un tempo!Si capirebbe che,in ogni caso,il gioco non vale la candela! Gli economisti che continuano a blaterare di P.N.L. e SVILUPPO,più che scienziati sono degli ideologi o dei pubblicitari addestrati a conteggiare,in modo unilaterale,solo ciò che gli è conveniente per far sopravvivere il miraggio sviluppista, o dei fedeli esaltati e dogmatici che non vogliono guardare in faccia la realtà(cioè il carattere fallimentare dei loro progetti di crescita ad oltranza).(Una tesi simile si potrebbe sostenere a proposito dell’apparato medico-scientifico: vedi l’Ecologist italiano n. 4).

 

 

 

 

 

 

“La difficoltà principale è allora questa:come far saltare la struttura religiosa che protegge lo sviluppo?"(pag.249). La fede irrazionale nello sviluppo è ancora molto forte in vaste aree mondiali,è una specie di nuova religione totalitaria e fondamentalista, cui non mancano i predicatori integralisti,vale a dire gli eco­nomisti asserviti,che sono la stragrande maggioranza: essi giocano un ruolo molto importante nella riproduzione di un immaginario collettivo piegato alle esigenze della crescita.

Da qualche parte,perciò,ci si accorge che la prima mossa,quella decisi­va,non può consistere nel voler cambiare immediatamente i fatti:più semplicemente,basterà cambiare per il momento 1'interpretazione di es­si.Un proverbio africano citato nel testo ci aiuta a capire che cosa significhi leggere in modo diverso gli stessi fatti: "Tu sei povero perché guardi quel che non hai.Vedi quel che possiedi, vedi quel che sei,e ti scoprirai straordinariamente ricco". In altre parole,i miraggi degli sviluppisti hanno fatto breccia là dove la gente si è identificata nella loro interpretazione,nel loro paradigma consumistico-produttivistico,cercando conseguentemente di inseguire quei beni economici che venivano loro promessi,in sostituzio­ne della nobiltà e semplicità del vivere tradizionale,rivisto dagli inno­vatori di turno come scarsità e insopportabile povertà,come arretratez­za da rottamare in cambio di "incentivi allo sviluppo".In via preliminare, sarà necessario rigettare quest'ultima interpretazione,per rivalutare gli stili di vita che si sottraggono ai modelli sviluppisti transna­zionali; ciò sarà sufficiente per una rottura col sistema culturale-economico dominante,come già avviene in certe situazioni,dove esso "non è più considerato un modello da adottare ad ogni costo;di colpo finisce la frustrazione provocata dalla impossibile imitazione di uno pseudo-ideale alienante,e le energie che essa aveva finora mobilitato possono essere investite in un procedimento nuovo:la riscoperta da parte di ciascuno della sua propria 1egge"(pag.248-249). Questo compito,ovviamente,non può essere affidato agli economisti che hanno fede nella crescita e ne vivono(come dice giustamente Rist); ci sembra più realistico rivolgersi a quelle culture,d'Oriente e d'Occidente,che da sempre costituiscono delle alternative alle ideologie sviluppiste, in quanto offrono seri elementi di dissidenza che meritano di esser ripensati e rivalorizzati in chiave ecofilosofica. Ciò è in sintonia con il pensiero di Latouche, il quale, contro l’imperialismo del pensiero unico, auspica la rivalutazione dei molteplici saperi tradizionali, considerando che le culture umiliate e le sopravvivenze precapitalistiche possono fornire dei punti d’appoggio per soluzioni alternative.

Terminiamo perciò con un interrogativo, che indica anche una traccia di lavoro indispensabile: nel contesto post-industriale del doposviluppo, come rigenerare i semi di saggezza depositati in tali culture, in funzione di un nuovo abitare sulla Terra, globalmente sostenibile e quindi ecologicamente ed eticamente responsabile nei confronti dell’intera natura?

 

Paolo Scroccaro