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La soppressione dei tram elettrici, una soluzione poco intelligente che va ripensata

di Francesco Lamendola - 28/06/2012

 

Oggi in molte parti d’Europa, e anche nella stessa Italia, si stanno ripensando le discutibili scelte che indussero le amministrazioni comunali, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, a sopprimere i vecchi tram elettrici per sostituirli con gli autobus su gomma.

Sono molte le ragioni che stanno favorendo tale ripensamento: il tram, oggi dotato di una tecnologia più sofisticata di quella in uso sessant’anni fa, garantisce tutta una serie di vantaggi come mezzo di trasporto urbano: snellisce il traffico e contribuisce a renderlo più ordinato; è più silenzioso dell’autobus e inquina di meno; costa di meno della metropolitana e offre un servizio più capillare; è più amato dai cittadini, che lo preferiscono per ragioni sia di ordine pratico, sia di ordine affettivo ed estetico.

Già, affettivo ed estetico: e qui non si può non riandare a quella frettolosa decisione di mettere in pensione i vecchi tram elettrici, cui la popolazione era affezionata, perché li vedeva come elementi caratterizzanti il panorama cittadino e quasi come il simbolo della città stessa: ciascuna linea municipale con le carrozze verniciate di un certo colore, sicché al solo vederle passare lungo le rotaie, sferragliando allegramente, si riconosceva di primo acchito a quale linea appartenessero e dove stessero andando.

Il legame affettivo era forte: nei giorni feriali si prendeva il tram per recarsi al lavoro o, magari, per recarsi a fare acquisti o sbrigare faccende; nei giorni festivi erano le famiglie a servirsene: quelle cittadine per concedersi una piccola gita nell’hinterland, al mare, al lago, in collina, mangiando in trattoria - o sui prati, nella bella stagione - e rientrando alla sera, dopo aver trascorso alcune ore serene; quelle di paese per fare una puntata in città, assistere alla proiezione di un film o a qualche altro spettacolo.

Era un legame così profondo, così caratteristico, che molte cittadinanze tendevano a identificarsi con il proprio tram urbano; si veda, a titolo di esempio, il bel libro di Renzo Valente: «Udine, un paese col tram»: dove i tram extra-urbani, veramente, erano due: il “tram bianco” della linea per Tarcento e il “tram verde” della linea per San Daniele del Friuli. Uscivano di città da Piazzale Osoppo, a nord di borgo Gemona, e costituivano un elemento tipico del paesaggio urbano, quasi quanto le vecchie osterie con il pergolato di edera o quanto i vecchi cortili dove, la sera, se il tempo lo permetteva, si faceva un po’ di vita comunitaria (tanto che lo stesso Valente ha parlato, con espressione efficacissima, di “civiltà del cortile”, così come si parla di “civiltà dell’osteria”).

La decisione di sopprimere i tram giunse repentina, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, dopo vari decenni di onorato servizio e di consolidata familiarità: la linea del “tram bianco” era stata istituita addirittura nel 1915, cioè nei primi mesi della prima guerra mondiale (allorché Udine, ricordiamolo, era la sede del Quartier generale dell’esercito e tale rimase fino all’ottobre 1917, quando si verificò il disastroso sfondamento austro-tedesco di Caporetto).

La scomparsa dei tram elettrici avvenne contestualmente alla copertura delle rogge cittadine, di cui abbiamo già parlato, e precedette di poco, o accompagnò, la demolizione di alcuni cinema “storici” e la chiusura di un certo numero di osterie fra le più caratteristiche; sicché si può ben dire che la svolta della metà del secolo fu decisiva, a Udine come in tante altre città italiane piccole e medie (il capoluogo friulano aveva toccato nel 1951 i 72.000 abitanti), per non parlare di quelle più grandi, riguardo alla trasformazione dell’aspetto urbanistico in senso “moderno”, e alla distruzione del vecchio volto e della vecchia anima “popolare”.

Ha scritto Aldo Rizzi in «Udine. Guida storico-artistica» (Udine, Arti Grafiche Friulane, 1978, pp. 62-65):

 

«.. prima ancora delle rogge erano scomparsi i piccoli e sferraglianti tram elettrici urbani tanto cari al cuore degli Udinesi che sono molto affezionati alle cose del passato. Il 1° luglio 1951 fu soppresso il tratto Piazza Liberà -Piazza del Pollame della linea che portava a Santa Caterina e che l’anno dopo fu definitivamente levata. Con l’inizio del 1952 fu pure soppressa la linea che dalla stazione ferroviaria  conduceva all’Ospedale civile passando per Piazza Libertà. Ma già dopo la prima Guerra Mondiale era stata tolta la linea che dalla stazione ferroviaria portava in Piazza Libertà  passando per Piazza Garibaldi e Via Cavour. Tutto ciò venne effettuato per rendere più veloci i pubblici trasporti urbani sostituendo i tram con comodi autobus. Fu così che si passò anche alla soppressione delle linee tramviarie extra-urbane. La prima a essere sacrificata fu la linea Udine-San Daniele. Già nel 1950 alcune corse tramviarie erano state sostituite con altrettante corse d’autobus. La soppressione definitiva della linea tramviaria avvenne nell’ottobre del 1955,. Ma il tram che lasciò un vivo ricordo nostalgico, che permane ancora in molti Udinesi e Friulani della zona collinare, fu il “tram bianco di Tricesimo” che in realtà arrivava fino a Tarcento. Le sue comode e veloci vetture cessarono definitivamente di circolare alla fine del 1959ma siamo certi che molti Udinesi preferirebbero ancora recarsi a fare le loro scampagnate nella zona collinare proprio con quel tram che dopo Molin Nuovo correva nella campagna e fra le verdi colline lasciando entrare nella bella stagione dai finestrini aperti il profumo dei campi e delle siepi fiorite.

Nel dopoguerra scomparvero gradatamente dalla scena cittadina non solo i caffè ed i ritrovi già menzionati, ma anche i locali di spettacolo cari agli Udinesi della precedente generazione. La chiusura del Caffè Dorta costituì un colpo al prestigio e al decoro della città. I suoi frequentatori si rifugiarono nelle sale del caffè rivale che era il Contarena e che fu l’unico a sopravvivere fra i caffè udinesi di prestigio. Però, dopo che vi sono effettuati lavori di restauro e di parziale trasformazione, l’ambiente ha perso gran parte del suo tono e del suo fascino che faceva morire dalla voglia d’entrarvi i giovani squattrinati di quarant’anni fa.

Quanto ai locali di spettacolo sparirono l’uno dopo l‘altro il Cinema Italia, il Cinema Moderno (che fu chiamato Impero in tempi di fatidica retorica), ed il popolarissimo ed economico Cinema Cecchini. Fu demolito il Cinema Eden, che per la sua ubicazione era un ambiente “chic”, e sulla sua area sorse un tempio del consumismo contemporaneo ossia un grande magazzino [per la precisione, un grande magazzino della Upim]. Venne “giustiziato” anche il Cinema-teatro Puccini, quello che era stato il veramente glorioso Teatro Sociale e così Udine perse l’unico ambiente dove oltre a spettacoli di prosa si potevano dare rappresentazioni di opere liriche e di operette. […]

A tutti quei cinema, a quei tram, alle rogge,  agli ambienti di ritrovo, alle vie, alle piazze, agli edifici di cui esiste solo un vago ricordo, dedica alcune delle sue più belle e commosse pagine lo scrittore Renzo Valente nel suo libro “Udine 16 millimetri” al quale rimandiamo volentieri il lettore desideroso d’approfondire queste nostre brevi e frettolose note.»

 

La domanda che non può non sorgere spontanea, a questo punto, è che cosa abbia spinto la classe dirigente di allora, la borghesia cittadina, a prendere simili decisioni urbanistiche e che cosa abbia fatto il ceto degli intellettuali mentre tutto ciò avveniva, che cosa abbia spinto scrittori, artisti, architetti, a non levare la benché minima obiezione o, peggio, a salutare entusiasticamente la distruzione dell’anima delle città e ad acclamare incondizionatamente l’avvento del “nuovo”, sul modello consumista d’importazione americana.

Nel caso della soppressione dei tram, la decisione si è rivelata non solo totalmente irrispettosa dell’antico paesaggio urbano, ma anche sostanzialmente stupida: in nome della velocità si sono creati dei problemi di inquinamento ambientale e di intasamento del traffico che, alla fine, hanno vanificato anche i supposti vantaggi, mentre hanno contribuito a peggiorare di molto la qualità della vita nei centri urbani; e tale scarsa lungimiranza è dimostrata dalla circostanza che, oggi, molte amministrazioni comunali hanno ripensato quelle scelte e sono ritornate su quelle decisioni.

Il fatto è che, allora come oggi, l’Italia non aveva una classe dirigente degna di questo nome: aveva una borghesia di arricchiti, che ragionava esclusivamente in termini di profitto e la cui mentalità avida e cialtrona si andava diffondendo anche nelle altre classi sociali. Per il contadino che andava in fabbrica, ad esempio, il passaggio dalla condizione di agricoltore a quella di operaio era vissuto sovente come una promozione sociale, non come uno sradicamento e una perdita di identità.

Solo là dove esisteva una borghesia intelligente, con una seria tradizione culturale e di governo, la transizione verso la modernità ha avuto luogo in forme graduali e accettabili: e ciò principalmente nell’Europa settentrionale, dove, tanto per fare un esempio, il direttore di banca e magari il membro d’una famiglia reale scandinava non si vergognano affatto di recarsi al lavoro in bicicletta, perché non considerano l’automobile privata come uno status-symbol, ma come un semplice mezzo di trasporto, con i suoi pro e i suoi contro.

Nel nord Europa, inoltre, e specialmente nei Paesi di lingua tedesca, esisteva ancora qualche vestigio dell’aristocrazia: e anche questo ha consentito di ammortizzare in parte l’impatto della modernizzazione, rendendolo meno devastante: perché l’azione combinata di una borghesia colta e intelligente e di una antica aristocrazia muove da una filosofia che tiene nel massimo rispetto la tradizione e che, quindi, ci pensa due volte prima di demolire un edificio pubblico di valore storico e affettivo, o prima di sopprimere un mezzo di trasporto, come lo era il tram elettrico, pratico ed economico, anche se non sempre veloce ed efficiente quanto può esserlo un autobus.

Degli intellettuali è meglio non parlare: una mala razza di parassiti e di servi senza alcuna dignità, sempre pronti a farsi mettere sul libro paga del potere di turno: non che vigilare sulle scelte urbanistiche e culturali del secondo dopoguerra, si sono messi in coro a suonare il piffero per la modernizzazione e l’americanizzazione, così come prima avevano suonato il piffero per l’autarchia fascista e, prima ancora, per il modello liberaldemocratico. Nessuna differenza fra intellettuali di sinistra e di destra: tutti quanti a cantare le meravigli del progresso; nessuno, o quasi nessuno, che abbia avuto un dubbio, una perplessità, un ripensamento circa le drastiche scelte che allora si venivano facendo, da parte di politici, amministratori, urbanisti.

Che cosa è mancato, in definitiva, nel disordine intellettuale e materiale degli anni Cinquanta, quando si è consumato l’assassinio contestuale della civiltà contadina e dell’anima dei vecchi centri urbani, senza neppure un’ombra di rammarico e, tanto meno, di rimorso? Noi crediamo che non siano mancate soltanto l’intelligenza, il buon gusto e l’autentica capacità progettuale, ma anche e sopratutto la sensibilità.

Per capire che non tutto quel che si può fare va fatto, che non tutto quel che luccica è oro e che le scelte degli uomini non devono essere guidate solo dal criterio dell’utile, ma anche da quello del bello (e, naturalmente, del giusto e dell’onesto), è necessario possedere un certo grado di sensibilità. Non è detto che un sindaco o un assessore comunale ce l’abbiano; ma ecco, allora, che diventa importante che ce l’abbiano - e che il loro parere sia tenuto nel debito conto - gli intellettuali; e, prima ancora, che un certo grado di sensibilità sia diffuso fra la popolazione.

Se gli intellettuali tacciono, se la popolazione sa solo rallegrarsi per l’apertura domenicale dei centri commerciali, mentre si disinteressa del fatto che migliaia di nobili edifici storici vadano in rovina e vengano demoliti, allora non deve fare meraviglia che politici, amministratori e urbanisti vadano dritti per la loro strada, senza tenere in alcun conto i fattori estetici, affettivi e tutto ciò che riguarda gli aspetti qualitativi dell’esistenza.

Abbiamo coltivato l’insensibilità e ne stiamo raccogliendo i frutti amari; né bisogna aspettarsi un cambiamento, fino a quando non torneremo a riscoprire il nostro cuore di carne, dimenticato chissà dove, come dice il profeta Ezechiele, dacché lo abbiamo sostituito con un cuore di pietra.

La sensibilità è fatta anche di cultura (e nel secondo dopoguerra le conferenze delle Università popolari erano affollatissime, mentre oggi sono quasi deserte, a meno che ci sia il personaggio televisivo di grande richiamo), ma non solo: è una dote dell’anima che nasce spontaneamente, ma che va anche coltivata, a cominciare dalla famiglia e della scuola. Dobbiamo tornare a coltivare la sensibilità: in noi stessi, nei nostri figli, nei nostri studenti. Solo così possiamo sperare di veder tornare un po’ di bellezza, o almeno diminuire la bruttezza, nelle nostre città e nei nostri paesaggi.