Carl Gustav Jung: l'ombra e la gnosi
di Walter Catalano - 17/07/2006
“I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano…
…Ciò che il Dio sole dice è vita. Ciò che il demonio dice è morte. Ma Abraxas pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme.”
(C.G.Jung – Septem Sermones ad Mortuos – 1916)
Dopo la traumatica rottura con Sigmund Freud nel 1912, Carl Gustav Jung venne emarginato e aspramente criticato dall’ambiente psicanalitico: era solo un mistico; termine che, secondo il riduzionismo positivistico tipico del freudismo, valeva come sinonimo di ciarlatano. Il senso di isolamento e di abbandono – così ci racconta egli stesso nella sua autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni – provocò nello psichiatra svizzero un lungo periodo di incertezza interiore e di disorientamento, stato assai favorevole all’emersione di frammenti e figure dell’inconscio e alla loro numinosa manifestazione diretta. “Si scatenò un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa…Ero inerme di fronte a un mondo estraneo dove tutto appariva difficile e incomprensibile…Le tempeste si susseguivano, e che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta. Per altri hanno rappresentato la rovina: così per Nietzsche, Hoelderlin, e molti altri…Nel reggere a questi assalti dell’inconscio ero sostenuto dal saldo convincimento di obbedire a una volontà superiore…(1)”. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, confermò al fondatore della Psicologia Analitica l’intuizione che le proprie inquietanti derive psichiche non erano casuali ed isolate ma rispecchiavano l’angoscia collettiva di un mondo che stava sprofondando nell’abisso. In quel momento di estrema crisi l’immaginario gnostico, nato e sviluppatosi in un altro momento di drastici sconvolgimenti annuncianti il crollo del Mondo Antico nei primi secoli dopo Cristo, riaffiorava in tutta la sua lussureggiante ricchezza sommergendo lo psichiatra e segnandolo indelebilmente per il resto della sua vita e della sua attività creativa. La figura di Abraxas, il Dio/diavolo degli gnostici, venne evocata con sorprendente frequenza non solo nei sogni e nelle pagine di Jung, ma in quelle, di poco posteriori, del quasi conterraneo Hermann Hesse nel romanzo Demian (scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919): “Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo “chiaro”, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas, il Dio che era Dio e diavolo insieme (2)”. Questo concetti, espressi dall’autore de Il Lupo della steppa, sono molto vicini a quelli che Jung andrà elaborando negli anni seguenti, con il procedere parallelo dei suoi studi sullo gnosticismo e sull’alchimia, tanto vicini da farci sospettare che il Demian del romanzo non fosse per Hesse altri che un alter-ego letterario di Jung stesso: si ricordi che lo psichiatra portò fino alla morte un anello con un castone alessandrino raffigurante Abraxas e che lo scrittore venne per qualche anno in analisi da lui “ma non riuscì ad andare in fondo (3)”. Quel flusso di immagini e fantasie così significative fu scrupolosamente registrato da Jung in un “Libro rosso”, scritto a mano a caratteri gotici e finemente illustrato dall’autore stesso. In questi sogni ad occhi aperti, vere e proprie allucinazioni o esperienze medianiche, apparivano con ricorrente frequenza varie figure dalla personalità autonoma (4) (uno spiritista non esiterebbe a definirli “spiriti guida” o “angeli custodi”): una curiosa triade composta da un vecchio, Elia, una fanciulla cieca, Salomè, ed un serpente; e, successivo sviluppo di Elia, un altro vecchio alato e cornuto, Filemone. Della triade Jung scrisse: “In queste peregrinazioni oniriche spesso ci si imbatte in un vecchio accompagnato da una giovinetta, ed esempi di coppie simili si trovano anche in molti racconti mitici. Così, secondo la tradizione gnostica, Simon Mago andava in giro con una fanciulla, che egli aveva preso in un bordello, di nome Elena, e che era considerata come la reincarnazione di Elena di Troia. Klingsor e Kundry, Lao-Tse e la giovane danzatrice, sono altri esempi del genere…Nei miti il serpente è spesso la controfigura dell’eroe…Nella mia fantasia, perciò, la presenza del serpente era una chiara allusione al mito dell’eroe. Salomè è una rappresentazione dell’ ‘anima’. E’ cieca perché non vede il significato delle cose. Elia è personificazione del vecchio saggio profeta e rappresenta l’elemento conoscitivo, Salomè quello erotico. Si potrebbe dire che i due personaggi siano personificazione del Logos e dell’Eros, ma una tale definizione sarebbe troppo intellettualistica (5)”. E’ però Filemone la figura di maggior rilevanza: è un pagano, uno gnostico egizio-ellenistico, ha corna taurine, porta un mazzo con quattro chiavi, ha le ali di un martin pescatore (Jung trovò un martin pescatore morto nel suo giardino, proprio nei giorni seguenti all’apparizione di Filemone, uccello questo – precisa l’analista - piuttosto raro nei dintorni di Zurigo) e manifesta una vita indiscutibilmente propria: “Filemone rappresentava una forza che non ero io. Nelle mie fantasie conversavo con lui e mi diceva cose che io coscientemente non avevo pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, non io…Da un punto di vista psicologico Filemone rappresentava un’intelligenza superiore…A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva…era per me ciò che gli indiani chiamano un ‘guru’ (6)”. In seguito, allo spirito alato Filemone si affiancherà il demone terrestre e metallico che Jung chiamerà Ka, riprendendo il termine con cui gli antichi egizi definivano il “doppio”, una delle parti non mortali dell’anima umana: “Con il tempo riuscii ad integrare le due figure, e a tal fine mi fu di aiuto lo studio dell’alchimia (7)”.
Nel 1916, finalmente, questa magmatica atmosfera psichica giunge al culmine: dando quasi voce diretta ad Abraxas, Jung identificandosi in Basilide - uno gnostico alessandrino dell’inizio del II sec. d.C. – produce, praticamente in stato di trance, un testo di scrittura automatica, i Septem Sermones ad Mortuos. La stesura del libretto è anticipata da una fenomenologia che potremmo tranquillamente definire “paranormale”: i cinque figli dell’analista ancora piccoli, vedono figure fantomatiche aggirarsi per le stanze e disturbare i loro sonni, il campanello di casa suona più volte senza che ci sia nessuno alla porta. “Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica (8).” Anche Jung comincia a spaventarsi ed ode i morti gridare in coro: “Ritorniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato quel che cercavamo”. Con questa frase inizia il testo che lo psichiatra, scrivendo febbrilmente, termina in tre sole sere: appena presa in mano la penna la folla è sparita, l’invasione è cessata. Jung riconosce immediatamente il numen di un archetipo, una costellazione inconscia che si manifesta in visione: come terra dei morti, terra degli antenati, voce “dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento”. In chiusura all’enigmatico documento l’analista aggiunse un incomprensibile anagramma di cui non volle mai svelare la chiave: “NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN ZEHGESSURKLACH ZUNNUS (9)”. I Sermoni sono la prima manifestazione di quella complessa concezione junghiana, non tanto psicologica quanto teologica, che volge al riconoscimento, all’integrazione e al bilanciamento fra il polo positivo e quello negativo. In chiave gnostica è il disvelamento di Abraxas; in chiave analitica è la presa di coscienza dell’Ombra, il ‘lato oscuro’ della nostra totalità psichica; più tardi, in chiave cristiana, sarà l’accoglimento di Lucifero come quarta figura della Trinità. “Abraxas è il Dio duro a conoscere. Il suo potere è il più grande perché l’uomo non lo vede. Del sole egli vede il summum bonum, del demonio l’infimum malum; ma di Abraxas la VITA, indefinita sotto tutti gli aspetti, che è la madre del bene e del male….Duplice è il potere di Abraxas. Ma voi non lo vedete, perché ai vostri occhi gli opposti in conflitto di questo potere si annullano…Ogni cosa che chiedete supplicando al Dio sole genera un atto del demonio. Ogni cosa che create col Dio sole dà al demonio il potere di agire. Questo è il terribile Abraxas. (dal Sermone III) (10)” .
Queste prime profonde intuizioni o, perché no, rivelazioni, derivate dalla tradizione dello gnosticismo ellenistico, condussero in seguito Jung all’approfondimento della letteratura ermetica ed alchemica e, attraverso questa, alla rischiosa interpretazione, che scatenò polemiche senza fine, del principale dogma cristiano. Il sottofondo intellettuale di queste tesi provocatorie resta strettamente legato alla sensibilità tipica dello gnosticismo, sensibilità ben messa in evidenza in questo passo di Hans Jonas: “Invece di adottare il sistema di valori del mito tradizionale, cerca di sperimentare una ‘conoscenza’ più profonda rovesciando le parti trovate nell’originale di buono e cattivo, sublime e vile, benedetto e maledetto. Non tenta di dimostrare consenso, ma, sovvertendo in modo clamoroso, tenta di scuotere il significato degli elementi della tradizione più saldamente stabiliti e di preferenza maggiormente venerati. Non può passare inosservato il tono ribelle di questo tipo di allegoria, ed essa perciò esprime la posizione rivoluzionaria che lo gnosticismo occupa nella tarda cultura classica) (11)”.
E’ soprattutto nel Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1942/1948) e in Risposta a Giobbe (1952) che Jung affronta in termini cristiani il problema del rapporto fra polo positivo e negativo, ombra e luce, bene e male: il dualismo ed il superamento del dualismo. Dice in sostanza Jung: la premessa logica per ogni giudizio di totalità è il quaternario; perché un tale giudizio sia pronunciabile, esso deve avere un quadruplice aspetto. Per designare l’orizzonte, quattro punti cardinali; in natura, quattro elementi; quattro colori; quattro qualità primitive; quattro caste in India; quattro vie di sviluppo spirituale nel buddhismo; quattro aspetti significativi dell’orientamento psichico, ecc. La completezza è il cerchio, il mandala, e la sua minima divisione naturale è la quaternità (12). Tale quaternità ha spesso una struttura 3+1, essendo uno dei termini in una posizione d’eccezione o di natura diversa dagli altri (ad esempio i quattro evangelisti sono rappresentati da tre animali e da un angelo). Quando il quarto termine si aggiunge agli altri tre, si genera l’‘Uno’, la totalità. Nella psicologia analitica il “quarto” è la funzione rimossa, inconscia, l’Ombra, la cui integrazione alla coscienza è uno dei compiti del processo d’individuazione. Nella teologia cristiana – sostiene Jung – “la triade non è uno schema di ordinamento naturale, ma artificiale…sarebbe omesso un quarto necessario…Questo dov’è dunque rimasto ? Alla domanda risponde la concezione cristiana che il male sia una privatio boni. Questa formula classica priva il male dell’esistenza assoluta e ne fa un’ombra, che ha soltanto un’esistenza relativa dipendente dalla luce. Invece il bene si attribuisce positività e sostanza (13)”. Non si può invece parlare di ‘bene’ senza ‘male’, né di ‘chiaro’ senza ‘scuro’ o di ‘sopra’ senza ‘sotto’: la sostanza dell’uno è la sostanza dell’altro come la negazione dell’uno è negazione dell’altro. Infatti un’altra affermazione cristiana attribuisce al male personalità e sostanza: è il diavolo o Lucifero, creato ma autonomo ed eterno. Questa istanza influentissima resta indeterminata in rapporto alla Trinità: in quanto avversario di Cristo, però, “dovrebbe assumere una posizione antitetica equivalente ed essere parimenti un ‘figlio di Dio’. Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le quali il diavolo come Satanael (il suffisso –el significa ‘Dio’, dunque ‘Satana-Dio’) era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’altra conseguenza logica sarebbe l’abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una quaternità (14)”. Anche il simbolo centrale cristiano, la croce, è inequivocabilmente una quaternità: “In un contrasto affettivo, cioè in un conflitto, tesi e antitesi non possono essere viste insieme…L’indicibile conflitto, posto dalla dualità, si risolve in un quarto principio, che ristabilisce l’unità del primo nel suo pieno svolgimento”. Cristo, secondo l’opinione gnostica, respingendo l’ombra del peccato originale non sarebbe commisto col tenebroso mondo umano legato alla natura e alla materia, causa della condizione ibrida dell’uomo, soggetto al “Signore di questo mondo”, e apparterrebbe alla sfera platonica dell’idea pura. L’uomo sarebbe il ponte teso sull’abisso fra “questo mondo”, regno dell’oscurità e il regno luminoso celeste. Dai neopitagorici al Faust di Goethe sempre qualcuno cercò il quarto perduto, avendo come scopo “la redenzione del serpens quadricornutus, dell’anima mundi irretita nella materia, del Lucifero caduto. Ciò che per essi giaceva nascosto nella materia era il lumen luminum, la sapientia Dei e la sua opera era un ‘dono dello Spirito Santo’. La nostra formula della quaternità dà ragione alla loro pretesa, poiché lo Spirito Santo, come sintesi di colui che fu originariamente Uno e poi scisso, fluisce da una sorgente luminosa e da una oscura. ‘Poiché all’accordo della sapienza partecipano le forze di destra e di sinistra” si dice negli Atti di San Giovanni (15)’”. Da Dio Padre, primus motor, non-riflesso secondo la sua natura totale, nasce il Figlio – “la primissima cosa che Cristo deve fare è separarsi dalla sua ombra e chiamarla “diavolo” (già gli gnostici di Ireneo lo sapevano !) (16). Cristo dunque non è un simbolo completo. Cristo e Anticristo sono fratelli, entrambi ‘figli di Dio’, sintetizzati nel simbolo dei pesci, due pesci identici ma orientati in direzioni opposte, l’una verticale, l’altra orizzontale: la sintesi e l’integrazione degli opposti, la complexio oppositorum, è lo Spirito Santo, il Paraclito, il Consolatore, procedente dal Padre e dal Figlio - non soltanto inteso, secondo certe concezioni gnostiche, come controparte femminile del divino, Sophia-Shekhinà, ma soprattutto come riscatto della materia e dell’uomo deificati nello Spirito: |
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“L’invio del Paraclito riveste anche un altro aspetto. Questo spirito della verità e della conoscenza è lo Spirito Santo da cui Cristo è stato generato. Esso è lo Spirito della procreazione fisica e spirituale che, da ora in avanti, dovrebbe stabilire la sua dimora nelle creature umane. Siccome egli rappresenta la terza persona della divinità, ciò equivale al fatto che Dio venga generato nell’uomo-creatura…questi si trova così innalzato, in un certo senso, allo stato di figlio di Dio e di Uomo-Dio (17)”. Questo compimento segnerà il passaggio dall’eone cristiano a quello dello Spirito Santo secondo l’evangelum aeternum di Gioacchino Da Fiore (18). |
Analoghe commistioni azzardate fra metafisica e psicologia in Jung sono state ferocemente attaccate non soltanto dagli psicologi e psicanalisti “laici” o “materialisti” come i freudiani, né dai membri delle Chiese protestanti o di quella cattolica che le giudicavano blasfeme, gnostiche o addirittura sataniche, ma anche dagli esoteristi e dai pensatori tradizionalisti come René Guénon o Julius Evola. Quest’ultimo, sotto lo pseudonimo di Ea, demolisce nel saggio L’esoterismo, l’inconscio, la psicanalisi (19) , tutta la costruzione analitica junghiana giudicandola addirittura inferiore alla psicanalisi di Freud che, almeno, confinata entro la sua sfera empirica, naturalistica e pansessualista, arrecherebbe meno danni: “a differenza di Freud, lo Jung miticizza, concepisce la libido anche come mana, come la forza fascinosa che secondo i selvaggi compenetra certi oggetti…pretende di dare in termini di vita e di vera coscienza dogmi, figure divine e simboli delle religioni…si improvvisa come una specie di esoterismo psicologistico (ci si perdoni l’espressione) perfino nei riguardi delle tradizioni iniziatiche nel suo mettere dovunque in luce ‘archetipi’, simboli e fasi del ‘processo di individuazione’ ”. Per Evola, sostanzialmente, il processo analitico junghiano non porterebbe ad una integrazione o “individuazione”, ma ad una vera e propria regressione: “lo scopo vero della via iniziatica è la realizzazione come supercoscienza di ciò che si è chiamata la subcoscienza cosmico-metafisica. Per venire a tanto…invece di aprirsi all’inconscio atavico-collettivo, bisogna sciogliersi da esso, neutralizzarlo, perché proprio esso è il ‘guardiano della soglia’, la forza che preclude la visione, ostacola il risveglio e la partecipazione a quel mondo superiore, cui va ricondotta la vera nozione di archetipo. (20) ”.
Molte delle obiezioni evoliane sono giuste e legittime, anche se resta il dubbio che, data l’oscurità di certi passi di Jung e la profonda differenza di approccio e di terminologia impiegata, possa trattarsi soprattutto di un fraintendimento. L’integrazione “gnostica” dell’inconscio non implica – ci pare - la soluzione della coscienza nell’indeterminato ma, al contrario, l’allargamento di questa e la determinazione in essa della sfera preclusa: obiettivo non dissimile da quello cercato dai saggi di ogni epoca, in un’ottica di superamento del dualismo metafisico che anche Evola sembra riproporre. Tale almeno è la lettura più obbiettiva e meno preconcetta che si può ricavare dallo studio dei testi junghiani e di quelli dei suoi commentatori più attenti. Ad esempio questo passo sembra testimoniarlo: “L’immagine archetipica che da questa contrapposizione, attraverso un comune punto di mezzo, porta ad un congiungimento dei due sistemi psichici parziali – la coscienza e l’inconscio – è il Sé. Questo termine indica l’ultima stazione sulla via dell’individuazione…trovato e integrato questo punto intermedio l’uomo può dirsi completo. Soltanto allora infatti egli ha risolto il problema del rapporto con queste due realtà che ci sono imposte, l’interiore e l’esteriore; compito straordinariamente difficile sia dal punto di vista etico che da quello conoscitivo, che pochi eletti e dotati riescono a risolvere (21)”. E forse proprio questo punto, intermedio e indefinibile, per gli eletti che lo raggiungono - gli pneumatici della gnosi - non è l’approdo finale, ma semplicemente l’inizio del viaggio.
(1) Carl Gustav Jung , Ricordi, sogni, riflessioni, Milano, Rizzoli 1978, pag. 219.
(2) Hermann Hesse, Demian, Milano, Mondadori 1972, pag. 151.
(3) Carl Gustav Jung, Jung parla: Interviste e incontri, a cura di W. McGuire e R.F.C. Hull, Milano, Adelphi 1999, pag.498.
(4) Fenomeni del genere, tutt’altro che rari, vengono descritti, più spesso in età infantile o adolescenziale, anche al di fuori di qualunque casistica di tipo schizoide o “medianico”. Un interessante esempio è il resoconto autobiografico di un grande scrittore tedesco, Ernst Juenger, nel suo romanzo Ludi Africani, Milano, Sugar Editore 1970, pagg. 24-31. Jung aveva elaborato un metodo di introspezione che chiamava “immaginazione attiva”, consistente “nell’ossevazione del fluire delle immagini interiori: si concentra l’attenzione su…una immagine di sogno o su una impressione visiva spontanea e si osserva quali trasformazioni l’immagine subisce…In tali condizioni si producono serie lunghe e spesso drammatiche di fantasie, anche visioni, dialoghi interni, ecc.” (da Jung-Kerényi, Prolegomeni alla mitologia come scienza, Torino, Boringhieri, 1948, pag. 232-233). In caso di schizofrenie latenti – aggiunge Jung – il metodo può essere molto pericoloso. Il pensatore tradizionalista Julius Evola, citando un testo taoista, stigmatizza questo metodo come nefasto perché conduce verso “la regione dei demoni”. Cfr. Gruppo di Ur, Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io, vol. III, Genova, I Dioscuri 1987, pag. 427 nota.
(5) Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit. pag. 224.
(6) Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit. pag. 226
(7) Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit. pag. 228.
(8) Jung, Ricordi, sogni, riflessioni cit. pag. 234.
(9) Jung, Ricordi, sogni, riflessioni cit. pag. 463.
(10) Jung, Septem Sermones ad Mortuos, in Ricordi, sogni, riflessioni, cit. pag. 456-457.
(11) Hans Jonas, Lo gnosticismo, Torino, Società Editrice Internazionale 1991, pag. 107.
(12) Carl Gustav Jung, La simbolica dello spirito, Torino, Boringhieri 1959, pagg. 245 e seg.
(13) Carl Gustav Jung, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in Jung, Opere, Vol. 11, Psicologia e religione, Torino, Boringhieri 1979, pag.165.
(14) Jung, cit. pag.167
(15) Jung, cit. pag. 174
(16) Carl Gustav Jung, Sul problema del simbolo di Cristo, in Psicologia e religione, cit. pag. 483.
(17) Carl Gustav Jung, Risposta a Giobbe, in Psicologia e religione, cit. pag. 412.
(18) Fra le concezioni analoghe a quella junghiana possiamo ricordare per esempio il problematico passo di Léon Bloy in Dai giudei la salvezza, Milano, Edizioni Paoline 1962, pag. 131. “I cristiani saranno prodighi verso il Paraclito di ciò che è al dilà dell’odio. Egli è talmente il Nemico, è talmente l’identico a quel LUCIFERO che fu chiamato Principe delle tenebre che è quasi impossibile separarli…Chi può comprendere, comprenda.” Anche in anni recenti i riferimenti più o meno espliciti a Jung hanno prodotto frutti insoliti: il gruppo satanista The Process, attivo fra il 1965 e il 1975 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti , aveva elaborato una complessa teologia basata su una quaternità composta da Geova, Lucifero, Cristo e Satana concepiti come rispettivi opposti e complementari. Cfr. William Sims Bainbridge, Setta satanica: un culto psicoterapeutico deviante, Milano, Sugarco 1992.
(19) In Gruppo di Ur, Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io, cit. pagg. 418 e seg.
(20) Gruppo di Ur, cit. pag. 435.
(21) Jolande Jacobi, La psicologia di C.G.Jung, Torino, Boringhieri 1971, pag. 158.