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Tokyo e Pechino, alta tensione

di Michele Paris - 19/09/2012


    


Le proteste anti-giapponesi esplose recentemente in Cina sono continuate nella giornata di martedì, aggravando ulteriormente lo scontro diplomatico in corso tra la seconda e la terza potenza economica del pianeta attorno alla sovranità rivendicata da entrambe su uno sparuto arcipelago nel Mar Cinese Orientale. La disputa risponde in parte a necessità di politica interna dei due paesi, ma rientra anche nel quadro dell’offensiva nel continente asiatico degli Stati Uniti, i quali proprio lunedì hanno annunciato una nuova iniziativa destinata ad infiammare gli animi nella regione.

Le isole contese da decenni sono le Diaoyu - Senkaku per il Giappone - e vengono rivendicate anche da Taiwan. Tokyo se ne impossessò dopo la prima guerra sino-giapponese (1894-95) e dal 1945 al 1971 furono amministrate dagli Stati Uniti, per poi tornare nuovamente sotto il controllo nipponico. Le isole disabitate si trovano al largo delle coste orientali cinesi e, oltre a conservare considerevoli giacimenti di petrolio e gas naturale, rappresentano un’importante porta di accesso all’Oceano Pacifico.

Ad innescare l’ultimo capitolo dello scontro è stato il recente acquisto delle isole da parte del governo di Tokyo dalla famiglia giapponese che ne deteneva la proprietà. Secondo il premier Yoshihiko Noda la decisione sarebbe stata presa per allentare le tensioni, dal momento che la mossa dell’Esecutivo ha evitato che le isole venissero acquistate dal governatore di Tokyo, il quale aveva assunto toni ben più combattivi nei confronti della Cina, promettendo il lancio di una serie di progetti per lo sviluppo delle isole stesse.

Pechino, tuttavia, non ha interpretato in questo modo la nazionalizzazione delle isole Diaoyu ed ha manifestato tutta la propria rabbia, scatenando di fatto un’ondata di proteste contro il vicino orientale all’interno dei propri confini.

Nei giorni scorsi, così, sono stati registrati numerosi assalti a esercizi commerciali e a fabbriche giapponesi in Cina, mentre centinaia di manifestanti si sono riuniti davanti alle rappresentanze diplomatiche di Tokyo. Le principali aziende giapponesi, come Mazda, Mitsubishi, Toyota, Honda, Panasonic, Uniqlo e Canon, hanno perciò deciso di sospendere le loro attività produttive, mentre numerosi cittadini giapponesi residenti in Cina sono tornati in patria.

Dopo un momentaneo ritorno alla normalità, le tensioni sono tornate a salire nella giornata di martedì, in concomitanza con l’anniversario di un’incursione giapponese in territorio cinese avvenuta nel 1931, considerata l’inizio dell’occupazione nipponica durata fino al 1945. Sempre ieri, poi, due attivisti giapponesi sono sbarcati sulle isole contese. Alla nuova provocazione, Pechino ha risposto con una protesta formale presentata a Tokyo e rivendicando il diritto ad intraprendere ulteriori azioni per riaffermare la propria sovranità.

Nel pieno dello scontro, gli Stati Uniti lunedì hanno gettato altra benzina sul fuoco con il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, che ha annunciato assieme al ministro della Difesa di Tokyo, Satoshi Morimoto, il raggiungimento di un accordo tra i due alleati per il dispiegamento di un secondo sistema di difesa anti-missilistica “X-band” sul territorio giapponese in aggiunta a quello già esistente.

Il capo del Pentagono ha ribadito più volte che il nuovo scudo non è rivolto alla Cina ma servirà unicamente a difendere il Giappone da eventuali attacchi a sorpresa della Corea del Nord. Pechino, tuttavia, ha correttamente interpretato la mossa americana come una minaccia al proprio deterrente nucleare, oltretutto considerato già relativamente debole. Per questo, l’annuncio di Panetta ha suscitato le critiche da parte del governo cinese, già adirato per le provocazioni giapponesi, con ogni probabilità fomentate proprio da Washington.

L’ombra del sistema di difesa in Giappone ha accompagnato così l’arrivo di Panetta a Pechino per l’incontro con il probabile prossimo presidente cinese, Xi Jinping, da poco riapparso sulla scena pubblica dopo parecchi giorni di assenza che avevano alimentato una serie di speculazioni circa la sua salute e la solidità della sua posizione all’interno del partito.

In Cina da martedì, Panetta ha sollecitato il governo cinese ad intensificare i rapporti tra i vertici militari dei due paesi, così da contenere il più possibile il rischio di un confronto armato in Estremo Oriente a causa di incomprensioni tra le due parti. I toni del Segretario alla Difesa sono stati decisamente moderati, dal momento che ufficialmente l’amministrazione Obama intende costruire relazioni bilaterali pacifiche con la Cina.

La svolta in Asia annunciata dalla Casa Bianca fin dal 2009 si è risolta però in questi ultimi anni in una politica di sostanziale accerchiamento della Cina e in una serie di provocazioni, spesso tramite gli alleati di Washington nella regione, che non fanno altro che aumentare il rischio di una guerra dalle conseguenze incalcolabili.

Pur mantenendo ufficialmente una posizione neutrale, gli USA si sono in realtà inseriti anche nelle dispute territoriali che coinvolgono la Cina e altri paesi dell’area attorno a varie isole del Mar Cinese Orientale e Meridionale. Infatti, sia Panetta che il Segretario di Stato, Hillary Clinton, hanno più volte fatto riferimento all’applicazione del trattato di alleanza tra Stati Uniti e Giappone in caso di esplosione di un conflitto attorno alle isole Diaoyu. Allo stesso modo, Washington insiste nel chiedere una soluzione multilaterale alle contese territoriali in Asia orientale, mentre Pechino afferma da tempo di voler risolvere le questioni tramite negoziati bilaterali e senza interferenze esterne.

Con i repubblicani che premono per una linea dura nei confronti di Pechino, a poche settimana dalle elezioni presidenziali il presidente Obama questa settimana ha aggiunto infine un ulteriore motivo di scontro. Gli Stati Uniti hanno infatti chiesto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) di aprire un procedimento contro la Cina, il terzo dell’anno, in merito alle presunte sovvenzioni garantite dal governo agli esportatori di componenti automobilistici.

Al di là del ruolo americano nello scontro tra Cina e Giappone, le manifestazioni di protesta a cui si sta assistendo in questi giorni sono anche la conseguenza di strategie messe deliberatamente in atto dai governi di entrambi i paesi per soffiare sul fuoco del nazionalismo, così da distogliere l’attenzione delle rispettive popolazioni dai crescenti problemi interni

Il regime di Pechino è infatti alle prese con un netto rallentamento della propria economia, ma anche con un complicato passaggio di consegne decennale ai vertici del Partito Comunista e con una serie di scandali che coinvolgono svariati esponenti di spicco dell’élite politica del paese. Con una classe dirigente sempre più divisa sulla direzione da dare alla Cina di fronte alle sfide del prossimo futuro - a cominciare dalla crescita economica e dalla rivalità con gli Stati Uniti - e con tensioni sociali latenti sempre pronte ad esplodere, non c’è dubbio che il governo abbia contribuito a diffondere un sentimento nazionalista e anti-giapponese.

La risposta talvolta molto dura riservata dalle forze di sicurezza ai manifestanti è però anche il sintomo di un timore mai sopito tra la dirigenza comunista di una possibile esplosione del malcontento popolare verso lo stesso regime in un frangente storico particolarmente delicato. A confermare un simile pericolo è stato tra l’altro il resoconto di un giornale di Hong Kong, il quale nei giorni scorsi ha riportato la notizia dell’arresto di alcuni manifestanti nella città meridionale di Shenzen, scesi in piazza non tanto per protestare contro il Giappone quanto per chiedere democrazia e rispetto dei diritti umani in Cina.

La strumentalizzazione del nazionalismo anti-cinese è alla base anche del comportamento provocatorio di Tokyo. Qui, il governo Noda appare sempre più impopolare in vista delle elezioni del 2013, dopo che la crisi del debito e il rallentamento dell’economia hanno portato come altrove all’adozione di misure fortemente avversate dalla popolazione, innescando un sentimento di ostilità diffuso verso la classe politica giapponese.

I rapporti commerciali tra i due paesi rimangono comunque estremamente solidi, tanto che gli scambi bilaterali vengono valutati attorno ai 350 miliardi di dollari l’anno. Con una posta in gioco di simili proporzioni, appare perciò poco probabile che lo scontro in corso tra Tokyo e Pechino possa precipitare fino a risolversi in un rovinoso confronto militare.