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La morte dell’ambasciatore in Libia contrassegna il collasso della politica USA in Medio Oriente

di Dmitrij Minin - 19/09/2012


Chi semina vento, raccoglierà tempesta
La recente tragedia provocata dalla pubblicazione del film l”Innocenza dei musulmani“, l’uccisione dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens e di tre membri del personale del consolato degli Stati Uniti a Bengasi, la città che diventata famosa come l’epicentro della rivoluzione libica, e l’esplosione di rabbia in tutto il mondo musulmano, ha evidenziato il carattere fondamentale di ciò che sta accadendo in questo momento nella politica globale. Indipendentemente dal piccolo numero di vittime, gli sviluppi causano guai agli Stati Uniti che, politicamente, possono mettere in secondo piano l’11 settembre, a lungo termine … In questo momento di svolta, non è possibile nascondere al grande pubblico quello che è da tempo diventato un segreto di Pulcinella per la comunità di esperti – il genio rilasciato dai nuovi Aladino statunitensi nella parte del mondo in cui è nata la favola, non realizzerà nessuno dei loro desideri e neanche rimarrà entro i limiti prescritti. Piuttosto, l’essere magico ha progetti per suo conto, e l’auspicio di Washington che le forze spinte al potere dalle proteste popolari in tutto il mondo arabo, siano grate del sostegno degli Stati Uniti, fino al punto di rinunciare a loro eredità e interessi, ovviamente si sbriciola.
L’ordine del giorno dietro il supporto degli Stati Uniti è impossibile da nascondere per i partner di Washington e tutti gli altri, in Medio Oriente. A livello verbale, il contributo degli Stati Uniti può sembrare apprezzato, ma l’egoismo subdolo degli Stati Uniti  richiederà risposte in linea con i calcoli autonomi del mondo arabo, senza che in segno di gratitudine siano perdonate le offese per la passata assistenza. C’è un’ironia sinistra nel fatto che il diplomatico degli USA ucciso, Christopher Stevens, sia stato il coordinatore dell’aiuto degli Stati Uniti all’opposizione libica nel momento in cui era alle prese con il regime di Gheddafi. La saggezza popolare vuole che “una rivoluzione sia come Saturno, che divora i suoi figli“, ma come abbiamo visto, i padri possono essere anch’essi a rischio. Una serie di cause – dall’accumularsi delle proteste sociali alle partite giocate da oscuri centri e gruppi d’oltremare – viene citata per spiegare il fenomeno della primavera araba. La combinazione di questi deve aver prodotto i risultati noti, i presupposti oggettivi per il malcontento di massa hanno un ruolo chiave, ma il punto di partenza da non trascurare è l’adozione, da parte dell’amministrazione Obama, di una dottrina che ha ripercussioni enormi e durature per il Medio Oriente.
La politica dei dirigenti degli Stati Uniti è articolata in forma di cosiddette direttive politiche presidenziali (PPD), che sono di solito precedute dagli studi politici presidenziali (PPS). Quest’ultimo incorpora i consigli dai vari enti governativi, da presentare al Consiglio di sicurezza nazionale che, in pochi mesi, mette insieme i file per il PPD. Quanto sopra, essendo una pratica tradizionale, fa ruotare le direttive attorno alla sicurezza globale o a ristrette questioni di politica estera degli Stati Uniti, rimanendo rigorosamente entro i limiti dati. I loro titoli, per lo più quelli dei PPSS che devono essere diffusi su scala piuttosto ampia, di tanto in tanto vengono conosciuti al di fuori della comunità autorizzata. Il sito della Federation of American Scientists, think tank indipendente e apartitico, per esempio, elenca dieci PPSS compilati nel corso della presidenza di B. Obama. Secondo il sito, il PPS 11 dal titolo provvisorio di Riforme politiche in Medio Oriente e Nord Africa, è stato avviato il 12 agosto 2010, il che suggerisce che il PPD che intendeva avviare le riforma, coinvolgendo la CIA, il Dipartimento di Stato USA e la gigantesca macchina della propaganda degli Stati Uniti, più le risorse commisurate da investirvi, dovrebbe essere stato firmato entro la fine dell’anno. É probabile che si trattasse del  PPD 13, il cui titolo è tenuto segreto. E’ difficile capire se gli autori dei documenti siano stati in grado di prevedere il terremoto che la loro iniziativa poteva potenzialmente produrre.
La fede nella potenza illimitata Stati Uniti, sostenuta dai teorici della cospirazione e probabilmente favorita dal governo degli Stati Uniti, sembra essere una grossa esagerazione, facendo sì che il verdetto “Akela ha perso” risuoni sempre più spesso. L’assunto di base nelle direttive è che delle democrazie in stile occidentale sarebbero spuntate in tutto il mondo arabo, non appena i regimi laici, ma ostili, come in Libia e in Siria, o dittature invecchiate, come in Tunisia e in Egitto, venissero rimossi e delle libere elezioni si svolgessero nei paesi destinatari della modernizzazione. La presenza delle forze dell’Islam radicale non era necessariamente ignorata, ma il loro reindirizzamento o controllo non sembrava un problema irrisolvibile. La prima indicazione che il concetto stava prendendo forma, potrebbe essere trovato nel discorso a Cairo di Obama, nel maggio 2009. Gli analisti che si occupano di Medio Oriente a titolo professionale – ad esempio, il gruppo Debka d’Israele, analogo allo statunitense STRATFOR – erano fin dall’inizio preoccupati per la miopia di Washington e avvertirono che le forze scatenate nelle rivolte imminenti sarebbero state impossibili da controllare. Essendo politica e religione strettamente intrecciati nel mondo arabo, le imminenti elezioni libere avrebbero potenziato le forze che sostengono i valori musulmani tradizionali e comunemente accettati, e filtrato i sostenitori degli astratti modelli occidentali. Questo è esattamente lo scenario che vediamo materializzarsi. La reazione degli Stati Uniti alla serie di vittorie ottenute nella regione dai Fratelli musulmani e simili, e al rafforzamento pervasivo dei gruppi radicali, è stata la confusione e non l’ottimismo.
I decisori statunitensi che trattano con il Medio Oriente dovettero adattarsi a ciò che succedeva, mentre si diffondevano le notizie che in poco tempo iniziavano a mostrare i fallimenti spettacolari di tutti gli obiettivi attentamente pianificati in anticipo. Un’ammissione dei gravi errori era fuori discussione, per l’attuale amministrazione statunitense, considerando che le elezioni si stanno avvicinando. Invece, Washington accredita con leggerezza la moderazione dei Fratelli Musulmani, dicendo che il gruppo lascerà intatti tutti gli accordi con gli Stati Uniti e Israele, e che sarà assolutamente cooperativo, augurandosi che la leva finanziaria l’aiuterà a regnare a Cairo e altrove. Allo stesso tempo – e in contrasto con la logica della più ampia politica degli Stati Uniti – Washington ha espresso soddisfazione che gli islamisti non siano riusciti ad ottenere la maggioranza assoluta al primo voto, nelle elezioni nella Libia post-rivolta, anche se il dramma recente di Bengasi ha segnalato che, a prescindere da come le cose vengono esaminate, non c’è assolutamente nulla da festeggiare. Per risparmiare ai nuovi amici un’ondata di critiche del tutto meritata, la Casa Bianca finge di non sapere in che misura i paesi arabi post-primavera iniziano a ignorare le elementari regole democratiche, come i diritti delle donne, che poterono essere dati per scontati prima dei cambiamenti di regime, e la velocità con cui si procede all’introduzione della Sharia, che è parte integrante delle tradizioni locali, ma impossibile da conciliare con gli standard democratici occidentali. I paesi sono più impegnati con le monarchie del Golfo Persico, che notoriamente disprezzano le libertà civili, mentre la sensibilità crescente degli Stati Uniti per l’alterità del mondo musulmano preoccupa chiaramente Israele, il cui premier biasima apertamente l’amministrazione Obama per le sue politiche in Medio Oriente. In alcuni casi, come in Siria in questo momento, Washington cede semplicemente il ruolo di primo piano ai suoi partner, disturbata dal radicalismo delle forze anti-Assad, ma che ancora sostiene. Gli Stati Uniti sfruttano le divisioni tra sciiti e sunniti, ma l’effetto collaterale della politica è la crescente dipendenza statunitense dal campo sunnita.
Si deve inoltre tener conto del fatto che il rispetto verso gli Stati Uniti in Medio Oriente, ha avuto un crollo senza precedenti, a causa della guerra in Iraq e della serie di scandali che l’accompagnarono,  facendo si che i Fratelli musulmani si sentissero sempre più intimiditi per la  partnership con l’Occidente e rafforzando le posizioni intransigenti dei gruppi rivali salafiti. I musulmani moderati si sentono a disagio anche nel sfruttare la tendenza di Washington nel fare buon viso a cattivo gioco, mentre il presidente egiziano M. Morsi prende pubblicamente le distanze dagli Stati Uniti. Nel complesso, il famigerato fossato tra civiltà rimane cronicamente senza un ponte. Il presidente Obama, quindi, deve fare i conti con gravi problemi, con tutte le opzioni sul tavolo che promettono un ulteriore mal di testa. Da un lato, se la Casa Bianca limita la sua risposta ai fuochi d’artificio della retorica e delle misure inutili, come l’invio di un paio di cacciatorpediniere presso le coste libiche, il mondo, compresa la parte musulmana, sarà pronto a capire che Washington non può far fronte all’evolversi della situazione, e la regione diventerà abbastanza immune da ulteriori influenze statunitensi. Senza dubbio, la squadra di Romney non ha intenzione di perdere l’occasione d’oro per colpire Obama sulla questione, nel periodo immediato che precede le elezioni. Sondaggi mostrano che l’attitudine verso la politica estera, già terza nella lista delle priorità dell’elettorato degli Stati Uniti, è salita in cima alla lista. Effettivamente i commentatori dicono che Romney non avrebbe attaccato Obama sulla politica estera con tanto vigore, non prima che la crisi nazionale dovuta alla tragedia di Bengasi fosse finita. D’altra parte, una forte reazione degli USA innescherebbe nuovi cicli di proteste e una radicalizzazione profonda nel mondo arabo, in cui la rabbia non è strettamente focalizzata sul noto film, ma è diretta contro tutto l’occidente, con la sua percepita assenza di barriere di qualsiasi tipo. Sarebbe profondamente sbagliato gioire per le difficoltà che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare.
La situazione provoca sempre più vittime, una marea di caos sulla regione e un senso di imprevedibilità spaventosa. Sicuramente gli Stati Uniti ne hanno la colpa, ma nessun paese potrebbe  beneficiare degli sviluppi, e trovare una soluzione richiederà sforzi a livello globale. Indipendentemente da chi vincerà la prossima gara presidenziale negli Stati Uniti, la Casa Bianca dovrà imparare che la sistemazione e il progresso in Medio Oriente può basarsi sul rispetto sia per le tradizioni locali che per gli interessi di tutti i paesi e le forze politiche coinvolti. Inoltre, è giunto il momento per gli Stati Uniti di decidere fino a che punto siano aperti al coordinamento con altri paesi competenti, tra cui la Russia – a parità di condizioni importanti – per degli sforzi volti a far tornare la regione alla normalità.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora