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Siria: trincea dei non allineati

di Alessia Lai - 11/10/2012




La Siria unisce. La Siria divide.
Unisce i Paesi antimperialisti, gli Stati e le persone che vedono nella piena sovranità dei popoli l’unico modo per opporsi a un ordine mondiale che vorrebbe tutti al servizio delle grandi potenze politiche ed economiche. Divide il mondo, lo separa in un fronte che va da Chávez a Putin, passando per la Cina e l’Iran e tornando ai paesi risorti dell’America Latina, contrapposto alle “democrazie occidentali”, corredate dalla pletora di stati e staterelli al seguito dei liberatori a mano armata. Nel mezzo le istituzioni internazionali, oramai talmente screditate e appiattite sui patetici tentativi di giustificare il neo-colonialismo a guida statunitense, da risultare semplicemente comprimarie. La Siria sta delineando, ben più di quanto accaduto finora, una nuova divisione del mondo. Non è più la cortina di ferro, è la trincea siriana a determinare schieramenti e alleanze. Ai commentatori più acuti, agli analisti, non dovrebbe sfuggire di quali strumenti si avvale il nostro Occidente  per cercare di scardinare la resistenza siriana: quella dei terroristi, dei gruppi salafiti che da più di un anno cercano di rovesciare il governo di Damasco, non è una infiltrazione. È una partecipazione consapevole e lautamente finanziata. La stampa mainstream, niente altro che propaganda, non può più ignorarli e ha deciso di ingoiare il rospo dandogli il carattere della fatalità.
Come se questi tagliagole si fossero materializzati improvvisamente in Siria, assieme alle loro armi e ai sofisticati impianti satellitari. “Come non sostenere il governo di Bashar al-Assad dato che è il governo legittimo della Siria? Chi sostenere? I terroristi, quelli che vogliono un governo di transizione, quelli che uccidono la gente da tutte le parti?”, ha affermato ieri il presidente venezuelano, appena rieletto, Hugo Chávez. Lo chiamano dittatore dopo che ha vinto l’ennesima elezione, partecipata dall’80% degli aventi diritto. La trincea siriana è anche la sua: “Non capisco come fanno alcuni governi europei ad unirsi ai terroristi e a non riconoscere il governo legittimo. Noi lo facciamo e cerchiamo la pace per la Siria”. Ma dalle nostre parti, fra le “democrazie compiute”, magari guidate da tecnici mai votati, il pelo sullo stomaco abbonda: basta cambiare i termini, i terroristi diventano ribelli e tutto fila liscio. Dopotutto questi “ribelli” attaccano i nemici della democrazia: Hizbollah, ad esempio. Ieri, il comando congiunto dell’Esercito libero siriano ha minacciato di portare la guerra nel cuore di Beirut sud, roccaforte del Partito di Dio, se il movimento di Nasrallah non smetterà di sostenere Assad. Il fronte “democratico” può vantare le bandiere nere del salafismo da opporre a quelle gialle e verdi di Hizbollah, nella black list dei bombardatori di popoli statunitensi.
La loro punta di lancia nella crisi siriana sono gli alleati neo-ottomani, parto e parte della “grande madre” Fratellanza musulmana, che si prestano a dovere a questo gioco:  il marchio a fuoco della Nato va onorato. E mentre politici, giornalisti e sindacalisti curdi marciscono nelle galere turche e il suo esercito – epurato dai kemalisti - bombarda i militanti del Pkk, Erdoğan impersona l’avanguardia del piano neocon di costituzione del Grande Medio Oriente. Senza vergogna. I turchi, in realtà, per la gran parte la pensano diversamente dal loro premier, ieri il quotidiano Cumuriyet ha sollevato il sospetto che almeno alcuni dei colpi di mortaio siriani caduti in Turchia negli ultimi giorni possano essere stati esplosi non dalle forze governative ma dai ribelli anti-Assad. Tuttavia il capo di stato maggiore di Ankara, Necdet Ozel, la cui possibilità di restare al suo posto indica il gradimento dell’Akp, ha minacciato una “reazione più dura” della Turchia se Damasco dovesse perseverare nel lancio di colpi di mortaio oltre il confine turco. Ankara “non ha intenzione di interferire” negli affari interni della Siria ha commentato poco dopo Erdoğan in perfetto american style. Ad Amman sono meno espliciti, ma gradiscono l’invio di una task force di 150 militari Usa che, parola di Leon Panetta, è nel Paese per “sviluppare la capacità militare e operativa utile per affrontare qualsiasi evenienza”. È necessario isolare la Giordania dalla crisi siriana ed evitare che i ribelli sconfinino nel fedele regno hashemita. In quel caso avrebbero a che fare con dei “terroristi”. Il nero non ha sfumature, ma alla Casa Bianca riescono a vederle lo stesso.