Intellettuali e Potere
di Massimo Fini - Francesco Ventura - 27/11/2012
Fonte: meridianionline
L’Italia è in crisi, l’Europa è in crisi, l’occidente stesso è in crisi. Non è solo una crisi economica a minacciare le società occidentali, ma anche un impoverimento dell’universo culturale e l’insano rapporto che lega gli intellettuali al mondo della politica. Ne parliamo con Massimo Fini, che prima di altri denunciò nel 1986, dalle pagine de L’Europeo, la questione morale che affligge gli intellettuali.
Lei ha scritto forse prima di altri della corruzione degli intellettuali (economica, morale ed intellettuale), quale vero segno di collasso di un paese, prima ancora della corruzione dei politici. Quali sono le doti secondo lei che un intellettuale deve avere nel suo rapporto con il pensiero politico, prima ancora che con la politica?
L’intellettuale naturalmente deve conoscere, tanto più se si occupa di questioni politiche e non di letteratura, il pensiero politico: la storia del pensiero politico e il pensiero politico del suo tempo. Il rapporto col potere politico è molto semplice: l’intellettuale deve giudicare a 360 gradi. Non è che se una cosa mal fatta la fa qualcuno che si inserisce nel suo solco di pensiero, allora si glissa sopra, mentre se la fa qualcuno avverso a quel tipo di pensiero si picchia duro. La critica deve essere a 360 gradi anche laddove nei principi di fondo si concordi.
Lei ha fatto riferimento a quello che potremmo definire una lottizzazione politica della società, una sorta di feudalizzazione, nella quale anche l’intellettuale rischia di essere risucchiato. Questo è un po’ il pericolo…
Esattamente. Ed è quello che è successo in modo clamoroso in Italia. L’intellettuale invece deve essere uno che non appartiene a nessun feudo. Deve essere un libero pensatore, ma ciò non toglie che abbia alle sue spalle una Weltanschauung. Deve però avere le mani libere nella critica o, eventualmente, nell’elogio.
Pasolini, in quel famoso editoriale apparso sul Corriere della Sera “Cos’è questo golpe? Io so”, diceva che l’intellettuale deve avere il coraggio della verità. Deve saper dire la verità. È ancora possibile parlare di verità (alla quale si può aggiungere la giustizia) senza cadere nel dogmatismo?
Quale sia in assoluto la verità nessuno lo sa a parte quelli che credono in dio. L’intellettuale deve semplicemente dire onestamente quello che pensa, e non è detto che sia in assoluto giusto, a prescindere da qualsiasi legame di tipo partitico o, se vogliamo, per usare l’espressione che ha usato lei, feudale. Pasolini è un buon esempio, nel senso che diceva quello che pensava. Non è detto che tutto quello che pensava Pasolini fosse giusto, ma era il punto di partenza che era giusto e onesto. L’intellettuale, ma anche il giornalista, non dovrebbe essere legato a gruppi di potere, altrimenti non fa più il giornalista o l’intellettuale. Ad esempio un giornalista dell’Unità degli anni ’50 – lì giustamente poiché dichiarato – non faceva il giornalista, ma il propagandista.
Da tempo oramai il ruolo degli intellettuali è stato soppiantato da quello dei giornalisti, degli opinionisti e addirittura dagli spin doctors come “maestri di pensiero”. Allo stesso tempo la politica sembra progredire senza una reale visione organica di quale futuro voler raggiungere. C’è una relazione tra questi due processi? Ovvero, la politica non guarda più tanto lontano perché è venuto a mancare chi pensasse il mondo in una sua forma organica? Il Principe è rimasto senza Consigliere, per riprendere il titolo di questo dossier?
La figura dell’intellettuale in senso proprio, per lo meno in Italia, è scomparsa. Non mi sentirei di citare un nome di un intellettuale a livello di Pasolini o di Bertrand Russell. Non c’è più la figura dell’intellettuale, ma c’è anche qualcosa di peggio: al mondo occidentale manca un pensiero filosofico. L’intellettuale in genere è un trasmettitore tra filosofia e realtà. Non c’è ora un pensiero filosofico che orienti in linea generale la politica e il presente. In occidente, morto Heidegger, non è più nato un filosofo. Non solo, ma direi che gli opinion maker, che una volta erano gli intellettuali, ora sono i conduttori di trasmissioni televisive o cantanti o cose di questo genere. Conta molto di più l’esposizione mediatica piuttosto che altre doti. Ho detto prima che non ci sono intellettuali in Italia. In realtà ci sono ma non contano niente. Se pensiamo ai pochi filosofi che esistono in Italia – Giorello per dirne uno – la loro parola conta uno rispetto a un rutto di un cantante di prima linea.
Pensa che questo abbia a che fare con l’indebolimento delle autorità statali rispetto alle forze economiche? Che, per dirla in altra maniera, l’intellettuale si sia eclissato perché non c’è più la possibilità di incidere efficacemente sui rapporti umani e sociali, che per forza di cose ora sono di natura globale, attraverso una pratica di “buon governo”?
Questo senz’altro, ma sempre solo per quanto riguarda l’occidente, perché per altri luoghi potrebbe essere diverso. È fuor di dubbio che per esempio la cosiddetta globalizzazione abbia divorato e distrutto le identità nazionali, da cui poi nascono i fermenti intellettuali. Prendiamo il fascismo: sì, è stato una dittatura, ma è stato una dittatura che ha anche espresso al proprio interno pensieri o fenomeni estremamente interessanti. Basti pensare che noi siamo stati in quegli anni i primi nel design industriale. È chiaro che questo sistema economico tende a omologare tutto a un pensiero standard, che è poi il suo o, meglio, che è quello del meccanismo del pensiero di sviluppo che ci sta sotto. È quindi molto difficile avere un pensiero quando ce n’è uno così potente, che non è neanche un pensiero, ma è un meccanismo, che è unico. Quindi, in un sistema di questo genere, l’intellettuale fa grandissima fatica a emergere perché come minimo viene emarginato, spinto ai margini estremi del sistema. Non è che di intellettuali non ce ne siano stati in occidente negli ultimi anni. Penso in Francia a Baudrillard o Virilio. Però stanno ai margini del sistema e la loro parola conta molto poco.
La crisi economica ha rimescolato le carte. Crisi è però un momento di scelta. Quale spazio pensa ci sia nel futuro prossimo per gli intellettuali, quelli dal pensiero olistico e onesto?
Sì, potremmo dire che crisi è anche sinonimo di rinascita. È indubbio che la crisi economica induce non solo gli intellettuali ma anche le persone comuni a riflettere sulla vita che si sta conducendo. Non solo adesso che è un’epoca di vacche magre, ma sulla vita che si sta conducendo anche quando le cose economicamente vanno bene. Ovvero: se è una vita, questa, degna di essere vissuta. Non è una cosa che riguarda in sé gli intellettuali, ma riguarda la massa. Mai come in quest’epoca sento le persone riflettere sul modello di vita, non perché adesso c’è la crisi, ma sul modello di vita in quanto tale, cioè quello sintetizzato nelle parole produci-consuma-crepa. La crisi aiuta il pensiero, non c’è dubbio. Se si pensa a un momento critico, come quando si usciva dalla guerra, sì vittoriosa ma con mille problemi come è stato il ’19 e il ’22 e ciò che ne è seguito, si vede che da un punto di vista culturale ci sono notevolissime espressioni. Lo stesso vale per la Germania e per l’Europa intera. Gli anni ’30, che per certi versi sono anni di crisi, sono stati anni estremamente fecondi dal punto di vista culturale e questo penso possa ripetersi adesso che c’è questa grande crisi. Il pensiero non nasce da un benessere beota, nasce in realtà da un disagio, quasi sempre. Siccome adesso il disagio c’è – non è ancora così profondo come sarà tra non molto – sicuramente produrrà pensieri. Ripeto, non riguarda solo l’intellettuale, ma riguarda la gente normale. L’intellettuale aiuta a porsi dei dubbi, ed è questa la vera funzione dell’intellettuale. Una verità obiettiva non esiste e il dovere dell’intellettuale è porre dubbi su quello che è il pensiero dominante, o i meccanismi dominanti, come in questo caso.