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Quanta moneta falsa spacciata per buona nei romanzi di Alberto Moravia

di Francesco Lamendola - 07/03/2013


 


 

Ci hanno provato, i signori critici, a contrabbandarlo per un grande scrittore: quelli stessi che ostentavano sussiego e quasi disprezzo per i romanzi di Carlo Cassola, davanti ai libri di Alberto Moravia cadevano addirittura in deliquio.

Riconoscevano in lui niente meno che il gramsciano “intellettuale organico”, e gli esistenzialisti a un tanto il chilo vi scorgevano il prototipo dell’intellettuale “engagé”, se non proprio “enragé”: di sinistra, anzi marxista, come dire il meglio del progressismo; il fustigatore dell’abietta borghesia decadente, e ciò fin dagli anni del fascismo, cioè con «Gli indifferenti». Quale migliore biglietto di presentazione nel salotto buono della cultura italiana del dopoguerra?

I suoi libri si vendevano bene, come si vendevano bene i dischi dell’ineffabile coppia Battisti-Mogol o i film del genere di «Malizia», e per la stessa ragione: offrivano il surrogato di qualcosa di audace e di sensuale ad una generazione profondamente scoraggiata e intimidita. Qualcosa da sognare, ma da sognare voluttuosamente; qualcosa per sentirsi liberi, senza però dover fare troppa fatica per liberarsi; insomma qualcosa per fare la rivoluzione, anche e soprattutto quella sessuale, in poltrona e davanti alle pagine di un libro, piuttosto che sulle barricate.

Anche perché quando le barricate sono arrivate davvero, e Moravia ha cercato di presentarsi agli studenti del ’68 per tenere una conferenza alla Sapienza, lo hanno cacciato fuori senza tanti compimenti, intonando lo slogan: «Mao sì, Moravia no!». Perfino loro non sapevano che farsene di un cattivo maestro che giocava alla rivoluzione antiborghese, pescando però a piene mani nel peggior repertorio letterario della borghesia, cioè nell’ipocrisia.

Perché quello che più balza all’occhio dalla lettura dei romanzi di Moravia, quello che più irrita e infastidisce, non è la sciatteria stilistica, per cui usa, ad esempio, sistematicamente il pronome personale “gli” invece di “le”, quando si parla di una donna (eppure c’è chi lo considera un maestro di bella scrittura: navigare in rete per credere!); né la stanca, ripetitiva, logorroica piattezza e petulanza dei dialoghi, che forse vorrebbero essere hemingwaiani, mentre sono, al massimo, trasteverini, e nel senso peggiore del termine; e neppure la fastidiosa, becera pornografia che impera dappertutto, e che crede di fare il verso a Henry Miller, mentre non è che la versione pseudo-intellettuale di un voyeurismo di bassa lega e paragonabile, semmai, ai romanzacci di una Erica Jong, rispetto ai quali sono ancor preferibili i libro di Xaviera Hollander (che, almeno, non cerca di passare per quel che non è, non gioca a fare la femminista impegnata, ma si mostra lealmente per quel che è: una spregiudicata professionista del sesso).

No: quello che più indispone, nei romanzi di Moravia, è l’ipocrisia: quella ipocrisia per cui i suoi personaggi maschili hanno sempre l’aria di essere lì per caso, di non cercare niente, anche se hanno una gran fregola, e chissà come, chissà perché, vanno sempre a cascare fra le braccia (si fa per dire) di donne che sembrano uscite da un fumetto pornografico per soli uomini: non sensuali, ma laide, eternamente concentrate sul membro maschile, eternamente desiderose di impossessarsene e, nello stesso tempo, di recitare il ruolo delle sgualdrine più triviali, impersonando i più osceni, i più inconfessabili, i più maschilisti sogni proibiti del maschio represso.

Pertanto gli uomini dei romanzi di Moravia non devono mai chiedere niente alle donne (come recitava una famigerata pubblicità di un profumo maschile), si limitano ad accettare la loro corte serrata: si lasciano irretire, masturbare, quasi violentare; non devono fare nulla, soltanto porgere il membro: il massimo del godimento con il minimo della fatica, in tutti i sensi.

Come, poi, questa impostazione dei rapporti fra i due sessi, che si ripropone stancamente un romanzo dopo l’altro, da «Io e lui» a «1934», da «L’uomo che guarda» a «Il viaggio a Roma», possa non diciamo esser piaciuta, ma anche solo tollerata dalle femministe ruotanti nella costellazione delle lettrici e ammiratrici delle sue prime due mogli, Elsa Morante e Dacia Maraini, è cosa che potrebbe interessare un sociologo o meglio uno storico del costume, anche se può riuscire misteriosa solo a chi non ha avuto l’onestà intellettuale di guardare il femminismo sino in fondo e di riconoscerlo non per le formule e le parole d’ordine di cui si è ammantato, ma precisamente per quello che cercava goffamente di nascondere: una segreta e inconfessabile attrazione per quell’odiato maschio padrone che, a parole, avrebbe voluto bruciare sul rogo come le streghe del buon tempo antico.

Ma torniamo agli uomini di Moravia: se uomini si possono chiamare. C’è ben poco di virile in essi, a prescindere dalle loro prestazioni sessuali, più o meno convincenti; in compenso, non si sa perché, essi sono circondati da stuoli di donne adoranti, di ogni ordine e grado, di ogni condizione ed età. Prendiamo il caso de «Il viaggio a Roma», che, essendo del 1988, a rigore si potrebbe considerare, se non come un testamento spirituale, quanto meno come una “summa” del pensiero dell’autore, un concentrato della sua “saggezza” di uomo e di scrittore. Il protagonista, Mario, è un giovane di vent’anni che ondeggia fra tre donne le quali, letteralmente, se lo contendono: una insegnante francese di quarant’anni, Jeanne: la sua figlia di tredici, Alda; e l’amante del padre di lui, Esmeralda, anche lei sui quaranta (ma forse di più, visto che suo viso è pieno di rughe e che si vanta di poter essere sua madre).

Mario ha ambizioni poetiche, adora Apollinaire e ne recita i versi a memoria; a parte questo, è uno studente senza volontà e con pochissima voglia di lavorare, senza principi morali, senza onore o rispetto per niente e per nessuno (non lo turba la relazione con la donna del padre, il quale fra l’altro lo mantiene, ma semmai la somiglianza di lei con la madre defunta), e senza nemmeno la grandezza perversa di un Raskolnikov: fiacco, indolente, accidioso, si nasconde dietro la maschera auto-giustificatoria di una eccessiva “disponibilità”, che poi, in pratica, consiste nel non dire di no a nessuna delle numerose donne le quali, non appena lo vedono, all’istante lo concupiscono e se lo disputano con tortuose schermaglie.

Subito dopo essersi confidato con Jeanne, si sente attratto dalla figlia ancora impubere di lei, Alda, e si lascia corteggiare, accennando appena un minimo di imbarazzo solo quando lei spinge troppo oltre le sue avances da torbida adolescente che gioca sul filo della falsa innocenza, versione alquanto provinciale e volgarotta della Lolita di Nabokov; e non fa in tempo a trovarsi solo per un attimo con Esmeralda, alla quale sta mostrando un appartamento in veste di agente immobiliare per conto del padre, che questa lo seduce, gli ordina di baciarle le gambe e il sesso («più su, più su», ordina la porcellona, alzando la gonna davanti al ragazzo inginocchiato a raccogliere i dolcetti che si sono rovesciati e sparsi sul pavimento), infine si inginocchia a sua volta davanti a lui, nel terrazzo che guarda sul magnifico panorama romano, e, dopo avergli estratto il membro dai pantaloni, si appresta a praticargli una “fellatio”, interrotto solo perché la disinvolta signora – che fra un mese dovrà convolare a giuste nozze appunto con il padre del protagonista - si accorge che Alda, la maliziosa ragazzina, sta osservando tutta la scena nascosta dietro una persiana.

Il vero problema di Mario è – guarda un po’ che fantasia da parte dell’autore – il complesso di Edipo nei confronti della madre morta. All’età di cinque anni, durante una partita di calcio in televisione, egli aveva sorpreso la madre che, in salotto, faceva all’amore con un uomo, il tutto con il tacito consenso del marito; e lei, accortasi della sua presenza, non solo non si era ricomposta, ma gli aveva ordinato con lo sguardo di restare fermo a guardare, mentre lei e quell’uomo seguitavano a dimenarsi sul divano, fino al raggiungimento dell’orgasmo. Da allora, Mario è ossessionato dal ricordo erotico della bella e giovane madre, morta due anni dopo; e anche in Alda, anche in Esmeralda (ma non in Jeanne) cerca e sembra aver trovato qualche cosa di lei, specialmente nello sguardo, al tempo stesso torpido e lubrico. Con Esmeralda, soprattutto, che per motivi di età potrebbe appunto essere sua madre, e che gioca con lui chiamandolo “bambino mio” per eccitarsi ed eccitarlo, Mario sembra propenso a consumare un amplesso che sia anche un incesto liberatorio per interposta persona; progetto che non va in porto perché il ragazzo si rende conto che, se così facesse, prolungherebbe all’infinito la sua dipendenza dall’immagine materna e scivolerebbe in una spirale feticista sempre più morbosa: tanto è vero che aveva deciso di fare l’amore con Esmeralda sul divano, davanti alla televisione accesa e mentre andava in onda una partita di calcio, proprio per rivivere, come in uno psicodramma, l’esperienza traumatica della lontana infanzia.

Tutta la pretesa cerebralità dell’impianto narrativo poggia, come si vede, su una base estremamente povera: un freudismo di marca alquanto grossolana, coniugato con un pirandellismo altrettanto banale e superficiale: se l’ossessione incestuosa di Mario viene dritta dritta dalle teorie di Freud sul complesso di Edipo, l’atteggiamento da tortuoso burattinaio del padre di Mario viene da quello del Padre di  «Sei personaggi in cerca d’autore», che spinge la propria moglie tra le braccia di un altro, per poi osservare dall’esterno, come un voyeur, quel che succederà. Anche lo psicodramma consistente nel rivivere un antico trauma a scopo terapeutico è preso da Pirandello, precisamente dall’«Enrico IV». E che dire delle donne del romanzo, tutte afflitte, evidentemente, dalla invidia del pene di freudiana (e famigerata) memoria, tutte intente a strusciarsi, letteralmente – si pensi al gioco di piedino che Alda fa con Mario, sotto il tavolo da pranzo, mentre la madre gli serve i buoni piatti che ha cucinato per tutta la mattina, e che lo porta all’orgasmo proprio mentre lui sta baciando la donna) su di un ragazzo che non vale niente e che, perfino rispetto a loro, fa la figura di un nano accanto a degli autentici giganti?

Tutto questo è molto triste, sia perché narrato senza intelligenza, senza ironia, senza alcun vero spessore psicologico (a dispetto della incessante introspezione di Mario, capace di lambiccarsi il cervello in improbabili elucubrazioni auto-analitiche sul più bello di tali situazioni), sia per la profonda, intollerabile ipocrisia del maschio che vuole attribuire alla donna le proprie fantasie morbose, che vuole lasciare a lei il lavoro “sporco” di calpestare tabù e morale, per rotolarsi nel piacere del proibito, facendole fare la figura della mignotta, mentre il signorino, che volete farci, è talmente carino che non è colpa sua se tutte lo vogliono, lui non ha responsabilità per quanto può accadere, è quasi una vittima di quelle furie scatenate e dei loro giochi perversi.

E quel che abbiamo detto per «Il viaggio a Roma», si può dire anche dei numerosi altri libri di Moravia di analoga impostazione: una volta letto uno, è come averli letti tutti. Sono continue, incessanti, ossessive ripetizioni sullo stesso tema, con variazioni minime e solo di forma, non di sostanza: l’accidia di Petrarca, più la sensualità pecoreccia di «Playboy», più la cattiva coscienza e la disonestà intellettuale di tanti falsi maestri della emancipazione, della libertà, della denuncia, dell’impegno.

A dire il vero, leggendo questa tristissima prosa sorgono spontanei molti dubbi sulla effettiva mascolinità della psicologia che sorregge gli “eroi” di Moravia: anche se, in quelle storie, le donne non fanno altro che eccitarsi in presenza del maschio (e perfino in sua assenza), esibirsi davanti a lui senza pudore, offrirsi in tutte le possibili variazioni sessuali, tuttavia non sembrano storie uscite da una psicologia maschile: ci si aspetterebbe che siano state scritte da una donna, tanto evanescente è la virilità dei personaggi maschili, tanto tortuosa e problematica, tanto equivoca ed elusiva, specie se confrontata con il vigore e l’intraprendenza che contraddistingue i personaggi femminili.

Non sono, semplicemente, uomini deboli, come lo sono, per intenderci, il verghiano Nanni nella novella «La lupa», o come Corrado Silla in «Malombra» di Fogazzaro; e non sono solo deboli e abietti, come il protagonista delle dostoevskiane «Memorie del sottosuolo»: sono anche languidi, spossati, di una sensualità esausta e decadente, ma al tempo stesso si credono poeti, magari mancati (come Mario ne «Il viaggio a Roma»), si ritengono intellettuali, coltivano ambizioni o velleità culturali e sociali; esprimono giudizi disinvolti su tutto e su tutti, quasi una parodia degli aforismi del Superuomo nietzschiano (ancora lui!; e come sempre, frainteso e immiserito), si credono in diritto di guardare il mondo con cinismo, e i propri simili con sufficienza, senza rendersi conto d’essere moralmente al gradino più basso: dei parassiti sociali, tanto viziosi quanto inetti, come appunto Mario, che confida a Jeanne di non voler andare a letto con Esmeralda per non dover competere con un uomo come suo padre, che afferma di disprezzare.

Ma che cosa lo fa sentire moralmente superiore a lui? Non si sa. Sono “eroi” perplessi, come Ulrich de «L’uomo senza qualità» di Robert Musil: ma non possiedono il suo spessore, il suo autentico tormento, la sua raffinata, amletica complessità. Hanno qualcosa di sudicio e non tanto perché in essi Moravia abbia voluto rappresentare e sferzare le miserie della borghesia, ma perché egli stesso non ha mai mostrato di sapersi elevare ad una consapevolezza più alta. Vi si è semplicemente rispecchiato.

Tale è l’atmosfera dei romanzi di Moravia; e per quanto, talvolta, i temi siano variati, spesso, troppo spesso, ruotano intorno a questo tipo di ossessione erotica e a questo genere di ipocrisia maschilista. Se avesse scritto solo «Gli indifferenti», «La Ciociara» e «La Romana», si potrebbe, almeno in parte, fare un altro discorso; ma Moravia era uno che non sapeva o non voleva scrivere solo quando era realmente ispirato, ma che, pur di coltivare il suo pubblico, era pronto ad abbassarsi alle mode più degradanti, come quella della pornografia travestita da liberazione sessuale.

Altro che grande scrittore; altro che maestro di una generazione. E pensare che alcune antologie scolastiche ad uso dei licei, tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta del ‘900, avevano incominciato a dedicargli non solo una fuggevole citazione, ma un intero capitolo, corredato da alcuni testi “esemplari”, come si fa con i grandi, ponendolo accanto a Pirandello, a Ungaretti, a Pavese; tentativo, peraltro, abortito quasi subito.

E intanto c’era chi chiamava Cassola con il nomignolo di “Liala” (la quale, sia detto fra parentesi, nel suo genere era una scrittrice che non meritava alcun disprezzo) e deprecava il minimalismo e l’intimismo “borghese” di quest’ultimo, magnificando, invece, la prosa socialmente impegnata di Moravia.

Quello stesso Moravia che pontificava, testualmente, come, con il terzo millennio, le religioni sarebbero passate, cristianesimo in testa, mentre il marxismo sarebbe rimasto, perché il marxismo era più e meglio di una religione – proprio lui, che, come giornalista, aveva girato il mondo, era stato in Cina, aveva intervistato Fidel Castro e aveva potuto vedere da vicino le meraviglie del “socialismo reale”: che misero profeta, che analfabeta del suo tempo…

Anche con questi abbagli interessati, anche con questi strabismi consapevoli, anche con queste forzature, con queste furbizie e con queste omissioni intenzionali, si è costruita la cultura, o la pseudo-cultura, della seconda metà del secolo scorso: la cultura del nulla, di gente che non aveva nulla da dire, a dei lettori che non avevano voglia di pensare a nulla – ma che, in compenso, desideravano tutti quanti, scrittori e lettori, e perfino fruitori di cinema e di musica leggera, darsi le più grandi arie di persone impegnate e perfino rivoluzionarie.