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«Ti odio perché ti amo» o «ti amo perché ti odio?»

di Francesco Lamendola - 13/04/2013



 

«Ti odio e ti amo», canta Catullo della sua Lesbia; e aggiunge: non so perché sia così, ma è così, e me ne cruccio, ne soffro: «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. / Nescio, sed fieri sentio et excrucior».

Già, ma il punto è proprio questo: perché odiamo certe persone, eppure le amiamo? E perché amiamo certe persone, eppure le odiamo? Non basta dire che non lo sappiamo; non basta dire a noi stessi che la cosa ci fa soffrire. Potrà bastare a un poeta: non basta a chi voglia acquisire un minimo di consapevolezza di sé, scendendo nei recessi più profondi della propria anima. Dire che non sappiamo perché proviamo certi sentimenti nei confronti degli altri, in realtà, equivale a mentire. Noi lo sappiamo, però certe volte preferiamo far finta di non saperlo. Quando non osiamo guardarci dentro sino in fondo, quando non abbiamo il coraggio di riconoscere ciò che proviamo, allora diciamo che non sappiamo quel che proviamo. E allora, accingiamoci a fare questo sforzo di verità e a guardare dritta negli occhi quella parte di noi stessi che non vorremmo vedere, quella parte di noi che odia ciò che vorrebbe amare e che ama ciò che vorrebbe odiare, ma senza avere l’onestà di ammettere che le cose stanno diversamente da come sembrano: impareremo qualcosa di importante.

È più frequente di quel che non si creda il caso di persone che perseguitano qualcuno pensando di odiarlo, mentre in realtà ne sono segretamente attratte, affascinate, innamorate; e anche il caso di persone che farebbero qualunque cosa per amore di qualcuno, che accetterebbero qualunque sacrificio, perfino qualunque umiliazione, anche se in realtà il sentimento che le tiene incatenate non è l’amore, come esse dicono e mostrano di credere, ma l’odio: un odio travestito da amore, un odio che sembra amore perché esse si sono lasciate catturare dalla musica dell’incantatore di serpenti, e non riescono a spezzare il sortilegio. Vivono in un incubo e lo chiamano un sogno: preferiscono restare addormentate per non svegliarsi e dover prendere atto che di un incubo si tratta. Dostoevskij è stato un grande indagatore di queste ambigue verità: Katerina Ivanovna, la fidanzata di Dimitrij Karamazov, ama oppure odia il suo promesso sposo? In realtà, lo odia; però dice di amarlo, crede di amarlo. Lo odia perché egli, a suo tempo, l’ha umiliata; ma poi l’ha anche salvata da una situazione penosa: dunque, bisogna ringraziarle il proprio salvatore, bisogna sdebitarsi con lui: e gli si concede una promessa di matrimonio, così il proprio segreto rimarrà custodito, la propria vergogna verrà cancellata a forza di amore. Ma non è vero: quell’amore non è che la maschera dell’odio e del desiderio di vendetta. Desiderio di vendetta che esploderà, clamorosamente, al momento del processo per l’assassinio del padre, quando Dimitrij sarà più debole ed esposto, e basterà una piccola spinta per far pendere la bilancia a suo sfavore, e, così, perderlo. Vendetta sopraffina: e, nel frattempo, sarà Ivàn, il fratello di Dimitrij, che lo odia e disprezzaquest’ultimo – anche se, lui pure, si fa in quattro per difenderlo, almeno in apparenza – ad accendere l’amore della bella Katerina: il freddo Ivan, l’intelligente Ivan, l’antitesi personificata di suo fratello, tutto istinto e passionalità.

La vita quotidiana, peraltro, ci offre numerosi esempi dell’amore travestito da odio, così come del’odio travestito da amore: basta saper guardare un poco oltre le apparenze. Prendiamo il caso di una coppia in cui la moglie parla sempre male del marito, lo tiranneggia, lo mortifica, lo bistratta davanti a tutti, lo fa sentire perennemente in colpa, come se fosse una vera e propria nullità; dice di volersene andare, di poter aspirare a qualcosa di meglio, ma intanto resta, resta e consuma il suo odio tutti i santi giorni, ogni ora, ogni minuto della sua vita: e guai se il disgraziato si sottraesse a quella tortura, a quei maltrattamenti. Guai se avesse il cattivo gusto, non diciamo di scappare, ma anche soltanto di ammalarsi o di morire: che cosa farebbe sua moglie, senza più l’eterna testa di turco sulla quale sfogare tutta la propria rabbia? In breve, quel marito è diventato indispensabile alla personalità di lei: al punto che ella non riuscirebbe neppure a immaginare la propria vita senza quella presenza da maltrattare, da insolentire, da angariare in tutte le maniera possibili. La sua vita, semplicemente, non avrebbe più senso. Ma allora, è proprio vero che si tratta di disprezzo, di avversione, di odio? Qual è il vero nome di un sentimento che si prova nei confronti di una persona della quale non si può fare a meno, che si vuole avere sempre vicina, senza la quale non si riuscirebbe neanche a pensare di vivere?

Oppure prendiamo un altro caso: quello di un uomo che ami alla follia la propria donna; che sospiri per lei dalla mattina alla sera; che accetti da lei qualunque capriccio, qualunque colpo di testa, qualunque stravaganza. Che accetti anche di essere tradito, di essere ingannato, di essere preso in giro; che si lasci ammansire e rasserenare da una parolina dolce ogni tanto, da un sorriso, da un gesto affettuoso qualsiasi; che, per amore di lei, trascuri doveri e responsabilità, diventi ingiusto con gli altri, si disinteressi dei figli, si allontani dagli amici, dimentichi i genitori. Dice di amare quella donna, dice che senza di lei non potrebbe vivere, che lei è tutta la sua vita: per questo la sopporta, per questo la perdona, per questo le va dietro come un cagnolino.  Ma siamo sicuri che il vero sentimento che prova per lei sia quello che sembra? Siamo sicuri che sia amore? Ci sia lecito dubitarne. Ci sia lecito pensare che il vero, profondo sentimento che egli prova per lei, è l’odio; che potrebbe anche lasciarla, provare a rifarsi una vita, ma che in realtà non vuole, perché di quell’odio egli, in fondo, ha bisogno: ne ha bisogno per vivere. Ha bisogno di odiarla, non di amarla: e ciò potrebbe avvenire per molte ragioni, per esempio per mancanza di stima e di fiducia in se stesso, al punto da non pensare di meritare una vita migliore, una compagna migliore. Dunque la odia, ma intanto crede di amarla; in realtà odia se stesso, ma anche questo non osa confessarselo: sarebbe troppo duro, le ultime briciole della sua autostima andrebbero in pezzi. Preferisce vivere nel perenne auto-inganno, preferisce raccontarsela. Almeno può recitare la parte dell’amante infelice, dell’uomo nobile che sa perdonare ogni volta, del generoso innamorato dal cuore grande, che supera ogni ostacolo e rimane fedelmente legato alla donna del suo destino, pur soffrendo.

Quante balle ci si racconta, quando non si ha il coraggio di guardarsi dentro. Come quella moglie che mostra di disprezzare il marito, che si comporta come se lo odiasse, che gli rimprovera mancanze immaginarie e torti inesistenti, mentre invece lo ama ma non osa ammetterlo: e non osa perché le sembrerebbe un atto di debolezza, una resa incondizionata e disonorevole. Forse ha paura dell’amore, forse ha paura di lasciarsi andare: non vuole correre rischi, vuole avere sempre il controllo della situazione. Non sopporta l’idea di affidare il suo cuore a un altro essere umano, che potrebbe fare cattivo uso del proprio potere; perciò, il potere, preferisce averlo lei, e farlo pesare continuamente sul malcapitato che le vive accanto. Forse la cultura femminista le ha insegnato che la donna non deve mai cedere all’uomo, non deve mai dargliela vinta, perché l’uomo è un nemico, un mascalzone, uno sfruttatore, un parassita congenito. O forse, semplicemente, si è scottata in una precedente esperienza sentimentale, ha sofferto molto e ora non si fida più; inoltre vuol farla pagare all’altro sesso, vuole vendicarsi sul marito di tutti gli uomini cattivi ed egoisti che ci sono al mondo, e specialmente di quell’altro, di quello che c’era prima e che le ha aperto una ferita insanabile. Non osa riconoscerlo con se stessa, perché, se lo facesse, dovrebbe ammettere anche di amare ancora quell’uomo che l’ha lasciata e che lei crede di odiare. Oppure dovrebbe ammettere che ama quest’uomo dolce e buono con cui vive adesso: ma, se lo facesse, si renderebbe esposta, vulnerabile: e lei ha deciso che niente e nessuno potranno ferirla, mai più. Non sa che, nella vita, non esistono assicurazioni anticipate sui fatti sentimentali; non sa che chi vuol mettersi al sicuro dagli imprevisti, una volta per tutte, vuol dire che è già morto e putrefatto. Crede di essere viva, ma è morta: perché chi vive odiando non si muove nel mondo dei vivi, ma si aggira come un fantasma senza pace nel proprio cimitero. Chi è vivo ama sapendo di amare: sono i morti che amano senza saperlo, credendo magari di odiare. In fondo, odiano se stessi: verità troppo scomoda, troppo imbarazzante da confessare perfino alla propria anima.

A questo proposito, vale la pena di leggere una pagina del saggista inglese John Armstrong tratta dl suo libro «Aspetti dell’amore» (titolo originale: «Conditions of Love», 2002; traduzione dall’inglese di Federica Oddera, Parma, Guanda Editore, 2002, e Milano, Tea, 2005, pp. 65-66):

 

«All’interno del nostro vocabolario etico, il termine “amore” occupa il posto più alto.  Viene definito spesso come l’atteggiamento più benevolo che possiamo assumere nei confronti di una persona o di un oggetto. Ma ne esiste una variante più oscura di cui dobbiamo riconoscere l’esistenza. Nel romanzo “Lo straniero”, Albert Camus descrive un uomo seguito incessantemente da un cagnolino, il suo unico compagno. L’uomo insulta, prende a calci e deride in continuazione la povera creatura. Eppure, quando la bestia muore, ne sente profondamente la mancanza: “amava” quel cane. Questo rapporto è l’emblema di una delle situazioni più spaventose e paradossali. Eccone altri esempi: una donna non fa che criticare e rimproverare il proprio uomo, perché lo ama; un uomo picchia la propria moglie quando la sospetta di essergli stata infedele, perché ne p tanto innamorato. È un atteggiamento compendiabile in una frase: “Ti odio perché ti amo”. L’orrore ispirato dall’isolamento – dalla prospettiva di ritrovarsi soli con se stessi -  ci può forse fornire un appiglio per capire. Il tormentatore in simili casi, ha un profondo legame con la vittima. Tale legame funziona come rimedio per la solitudine; pensieri, azioni, sentimenti hanno modo d riversarsi all’esterno sull’altra persona.  L’altro fornisce lo sbocco necessario per uscire da se stessi.  Ma se venisse a mancare, andrebbe perduta la valvola di sfogo; la sua presenza è necessaria e continuamente cercata. Non si tratta di un meccanismo innescato al semplice odio, perché comporta un atteggiamento possessivo spinto fino alle estreme conseguenze, e la convinzione che i maltrattanti siano utili “per il bene dell’altro”. Queste terribili distorsioni emergono di quando in quando, sia pure in misura minore, in tutti i rapporti amorosi. Rivelano con orribile chiarezza come l’amore rischi di essere guastato proprio dai bisogni che ci  conducono ad amare.»

 

Potremmo dire che ogni masochista ha bisogno di un sadico, e viceversa; ma questa sarebbe solo una parte della verità; la verità tutta intera è che molti sadici e molti masochisti non sanno di esserlo o, piuttosto, non vogliono riconoscerlo, perché sarebbe troppo doloroso confessare, sia pure solamente a se stessi, quali sono le cause e i meccanismi profondi che li spingono a coltivare delle forme così clamorose di auto-inganno. Per esempio, la gelosia forsennata, esasperata, potrebbe essere l’alibi di una omosessualità latente: il marito ossessivamente geloso della moglie vuole rassicurarsi sulla propria identità di genere; pensa: «Sono così geloso perché amo mia moglie, dunque mi piacciono le donne e non gli uomini»; ma, appunto, forse è solo una pietosa bugia che si racconta; e intanto, in realtà, la odia perché è una donna. In ogni caso, esplorare le cause specifiche e individuali che spingono gli esseri umani a coltivare la propria inconsapevolezza è affare che riguarda lo psicologo, non il filosofo; il filosofo, invece, ha il compito di domandarsi perché non solo esista il bisogno di inconsapevolezza in questo o in quel soggetto, ma perché tale bisogno faccia parte della natura umana, così come si può osservare continuamente anche negli atti e nei pensieri della vita quotidiana. E la risposta, in ultima analisi,  avrà sempre a che fare con lo stesso problema centrale: vivere la propria vita con consapevolezza è faticoso, perché ci costringe a rimetterci continuamente in discussione, a interrogarci su verità scomode, a prendere decisioni che vorremmo evitare, o, almeno, che preferiremmo rimandare il più a lungo possibile; perché ci costringe ad andare in cerca di ciò che è essenziale, di ciò che è il vero Bene, invece di correre dietro a mille piccole apparenze di bene, tanto fugaci quanto illusorie, e a disperderci in mille cose superflue.

L’uomo centrato in se stesso, e perciò collegato con l’Essere, è colui che ha raggiunto un certo grado di equilibrio, cercando con animo esigente la propria verità interiore; che si è sottoposto a fatiche, veglie e sacrifici e che ha saputo vincere il ricatto del conformismo e strappare il pungiglione allo spettro della solitudine. Per diventare tale, ha dovuto lottare; né potrà mai sedersi sugli allori, perché la consapevolezza è una conquista quotidiana, una lotta incessante. Ma la natura umana inclina alla pigrizia, aspira al piacere senza fatica, al successo senza merito; la maggior parte delle persone crede di meritare molto dalla vita (o troppo poco, che è un altro modo di rinchiudersi nel proprio narcisismo): non vuol fare fatica; e, del resto, tutta la società moderna, edonista e consumista, la incoraggia per questa via. E la filosofia è necessaria appunto per svelare l’inganno e aiutare l’uomo a ritrovare il proprio centro e, insieme, il proprio senso e la propria pace.