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Il caso Grillo fra speranze ed incognite

di Marco Tarchi - 18/06/2013


Il clamoroso successo ottenuto in Italia dal Movimento Cinque Stelle – inatteso nei tempi e nelle proporzioni
– ha aperto un caso politico, informativo e scientifico dalle molte sfaccettature. E molto variegati sono i
motivi per cui i suoi sviluppi sono oggi sotto la lente degli osservatori, sparsi ben oltre i confini della
penisola.
C’è chi mette in primo piano il devastante impatto che questo fenomeno sta avendo sulla tradizionale
configurazione del sistema politico, lanciando allarmi sulla tenuta delle istituzioni democratiche di fronte
all’ondata di discredito che il M5S cavalca e alimenta o, al contrario, coltivando la speranza di un imminente
crollo dell’establishment partitocratico, a cui dovrebbe seguire l’avvio di una nuova era nel governo della
cosa pubblica con il passaggio del testimone nelle mani della “base”, dei cittadini. I sostenitori più ottimisti
di questa seconda linea di lettura vedono nell’avanzata delle liste pentastellate l’indispensabile premessa di
una transizione dall’attuale meccanismo rappresentativo, fondato su elezioni periodiche e deliberazioni
parlamentari, a una gestione diretta del potere dal basso tramite consultazioni popolari online su ogni tema
rilevante, sul modello di quella “democrazia continua” che negli anni Novanta è stata teorizzata dal giurista
Stefano Rodotà, non a caso uno dei beniamini della platea telematica “grillina”. Più o meno sulla stessa scia
si collocano quanti interpretano lo sfondamento elettorale dei Cinque Stelle come la prova che, ormai, la
rivoluzione digitale sta dilagando e costringe alla ritirata i media tradizionali, a tal punto che una formazione
volontariamente priva di espressione diretta dal video, in radio o sulla carta stampata, assente da dibattiti e
talk shows e per giunta soggetta al quotidiano cannoneggiamento di avversari e commentatori in ogni ambito
comunicativo, è riuscita, partendo dal blog del suo fondatore e aggregandosi attorno ad esso in gruppi
organizzati molto più virtualmente che territorialmente, a sedurre un quarto dell’elettorato. Infine – e siamo
al classico last but not least –, in ambito accademico ma non solo, ci si domanda quali siano le idee-forza, le
proposte, gli stimoli, i riverberi di immagine che hanno fatto le fortune del movimento, su quali settori di
popolazione esso abbia fatto più colpo, che cosa si attendano adesso coloro che gli hanno affidato il proprio
voto. E, ovviamente, quale direzione di marcia il M5S intraprenderà dopo essere entrato in forze in
Parlamento e in vari organi di governo locale.
Se così numerosi sono i quesiti, non c’è da stupirsi se altrettante sono le risposte da più parti avanzate. Né
può sorprendere, di fronte al fragore della novità, che interpretazioni e letture siano spesso influenzate, più
che da una fredda analisi dei dati disponibili per decifrarla, da una miscela di wishful thinking, di aspirazioni
ad incidere sul movimenti, di reazioni e affermazioni dettate dalla paura di patirne la concorrenza o dalla
speranza di potersene giovare. La caterva di articoli, libri e inchieste multimediali proliferati nell’arco di
pochi mesi dà la misura di questa caotico panorama.
Per dipanare la matassa e giungere ad un’immagine attendibile della situazione – qualunque sia l’uso che si
intende farne: comprendere, semplicemente, la realtà che ci sta di fronte oppure avvalersene per intervenire
su quella stessa realtà e cercare di orientarla in forme desiderabili – occorre partire da alcune considerazioni
empiriche basilari, e da queste muovere per delineare i possibili alternativi scenari a cui la dinamica
innescata dal successo grillino può condurre.
La prima di queste osservazioni, per quanto necessaria, può apparire scontata: l’humus in cui l’ascesa del
M5S affonda le radici è la profonda disaffezione di larga parte della popolazione italiana verso la propria
classe politica.
Abitualmente si sostiene che il crollo della fiducia nei partiti, nei governi e nel parlamento sia un effetto delle
vicende di Tangentopoli, ormai vecchie di vent’anni. L’indignazione degli italiani sarebbe esplosa al
cospetto dell’intreccio fra politica e corruzione rivelato dalle inchieste giudiziarie, in primo luogo quelle
condotte dal pool di Milano. L’impossibilità di estirpare la mala pianta, l’endemico ripetersi degli scandali, il
comprovato spreco di fondi pubblici e la sopravvenuta drammatica congiuntura economica avrebbero fatto il
resto, diffondendo lo stereotipo della Casta dei privilegiati preoccupati solo di continuare ad esserlo e
attizzando l’indignazione degli inquilini dei piani bassi della società. L’immagine è efficace ma incompleta.
Le inchieste condotte da quarant’anni a questa parte dall’istituto demoscopico della Comunità e poi Unione
europea, l’Eurobarometro, dimostrano che sin dai primi anni Settanta, e ininterrottamente per i due decenni
successivi, gli italiani hanno coltivato un tasso di insoddisfazione per il (mal)funzionamento della
democrazia nel loro paese più che doppio rispetto a quello riscontrato fra i cittadini degli altri paesi del
continente. La loro indignazione verso la gestione della cosa pubblica è dunque di lunga data, e se il
malumore già fermentava ampiamente nei primi anni Settanta, ad impedirgli di tracimare era il tappo
costituito da un sistema di potere clientelare, controllato dai partiti di governo e di opposizione, che rendeva
più redditizio adeguarsi e sfruttare lo status quo che contestarlo.Finché non c’era da rischiare granché nel far finta di non vedere quanto stava accadendo, il meccanismo ha
funzionato. Tangentopoli ha dato un primo scossone al quadro e ha portato in superficie una “questione
morale” di antica data, che nell’omertà diffusa prosperava e si era estesa. Il mito di una società civile
incontaminata e vittima, contrapposta a una società politica sprofondata nel malaffare, è servito a molti per
assolversi dalle colpe commesse e ha proiettato in pista una serie di outsiders, lesti a promettere che, con il
loro ingresso in scena, l’andazzo sarebbe cambiato. Berlusconismo, leghismo, girotondi, dipietrismo sono
alcuni dei frutti di quella sterzata di un sistema che peraltro non ci ha messo molto per riprendere, con i
dovuti aggiustamenti, l’antica direzione di marcia, mascherando con il bipolarismo e l’eccitazione umorale
delle tifoserie dei due campi in lizza la ribadita vocazione della propria classe dirigente all’autoreferenzialità
e alla spartizione concordata delle risorse tra provvisorie maggioranze e provvisorie minoranze. La nuova
recente ondata di scandali su appalti truccati, connivenze fra governi locali e potentati affaristici, uso
privatistico dei fondi del finanziamento pubblico ai partiti offre prove inconfutabili della continuità di questa
deriva.
A fare da pietra di inciampo negli assetti della nuova partitocrazia è stata la crisi economica scoppiata negli
Usa nel 2008 e rapidamente estesasi all’Europa. Un fattore che, oltre a mettere in moto un processo di rapida
pauperizzazione in cospicui settori sociali, inclusa buona parte del ceto medio, ha trascinato sul banco degli
imputati di fronte al tribunale dell’opinione pubblica non solo gli ormai sistematicamente stigmatizzati
politici, ma anche i protagonisti della finanza: le banche, le agenzie di rating, gli speculatori borsistici, i
gestori di fondi. E, con loro, i tecnici del settore – spesso descritti come tecnocrati –, visti sempre più
frequentemente come esecutori di ordini di una élite di potere transnazionale votata allo sfruttamento e alla
manipolazione mediatica.
Che la “bolla” di malcontento cresciuta attorno a questo stato di disagio avrebbe finito per esplodere,
aprendo l’opportunità di occupare una considerevole area di consenso a soggetti dichiaratamente critici
dell’establishment, era nell’ordine delle cose, tanto più se si considera che negli ultimi due decenni in tutta
Europa, da Ovest a Est e da Nord a Sud, le espressioni di questa contestazione sono cresciute a macchia
d’olio, facendo parlare di un’ondata di populismo e di antipolitica. E come antipolitico, appunto, è stato
bollato almeno fino alle elezioni legislative del 25-26 febbraio 2013 anche il fenomeno grillino. Che, con il
25,5% dei voti raccolti e il primato raggiunto fra le liste presentate, ha dimostrato invece di offrire uno
sbocco squisitamente politico alla protesta.
Appurato il retroterra psicologico del suo successo, resta da capire come il M5S sia riuscito a catturare in
misura così ampia i consensi di dissenzienti dal sistema che provenivano da percorsi di formazione
eterogenei e da scelte di voto precedenti molto differenziate, come dimostrano le prime ricerche condotte in
argomento.
Per rispondere a questa domanda bisogna sgombrare il terreno da più di un equivoco. Iniziamo dal primo: la
capacità di attivazione del consenso confluito sulle liste “a cinque stelle”. A calamitare il voto di oltre otto
milioni di italiani non è stata l’azione svolta dal movimento nei pochi anni di vita. Dei meetup creati a metà
dello scorso decennio, la stragrande maggioranza di costoro non conosceva neppure l’esistenza, così come
non aveva letto il programma e il “non statuto” elaborati dal M5S. Né era stata coinvolta in qualcuna delle
attività svolte sul terreno dai militanti dei gruppi locali, incluse le raccolte di firme per referendum e
iniziative di legge popolare. Ed è molto improbabile che, quando l’avventura nazionale pentastellata era
iniziata a Milano nell’ottobre 2009, ne avesse percepito la notizia. A motivare il voto di questa massa di
persone è stato esclusivamente Beppe Grillo.
Seconda leggenda da sfatare: lo strabiliante potere del web. Non vi è dubbio che, aprendo nel 2005 il proprio
blog, grazie alla collaborazione avviata l’anno prima con Gianroberto Casaleggio, il comico genovese abbia
visto giusto. Le sue pagine su internet sono fra le più visitate a livello mondiale e l’enfasi da lui posta sulle
potenzialità del mezzo ha contribuito non poco a rendergli fedele una fetta della platea degli entusiasti della
comunicazione telematica. Inoltre, i messaggi pubblicati sul sito hanno fatto da cassa di risonanza delle
molte azioni promosse dal suo animatore, e – elemento probabilmente più decisivo di ogni altro – hanno
offerto ai seguaci via via conquistati la possibilità di conoscersi ed interagire in tempo reale, facendo davvero
rete e alimentando quello spirito di gruppo che è indispensabile alla buona riuscita di iniziative di questo
tipo. Ma molto limitata sarebbe rimasta la conoscenza delle molte iniziative promosse da Grillo se ad
ampliarne l’eco non fossero intervenuti i mezzi di informazione tradizionali, giornali e televisione in primo
luogo. Grazie a questi canali il grande pubblico ha saputo che Grillo, oltre ad assumersi il ruolo di fustigatore
dei vizi pubblici e sbeffeggiatore dei potenti nel corso dei suoi spettacoli teatrali, si era incamminato sulla via
della proposta di pratiche di vita alternative a quella della società consumistica e aveva iniziato ad intervenire
con la sua straordinaria vena istrionica intrisa di vis polemica in sedi ufficiali dove si discuteva di essenzialiquestioni politiche ed economiche. Sono stati il video e la carta stampata a rendere note ai più le incursioni
dell’attore nelle assemblee degli azionisti di Telecom, Parmalat e importanti gruppi bancari e la sostanza
delle sue virulente denunce di irregolarità e scandali. Il blog scaldava gli animi dei fedeli; tramite gli altri
strumenti la figura di Grillo, che già all’inizio poggiava su un sostanzioso capitale di visibilità, si rendeva
sempre più popolare un po’ in tutti gli ambienti. Fino ad esplodere con il V-day del 2007, la cui clamorosa
intestazione (il “vaffanculo” rivolto innanzitutto ai partiti, ma più in generale a tutti i potenti, imputati dello
sfascio etico e socioeconomico del paese) non poteva non attrarre, assieme alla divertita ed entusiastica
partecipazione della folla bolognese accorsa all’evento, l’attenzione dei media. Che, di fatto, consacrarono il
caso, facendo del geniale affabulatore un soggetto politico a pieno titolo e obbligandosi a seguirne tutte le
successive mosse rilevanti, dalle proposte di legge di iniziativa popolare alla provocatoria autocandidatura
alle primarie per la segreteria del Partito democratico, passando per l’animazione di varie campagne civiche.
Senza la narrazione giornalistica del suo percorso, la forza persuasiva della predicazione di Grillo, la
lungimiranza della sua capacità di denuncia (emersa dai fatti) e la coerenza delle sue argomentazioni non
avrebbero fatto breccia al di là della relativamente ridotta schiera degli internauti di lungo corso e di intensa
applicazione.
La combinazione di questi dati di fatto obbliga a riconoscere che quasi tutti coloro che hanno messo una
croce sul simbolo del M5S presente sulle schede elettorali non hanno espresso un consenso al movimento,
ma al suo ispiratore e animatore, solo per ragioni di convenienza ufficialmente presentato come portavoce
(per rendere ragione ai fatti, dovrebbe semmai essere invertito il segno del rapporto: moltissimi degli elettori
supponevano che il M5S avrebbe funto da portavoce parlamentare di Grillo). Perciò, per capire i motivi del
voto espresso non è a meetup, non statuti e opuscoli programmatici che occorre risalire, ma alla sostanza e
alla forma del discorso politico del vero catalizzatore di consensi.
Grazie agli strumenti di rilevazione di cui disponiamo – gli interventi sul blog, le interviste alla stampa estera
(vista la decisione di non concedersi al giornalismo italiano, a mo’ di rappresaglia per l’atteggiamento ostile
e le manipolazioni di cui esso è accusato), le registrazioni dei comizi (il cui canovaccio è rimasto identico per
l’intera durata dello Tsunami tour di campagna elettorale) – la trama di questo discorso appare con chiarezza.
E ci dice, prima d’ogni altra cosa, che Grillo ha saputo dare plasticamente forma compiuta alla mentalità
caratteristica del populismo.
A chi è abituato a confrontarsi scientificamente con questo fenomeno da anni, soprattutto se non ha verso
l’oggetto di studio alcun pregiudizio, limitandosi a considerarlo sul piano concettuale una utile categoria
analitica e sul piano politico un soggetto significativo, il caso di Beppe Grillo non può che apparire
esemplare della mentalità populista, anche se, ovviamente, di questa offre una declinazione personalizzata e
non appiattibile sullo stampo di altri attori, individuali o collettivi, presenti sulla scena europea e mondiale
(per intendersi: non siamo di fronte ad un clone di Chávez, Perón, Le Pen o Haider: il populismo non è
un’ideologia, né un mero stile discorsivo; è, appunto, una forma mentis più o meno articolata, coniugabile in
forme distinte). Una rapida e, in questa sede, inevitabilmente sommaria catalogazione delle argomentazioni
da lui usate, fissate per punti, è sufficiente a dimostrarlo.
1. Come ha continuamente ribadito – anche di recente, nel corso di un’importante discussione postelettorale
di cui ci occuperemo in seguito –, Grillo considera lo schema oppositivo sinistra/destra esaurito. Per lui, le
due categorie “non esistono più” e celano convergenze e divergenze ben più significative, misurabili tramite
le prese di posizione concrete sui problemi che contano. Sinistra e destra sono paraventi che servono a tenere
in caldo doti ereditate di consensi e a dividere artificialmente un’opinione pubblica che, se sottratta a questo
inganno, confluirebbe naturalmente verso le buone soluzioni.
2. Grillo istiga l’uomo comune, l’uomo della strada, in nome del buonsenso, alla rivolta contro “quelli che
stanno in alto” e lo ingannano. La contrapposizione tra le virtù di chi affronta quotidianamente con senso di
responsabilità e sacrifici le asprezze della vita e i vizi dei potenti, interessati esclusivamente al mantenimento
dei loro privilegi, è sistematica.
3. La diffidenza verso la “casta” dei politici di professione è uno dei marchi di fabbrica del discorso del
leader dei Cinque stelle. A partire almeno dal V-day e fino alle reazioni alla rielezione di Napolitano alla
presidenza della Repubblica, il conflitto tra la Piazza e il Palazzo ne è la metafora più esplicita. Ma si va
oltre: è l’idea della politica comunemente accreditata da chi la pratica professionalmente – e lucrosamente –
ad essere messa in discussione. La si presenta come complicata, inaccessibile al cittadino comune, che per
questo deve necessariamente delegarne l’esercizio ai competenti, quando invece essa sarebbe molto più
semplice e alla portata di tutti. Nel corso della campagna elettorale, Grillo ha ripetuto ad ogni platea che, se il
M5S avesse vinto le elezioni, gli sarebbe piaciuto vedere a capo del governo “una madre di famiglia con duefigli”, che sa come si conduce un focolare domestico superando le avversità, e sarebbe quindi perfettamente
in grado di gestire, con gli stessi criteri, una nazione.
4. Il popolo, come insieme dei cittadini, è il depositario di tutte le virtù che l’odierna classe dirigente nega o
trascura. È il titolare del monopolio dell’etica pubblica, che applicherà quando sarà riuscito a sbarazzarsi
delle élites parassitarie oggi dominanti.
5. Nel discorso di Grillo, è dichiarata l’ostilità verso l’invadenza dello Stato nella vita della gente comune.
La polemica contro il redditometro (“non sono io a dover giustificare di fronte allo Stato come spendo i miei
soldi; è lo Stato che deve rendere conto a me di come spende i soldi che io gli ho dato attraverso le tasse”),
contro i gravami fiscali eccessivi, contro l’assurdità e l’arroganza della burocrazia è uno dei piatti forti del
suo repertorio e si accompagna ad una costante richiesta di semplificazione di tutto ciò che, nei rapporti fra
politica e società, è attualmente complicato dagli interessi di un ceto di profittatori.
6. Molto insistente è la denuncia della “truffa” implicita nel meccanismo della rappresentanza, accusato di
escludere i non addetti ai lavori dalla gestione della cosa pubblica e dunque di annullare il fondamento della
democrazia, l’autogoverno popolare. Da ciò discendono la denuncia della “delega in bianco” richiesta dai
partiti per i loro eletti, la preferenza ideale per il mandato imperativo (per la cui reintroduzione è stata perfino
ipotizzata una modifica del dettato costituzionale), la proposta di introdurre il referendum propositivo senza
limiti di quorum e la simpatia dichiarata verso istituti come il recall di alcuni Stati Usa, che consentono la
revoca delle cariche attribuite agli eletti quando questi non rispettano i voleri e le aspettative di chi li ha scelti
tramite il voto.
7. Non infrequente è anche la sottolineatura dei “lacci” istituzionali alla traduzione in atto del volere dei
cittadini, che talvolta si tramuta in attacco frontale ad istituzioni accusate di non sapere e voler decidere.
Sono rimaste celebri le invettive contro “Morfeo” Napolitano e, più in genere, le critiche al ruolo esercitato
negli ultimi anni dalla Presidenza della Repubblica, mentre in ognuno degli appuntamenti dello Tsunami
tour Grillo ha riscosso l’acme delle ovazioni e degli applausi quando ha segnalato ai terroristi che volessero
colpire l’Italia per le sue errate scelte di politica internazionale le coordinate di longitudine e latitudine del
palazzo di Montecitorio a Roma.
8. Tipica della mentalità populista è altresì l’invocazione di una politica estera sostanzialmente isolazionista,
che tuteli esclusivamente gli interessi del paese e rifiuti gli interventi esterni, comunque motivati, giudicati
estranei alle preoccupazioni popolari. È nota l’avversione di Grillo per le missioni “di pace” all’estero,
smascherate come attività di sostegno bellico alle strategie degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali,
così come lo sono i suoi giudizi sulle campagne di discredito verso alcuni presunti Stati canaglia, Iran in
primis.
9. Nella stessa scia si collocano le polemiche contro le istituzioni transnazionali, a seconda dei casi accusate
di andare a rimorchio delle convenienze degli Stati più potenti o di assumere provvedimenti inefficaci o
dettati da gruppi di interesse estranei alle necessità popolari. Tipiche sono le ripetute prese di posizione
contro l’Unione europea, le sue burocrazie “tecnocratiche”, i suoi esperimenti “sulla pelle dei popoli”, primo
fra tutti l’euro, ma non mancano anche i giudizi sferzanti sulle Nazioni Unite.
10. Dal discorso di Grillo emerge una visione ideale della società che si potrebbe definire, con le parole di
uno dei più acuti studiosi del populismo, Ludovico Incisa di Camerana, “cicatrizzante”, ricompositiva. Tutti
coloro che mirano a spaccare il popolo, a inoculargli i germi dei conflitti intestini – a partire dai sindacati,
accusati di fare i propri interessi di bottega speculando sui drammi sociali –, vengono deprecati. Contro la
tentazione di resuscitare la lotta di classe viene spesso evocato il ruolo positivo del ceto medio, spina dorsale
della collettività nazionale. Le piccole e medie imprese, che ne sono in un certo senso il simbolo, sono il
primo destinatario degli appelli ad un intervento fattivo dei poteri pubblici per la ripresa economica, che si
accompagna all’elogio dell’onesto e umile lavoratore “qualunque”.
11. Non mancano, nella retorica dell’attore genovese, i richiami alla tradizione popolare, con un frequente
uso di modi di dire estratti dal linguaggio della quotidianità e di proverbi. L’esaltazione della “terra patria”,
per dirla con un altro noto studioso del populismo, Paul Taggart, punteggia molti degli interventi pubblici di
Beppe Grillo, ed è alla radice della sua conclamata e discussa (anche all’interno del M5S) preferenza per lo
jus sanguinis rispetto allo jus soli, che con l’andar del tempo “cambierebbe i connotati del paese”, che viene
visto come una comunità ed esortato a farsi effettivamente tale. Il localismo, sempre presente anche se mai
esasperato, è da interpretarsi come inquadrato in questa cornice.
12. Anche la galleria dei “nemici” (del popolo) sciorinata da Grillo nei suoi interventi ospita quasi tutte le
figure messe alla berlina dai movimenti populisti: gli eurocrati, la finanza avida e cosmopolita, i politici di
professione egoisticamente legati al proprio tornaconto, i partiti, l’immigrazione – oggetto di esecrazione
sono stati i commenti postati dal comico sul blog contro i criminali (rumeni in un caso, marocchini nell’altro)responsabili di efferati delitti, conditi da messe in guardia contro queste ricadute di un’eccessiva apertura dei
confini ai flussi migratori – e gli intellettuali. Esemplare è stata, su quest’ultimo versante, la dura reazione
del leader del M5S alla petizione di esponenti più o meno insigni della cultura italiana che chiedevano al
movimento di allearsi con il centrosinistra per creare un governo di segno progressista: “per fortuna, fra noi
non ci sono intellettuali”, sono state le parole di commento, accompagnate dall’accusata agli esponenti di
questa categoria di praticare sistematicamente l’opportunismo e l’adulazione dei potenti.
13. Lo stesso Grillo incarna alla perfezione un altro tratto tipico della mentalità populista: il capo estraneo
alla politica, prestato ad essa perché la situazione straordinaria lo richiede ma pronto a ritornare, a risultati
ottenuti, alla propria amata professione (quello che, in altra sede, abbiamo definito il “mito di Cincinnato”),
deciso a dettare la linea al movimento per evitarne frazionamenti intestini e liti carrieristiche, ma nel
contempo propenso a presentarsi non come leader sovraordinato ai seguaci bensì come loro ventriloquo –
anzi, nella fattispecie, come “megafono” della base e, per estensione, della volontà popolare che il
movimento pretende di incarnare.
14. Infine, spicca la visione del popolo come un’entità fondamentalmente coesa e destinata a parlare con una
sola voce, che solo la faziosità dei partiti e gli interessi egoistici dei loro esponenti frammentano in spezzoni
astiosi e incapaci di comunicare, traspare nei tanto discussi ma ripetuti accenni di Grillo all’obiettivo di
“raggiungere il 100% dei consensi”, ovvero di conquistare una maggioranza elettorale traducibile poi in una
calamita in grado di aggregare l’insieme della cittadinanza, finalmente riconciliata. Assurda per i teorici
dello strutturale pluralismo dei regimi democratici, questa prospettiva appare invece totalmente in linea con i
presupposti teorici della mentalità populista, che intuisce, dietro il pulviscolo delle individualità, l’esistenza
di un fattore unificante che le rende popolo.
15. Rifacendosi a chi sostiene che quello di Grillo è un “web-populismo” (ad esempio Elisabetta Gualmini e
Piergiorgio Corbetta nel loro libro Il partito di Grillo, edito da Il Mulino), si può aggiungere che, in effetti,
anche l’esaltazione delle virtù della rete telematica può rientrare in uno schema populista, in quanto sia la
possibilità di rendere orizzontale la comunicazione e di imporre il faccia-a-faccia agli interlocutori di ogni
ordine e grado, sia quella di consentire all’utente qualunque di dire la sua su qualunque argomento dando
sfogo ad umori e convinzioni all’interno di un blog, di un social network o di un forum, sia l’opportunità che
internet offre di diffondere un’informazione alternativa a quella dei media ufficiali controllati o influenzati
dai potenti, rafforzano quella contrapposizione popolo-élite che, come soprattutto Yves Mény e Yves Surel
hanno sottolineato, è il marchio di fabbrica stesso del populismo.
Tutto ciò premesso e chiarito, si impone un quesito cruciale. Se sulla base di questo discorso populista Beppe
Grillo ha saputo attirare e condurre ad una comune espressione di voto un frastagliato arcipelago di soggetti
che in precedenza avevano espresso consenso per altri partiti – di sinistra, di destra, di centro – o si erano
astenuti, anche per più elezioni consecutive, può il Movimento Cinque Stelle, adesso che ha inserito molti
suoi esponenti nelle istituzioni, mantenere e rafforzare questo capitale di favori?
Sulla base dei comportamenti degli eletti in Parlamento e negli enti locali, appare azzardato formulare una
risposta positiva. Come i risultati delle prime consultazioni successive alle legislative di febbraio stanno
dimostrando, il movimento sembra già in perdita di velocità. E, fra le cause della flessione che si possono
ipotizzare ed in parte sono già state prospettate, la più plausibile è proprio l’incapacità del M5S di accordare
la sua immagine e le sue azioni al discorso che Beppe Grillo ha sostenuto prima e durante la campagna
elettorale.
I motivi di questo scarto, che potrebbe alla lunga diventare letale o comunque far modificare profondamente
la base di consenso del movimento, forse ampliandola su un versante ma certamente restringendola su altri,
sono ricollegabili alla struttura – ammesso che si possa definirla tale – dell’aggregato che intorno all’attore
genovese si è formato. Grande è infatti la distanza che separa il profilo politico-culturale degli elettori del
M5S da quello dei militanti e degli eletti. Questi ultimi, anche per l’improvvisata procedura di selezione
escogitata (le “Parlamentarie”, una consultazione effettuata via web), non hanno attraversato una fase
sufficientemente prolungata di socializzazione al discorso del leader, né hanno sinora usufruito di luoghi di
costante confronto che potessero amalgamarne i punti di vista. I libri di Grillo e Casaleggio hanno senz’altro
fornito spunti di riflessione comune, ma la voluta indisponibilità di sedi territoriali non ha potuto impedire il
proliferare di interpretazioni personali del “verbo” della leadership. Lo ha subito dimostrato il fatto che, in
contrasto con l’impegno di non sottoscrivere alcuna alleanza con altri partiti inscritto nel programma e fatto
proprio da tutti i candidati al momento di accettare l’investitura, alcuni dei neofiti di Montecitorio e di
Palazzo Madama si sono lasciati tentare dall’ipotesi di sostenere un governo a guida Pd. Con ciò tradendo la
caratteristica di formazione anti-establishment con cui il M5S si era presentato agli elettori per bocca del suo
massimo animatore e la promessa di estraneità al binomio destra-sinistra.Il carattere non gerarchico e anti-autoritario di cui il Cinque Stelle mena vanto, così come la rivendicata
natura di movimento, di per sé fluida, agisce del resto come un respingente per i tentativi di omogeneizzarne
visioni e prese di posizione. Il solo blog di Beppe Grillo, per quanto accreditato e circonfuso di un’aura di
legittimità, non sembra in grado di contrastare gli evidenti rischi di derive centrifughe. Che sono accresciuti
dall’estrazione politica di buona parte dei quadri intermedi e superiori – i “cittadini deputati e senatori”, i
consiglieri regionali –, in genere provenienti da esperienze in movimenti e comitati raramente collocati al di
fuori o al di là della destra e della sinistra e molto più frequentemente gravitanti nella seconda di queste aree
(seppur delusi dalle formazioni della sinistra ufficiale, sia moderata che radicale). Non è fuori luogo supporre
che molti di costoro, diversamente da gran parte degli elettori, siano stati attratti dalle tematiche formalmente
esibite dal M5S – l’ecologismo, la decrescita, la difesa dei beni pubblici, la lotta alla corruzione del ceto
politico; insomma, le “cinque stelle” – più che dalla sintesi del discorso di Beppe Grillo, su alcuni aspetti del
quale coltivavano invece alcune riserve, già affiorate in dichiarazioni pubbliche o discussioni via web.
A giudicare da alcuni degli atti compiuti da marzo in poi sia dai militanti che dai parlamentari – i quali
affidano alle sole virtù del dibattito assembleare dei due gruppi riuniti la possibilità di giungere a posizioni
condivise sui vari temi in agenda – questo scostamento non solo esiste, ma si va accentuando. Tanto da aver
indotto Grillo ad intervenire a ripetizione, con i moniti espressi attraverso il blog ma anche con le trasferte
dirette a Roma e con l’imposizione di coordinatori/controllori della comunicazione dei gruppi parlamentari,
per correggere il tiro delle posizioni assunte da deputati e senatori e l’immagine che esse riverberavano sul
movimento, anche a costo di minacciare sanzioni verso i dissenzienti. Si è molto parlato, in questo senso,
delle tirate d’orecchie sulla questione della rinuncia a parte della retribuzione parlamentare – la diaria –, ma
non meno significativi sono stati i messaggi lanciati in occasione delle votazioni per la Presidenza della
Repubblica, delle proposte di Bersani per un sostegno al governo che si proponeva di formare e, più d’ogni
altro, il post intitolato “il M5S non è di sinistra (e neppure di destra)” lanciato a metà maggio.
Grillo sa che, abbandonando l’originaria vocazione ad oltrepassare tutte le appartenenze pregresse e le
logiche di appartenenza a questa o quell’area della “vecchia” politica, il movimento metterebbe una buona
dose di piombo sulle proprie ali; ma, anche a seguito dell’ebbrezza scaturita dalle impensabili proporzioni
del successo elettorale, molti dei suoi più attivi sostenitori sembrano non avere consapevolezza del pericolo.
Se ne è avuta una prova quando si è trattato di far votare gli iscritti alle cosiddette Quirinarie, indette allo
scopo di selezionare i candidati alla Presidenza della Repubblica da sostenere in sede di voto. La scelta, nella
rosa dei papabili, di esponenti della “casta” molto spesso dileggiati da Grillo nei suoi spettacoli, a partire da
Romano Prodi ma includendo lo stesso Stefano Rodotà, un ottuagenario con alle spalle cariche rilevanti di
partito e titolare di più di una pensione, ha reso palese che, di fronte a temi e problemi non affrontati e quindi
non metabolizzati tramite le campagne sostenute nei poco più di tre anni di vita, il movimento può sbandare
e sentire il richiamo della foresta di precedenti scelte di campo dei suoi esponenti, incapaci di dimostrarsi
estranei alla routine della politica ordinaria.
In ambasce simili si è trovato, con quasi trent’anni di anticipo sulle vicende di cui qui ci stiamo occupando,
l’arcipelago Verde italiano. Che, come il M5S, è partito con il vento in poppa, una base di sostegno
trasversale e la conclamata volontà di contestare alla radice le logiche e i criteri di funzionamento del sistema
politico, le sue scelte di priorità, le sue forme organizzative. Le Liste Verdi – che pure hanno a lungo
rifiutato di trasformarsi in partito, accettando al massimo di convergere in una federazione – hanno presto
subito, in quel caso dall’esterno, l’arrembaggio di un piccolo ceto politico di carrieristi che avevano esaurito
le speranze di affermarsi all’interno dei partitini di sinistra radicale e hanno finito col cedere alle pressione
dei nuovi arrivati, passando dal “né destra né sinistra” e da un’intransigente confutazione del modello di
società predominante ad una collocazione tattica all’interno della sinistra e a teorizzazioni e prassi riformiste,
simboleggiate dall’ambigua formula dello “sviluppo sostenibile”. Come le cose siano andate a finire, è sotto
gli occhi e/o nel ricordo di tutti coloro che si interessano di politica: marginalizzazione, guerre intestine,
riduzione a cifre elettorali insignificanti.
Saprà il Movimento Cinque Stelle apprendere la lezione ed evitare di incamminarsi sulla stessa via, che di
tappa in tappa conduce all’autodistruzione?
Non è facile dirlo. Alcuni segnali, come i contenuti di alcuni dei primi disegni di legge presentati, in sintonia
con impostazioni care a quella sinistra radicale che fa della visione dei diritti civili in chiave individualistica
pressoché la sua unica bandiera, e la stessa rissosità dei commenti che affollano, su qualunque argomento, il
blog di Beppe Grillo – certo non tutti opera di veri sostenitori del movimento, ma in parte senz’altro
espressione della babele linguistica e ideale che imperversa nell’elettorato grillino – inducono al pessimismo,
anche se è presto per tracciare prognosi. Quel che è difficile negare è che solo la conferma, l’ampliamento e
l’approfondimento del discorso sostenuto dall’ispiratore e fondatore, potrà rendere il M5S capace dicostituire un’autentica solida novità nel panorama politico italiano. Solo quella scelta riuscirà a mantenere
alta l’attenzione di opinione pubblica e osservatori, stimolare imitazioni all’estero e favorire la crescita di un
humus culturale dove attorno a suggestioni e modelli innovativi – si pensi alla teoria della decrescita, ma non
solo – possano prendere corpo versanti di confronto (e/o di incontro) adeguati alla complessità dei problemi
della nostra epoca, destinati a sostituire, nell’immaginario collettivo, le vestigia di linee di conflitto superate,
ma a tutt’oggi tenute in vita dai cultori delle vecchie ideologie. Solo così un’esperienza singolare e per certi
versi bizzarra potrà fungere da motore di quella rivoluzione che su tutte le piazze Grillo ha invocato,
rivendicandone la paternità, e che per essere tale deve accendere fuochi nelle coscienze. Farsi, in altre parole,
lievito di un cambiamento di prospettive metapolitiche e non soltanto strumento di tattiche politiche.
Non è il caso di concedere cambiali in bianco a chi promette di volersi cimentare in avventure così ardue. Ma
neppure bisogna chiudere la porta alle opportunità che potrebbero presentarsi sulla scia del fenomeno-M5S.
Un’attenzione critica verso questo nuovo soggetto, senza cedimenti a improvvisati entusiasmi o a diffidenze
pregiudiziali ci pare, in un’ottica non conformista, un’opzione di gran lunga preferibile.