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Sul concetto di tradizione

di Luciano Fuschini - 09/09/2013

    

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Il pensiero tradizionalista colloca l’epoca d’oro dell’umanità ai primordi della sua storia.

Quell’epoca che si perde nella notte dei tempi è rimasta nella memoria ancestrale come mito del Paradiso Terrestre, presente in forme differenziate in tutte le culture antiche, a testimonianza di una Dottrina e di una Conoscenza comuni, pur nelle differenti manifestazioni legate a climi e razze diverse.

La storia successiva è la storia di una progressiva decadenza da quella perfezione originaria, di comunità centrate su un Asse che proiettava verso l’alto, comunità in cui il terreno si fondeva col sacro in una visione in cui tutto era simbolo che alludeva a una realtà superiore e in cui i governanti erano anche sacerdoti e i guerrieri avevano il còmpito di ristabilire un Ordine provvisoriamente alterato.

Già la civiltà greco-romana rappresentò un momento di decadenza, aggravata dal successivo avvento del cristianesimo. Il Medioevo, soprattutto quello dell’ideale ghibellino, ha preservato qualche traccia dell’antica spiritualità, mentre la modernità segna la fase finale che porta al disfacimento e alla conclusione del ciclo, prima della ripresa della spiritualità antica e della riproposizione della fase ascendente del ciclo stesso.

Nell’aberrazione della modernità, un barlume dell’antica nobile Dottrina viene preservato da un’élite di iniziati, che hanno la funzione di conservare la sacra fiamma fino al momento in cui il sempre più rapido declino si invertirà e si muterà nel suo contrario.

Esiste pertanto nella Dottrina un aspetto exoterico (o essoterico) destinato alla massa, ombra della Verità, e un aspetto esoterico noto soltanto agli iniziati e che la massa non comprenderebbe.

 

Il pensiero progressista, che domina la scena in questa nostra modernità, vede nei primordi dell’umanità uno stato di pura bestialità. Un’evoluzione prima biologica poi culturale fa sì che ogni epoca successiva rappresenti un avanzamento sulla via della consapevolezza, dell’incivilimento dei costumi, della diffusione della conoscenza, dello sviluppo delle forze produttive. In questo continuo progredire ci sono momenti di apparente inversione di tendenza, momenti di ricaduta verso condizioni di barbarie e di fanatismo religioso, come nel Medioevo, ma osservando dietro le giravolte della storia intravediamo una linea di sviluppo continuo.

Pertanto l’epoca moderna, pur con tutte le contraddizioni inevitabili nella complessità della vicenda umana, ci conduce verso una vita migliore garantita dalle conquiste della scienza, dall’efficienza dell’economia, dalla crescita culturale dei popoli, che devono essere innalzati alla conoscenza e non tenuti in uno stato di minorità.

 

Movimento Zero, in quanto movimento antimoderno, si rifà al pensiero tradizionalista, però in un’ottica significativamente diversa. Per rendere politicamente operativi i presupposti del tradizionalismo e per non chiudersi nella conventicola degli iniziati che coltivano l’ideale in attesa del rovesciamento del ciclo, in altre parole per non chiudersi in uno sdegnoso aristocraticismo sterile, ha cercato di calare il discorso sulla tradizione (che scrivo con la minuscola non essendo evoliano) dalla nebulosa indeterminatezza di epoche ancora preistoriche alla concretezza della storia. Si è pertanto soffermato sull’individuazione del processo degenerativo della modernità vedendone le origini nella Rivoluzione industriale, nell’Illuminismo, nello scientismo, e vedendo capitalismo e social-comunismo come due facce dello stesso fenomeno, giunto ora all’estremo di una crisi che minaccia di sprofondare l’umanità in un caos mortale.

Il tentativo di Movimento Zero per ora è fallimentare.

A parte i limiti soggettivi di un’organizzazione e di una militanza carenti, il còmpito era immane in un’Italia in cui nel campo politico non si esce dallo schema che obbliga a incasellare o nel fascismo, o nel comunismo, o in una delle varianti della democrazia. Chi tenta di uscire da questa gabbia non è compreso. Fra chi si avvicina a Movimento Zero, alcuni sono affetti da un sinistrismo ecologista che si sente incoraggiato dall’adesione del movimento alla prospettiva della Decrescita. Altri, privilegiando la difesa di una mai verificatasi purezza etnica, troverebbero una collocazione più adeguata in movimenti neofascisti.

Un Movimento che ha nel proprio programma come punto fondamentale l’antimodernità, non può che considerare il rispetto della tradizione quale requisito qualificante.

Eppure il concetto di tradizione va definito attentamente perché è fonte di tanti fraintendimenti.

Esiste un tradizionalismo che risale alla spiritualità degli antichi popoli indoeuropei e al loro politeismo. Per questi tradizionalisti il cristianesimo è stato già il segno di una degenerazione, di una profonda decadenza. Il recupero della nostra tradizione comporterebbe per costoro la ripresa di una cultura pagana indoeuropea che è rimasta latente nei secoli, sotto la crosta di un cristianesimo importato.

Per altri tradizionalisti, la  tradizione italiana ed europea è cristiana. Da ciò la rivalutazione del Medioevo e la difesa della cristianità minacciata dal secolarismo e dal mondialismo. Bisogna inoltre precisare che il concetto di Tradizione nel senso alto che le danno Evola e Guénon è altra cosa rispetto alla tradizione intesa come il complesso duraturo di costumi, credenze e mentalità che contrassegnano le varie comunità. Il ragionamento che segue farà riferimento a quest’ultimo concetto.

 

Per uscire dagli equivoci occorre far calare il concetto di tradizione e di antimodernità dai cieli azzurri del mito al terreno solido della storia. Esistono circostanze storiche che definiscono cesure nette, svolte epocali che trasformano i costumi, introducono nuove religioni, stabiliscono nuovi rapporti interpersonali, mutano i popoli anche antropologicamente.

La più impressionante di queste cesure fu quella che segnò la fine dell’Impero Romano, con le cosiddette invasioni barbariche e con l’avvento del cristianesimo. Quella cesura dimostra che anche le tradizioni sono soggette ai mutamenti della storia.

Del resto il paganesimo Romano non era una tradizione granitica e immobile, come non lo erano i costumi di quel popolo straordinario. Si sa che Roma adottò divinità e riti di popolazioni assoggettate.

D’altra parte anche la cristianità medievale fu tutt’altro che un monolite impermeabile ad altre culture e tradizioni. In particolare gli arabi hanno dato un grande contributo alla civiltà europea medievale. Chi abbia dubbi in proposito, si legga Franco Cardini, uno dei riferimenti ideali di Movimento Zero, cattolico tradizionalista e illustre storico del Medioevo. Gli arabi hanno lasciato un’impronta profondissima nella civiltà europea, nell’arte, nella letteratura, nelle scienze, nelle stesse lingue che utilizzano numerosi termini dedotti dall’arabo. Anche nei costumi di alcune popolazioni, come i nostri siciliani, l’influsso arabo è stato duraturo. Perfino nei tratti somatici di molti siciliani leggiamo profili semitici, con buona pace dei cultori della purezza etnica.

 

Oggi viviamo un’altra grande cesura della storia, un passaggio epocale che si svolge sotto i nostri occhi, con le migrazioni dei popoli, il disorientamento generale, i ritmi frenetici di una vita alienata, le angosce di un presentimento di fine, la conflittualità non solo fra nazioni ma fra generazioni e fra generi, mentre a un massimo di comunicabilità garantita dai mezzi tecnologici corrisponde un minimo di comunicazione effettiva. 

Allora, se tutto è suscettibile di continui cambiamenti nei processi storici, che cosa resta del nucleo indistruttibile che chiamiamo tradizione? In definitiva,  a quale tradizione potremmo appellarci?

La domanda è affrontabile definendo che cosa dovremmo recuperare del passato, cioè che cosa appartiene più radicalmente a una spiritualità europea.

Intanto lo spirito comunitario, minato dall’individualismo che è un portato della modernità.

Il senso del sacro, avvilito dall’antropocentrismo e dal materialismo scientista.

La valorizzazione di ciò che resta immutabile, contro la mentalità progressista che esalta la novità.

Questi ideali, o piuttosto questa mentalità antica, non si recuperano con le prediche e le belle parole. Possono rivivere solo dopo una rivoluzione politica, sociale ed economica che crei il terreno di coltura su cui possa rifiorire la nostra civiltà.

A livello politico si tratta di recuperare un universalismo che è stato smantellato dagli Stati Nazionali, creazione moderna e non dato di natura come ci si vuole far credere. Un universalismo che non è certamente quello della globalizzazione né l’attuale UE, bensì l’ideale di un Impero europeo da non confondere con l’imperialismo, un Impero come lo intende A. de Benoist, altro riferimento per noi irrinunciabile,  che potrà nascere solo da un processo rivoluzionario di mobilitazione di passioni popolari, non dalle burocrazie esangui dei funzionari di Bruxelles.

A livello economico è urgente uscire dalla forma capitalista, che nella sua logica di continua riproduzione allargata, di mercificazione di ogni rapporto umano e di ricerca ossessiva del profitto, è la perfetta estrinsecazione della modernità.

A livello sociale si tratta di ripristinare il senso del radicamento, combattendo il nomadismo della civiltà orgiastica in cui viviamo.

A un livello sociale ed economico al tempo stesso si tratta di invertire il processo che con l’urbanizzazione ha creato mostruosi agglomerati, vera manifestazione del demoniaco, verso un ritorno all’agricoltura, all’artigianato, alla piccola industria, alle fonti energetiche diversificate e rapportate alle risorse del territorio, all’autoproduzione e autoconsumo.

 

Su questo impianto concettuale, che chiamiamo antimodernità, possiamo rivedere il tema del recupero della tradizione, strappandolo dalla nebulosità del mito. Anche l’antimodernità è un ideale, o addirittura un’ideologia, forse l’unico ideale nobile nell’epoca delle convulsioni di una modernità morente che minaccia di trascinare il mondo intero nella propria fine: una guerra catastrofica, una mischia generale di tutti contro tutti, è l’ipotesi più realistica.

In conclusione:

il concetto di tradizione comporta il recupero di un nucleo permanente ma deve ammettere che esistono svolte storiche che introducono elementi nuovi nel costume e nelle mentalità;

l’antimodernità comporta il rispetto della tradizione ma non si identifica con la tradizione stessa;

antimodernità non significa premodernità;

la difesa di presunte e mai verificatesi purezze etniche, nonché l’islamofobia, conducono a scivolare in una china che porta troppo lontano, in basso.