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Giornalisti con l’elmetto (l’isteria della "Quarta guerra mondiale")

di Stenio Solinas - 26/07/2006

Una guerra combattuta tra poveracci

Tayseer Alony Kate è condannato per complicità con Al Qaeda, non perché un terrorista, ma perché è arabo all’anagrafe.

Mentre in Italia
ci si scalda
sul “caso
Betulla”, ovvero
giornalismo
e Servizi
segreti,
il Financial Times riporta alla luce
il caso Tayseer Alony Kate, il giornalista
di origine siriana (ma da
vent’anni cittadino spagnolo) condannato
lo scorso settembre a sette
anni di carcere per complicità con
Al Qaeda e da allora rinchiuso nel
carcere di massima sicurezza
di Alcalà-Meco. Cinquant’anni,
una laurea in economia e
una in relazioni internazionali,
Alony, già traduttore per la
Efe, l’agenzia di stampa spagnola,
collaboratore di alcuni
quotidiani arabi e della rete
televisiva Al Jazeera, nel Duemila
si vide offrire da quest’ultima
il posto di corrispondente
da Kabul, sede inaugurata
di fatto con il suo arrivo.
In questo ruolo Alony si distinse
per almeno due cose: fu
l’unico giornalista straniero a
restare in Afghanistan durante
bombardamenti americani,
fu il primo giornalista straniero
ad intervistare Osama bin
Laden un mese dopo l’attacco
alle Torri Gemelle. Ad altri
avrebbero dato il Premio
Pulitzer, a lui è toccata la
galera...
Secondo i firmatari
di una lettera-appello
al Premier spagnolo,
Zapatero, quello di
Alony è un moderno
caso Dreyfus: l’ufficiale
francese fu condannato
per tradimento
non perché
fosse un traditore,
ma perché ebreo di
origine; il giornalista
spagnolo è stato condannato
per complicità
con Al Qaeda
non perché sia un
terrorista, ma perché
arabo all’anagrafe.
L’assunto che ha retto
l’intero processo, infatti, suona
pressapoco così: com’è possibile
che questo “moro” sia riuscito a
fare un’intervista con l’uomo più
ricercato della Terra? Se c’è riuscito,
la risposta più logica è che non
fosse un giornalista, ma un uomo di
Osama...
Alcuni elementi della vicenda meritano
di essere sottolineati. Alony
rimase in Afghanistan praticamente
sino alla fine della guerra, scampando
al bombardamento aereo del suo
ufficio; in seguito fu a Baghdad,
dove il suo albergo, il “Palestine”,
venne preso a cannonate dai tanks
americani... Quando il giudice spagnolo
Garzòn lo mise sotto inchiesta,
pensò che la cosa migliore fosse di
se rientrare in Spagna per meglio
difendersi....
Nella ricostruzione del suo caso
giudiziario fatta dal Financial
Times, due sono i fatti specifici che
gli vengono addebitati, tutto il resto
non essendo altro che l’aria fritta
dei giudizi di valore e/o di competenza
sulle sue capacità giornalistiche
espressi da magistrati la cui
autorità in materia è inesistente: il
primo riguarda l’aver fatto da corriere
economico, con una consegna
di 4mila dollari a un siriano, Mohamed
Bahaia, già conosciuto in Spagna
e ritrovato in Afghanistan come
membro di un’associazione umanitaria.
Il secondo, di aver ospitato,
agli inizi degli anni Novanta, nella
sua casa spagnola di Granada,
Mustafa Setmarian, in seguito collaboratore
del Ministero dell’Informazione
afghano. Sul primo punto
Alony si è difeso facendo osservare
che in un Paese senza banche né
servizi similari quella era una prassi
usuale fra persone che si conoscevano;
quanto all’ospitalità dei tempi
universitari, un atto che rientrava
negli usi e costumi di uno studente
di origine araba. Secondo l’accusa,
Bahaia, Setmarian e Alony avrebbero
invece fatto parte di una rete terroristica
terroristica
ramificata internazionalmente
e cementata nel tempo, della
quale non ci sono prove provate, ma
elementi indiziari sufficienti per
ipotizzarla.
Durato cinque mesi, il processo ha
preso il via a un anno di distanza
dalle bombe ai treni di Madrid del
marzo 2004 che videro 192 morti e
migliaia di feriti: da qualunque lato
lo si affronti, mostra una fragilità
nell’impianto accusatorio che solo
l’isteria politico-ideologica che stiamo
attraversando trasforma in ferrea
logica. Probabilmente quando,
fra un po’ di anni, si riuscirà
a tirare fuori Alony mondato da
ogni accusa (è pendente un
ricorso alla Suprema Corte di
Madrid e i suoi difensori si preparano
a portare il caso alla
Corte dei Diritti Umani di Strasburgo),
ci sarà qualche bello
spirito che applaudirà alla superiorità
del sistema occidentale in
grado di correggere i propri
errori... Nel frattempo, si sarà
distrutta la vita, sociale, familiare,
professionale, di un essere
umano e nessuno si sarà chiesto
se, proprio perché esiste da noi
un sistema giuridico che in teoria
tutela la presunzione di innocenza,
non si sarebbe dovuti
intervenire prima, essere rispettosi
della legalità in punto di
diritto, non farsi tirare dentro la
trappola dell’interesse nazionale,
della guerra internazionale al
terrorismo, della
Quarta Guerra Mondiale...
Rispetto al caso
Alony, il “caso
Betulla” è opposto e
tuttavia speculare,
visto che il giornalista
siriano-spagnolo
si è ritrovato arruolato
suo malgrado, perché
lui nega infatti
qualsiasi contaminazione,
nell’esercito
del Male, mentre il
giornalista italiano
Renato Farina si
dichiara orgoglioso
di essere andato
volontario nell’armata del Bene...
Confesso che parlare di quest’ultimo
aspetto non mi appassiona.
Conosco Farina, ho lavorato con
lui, lo considero un bravo collega e
una persona per bene, non faccio
parte della categoria delle “anime
belle” che si riempiono la bocca con
la sacralità della professione giornalistica,
ma hanno fatto carriera nei
quotidiani di partito e negli uffici
stampa delle industrie pubbliche e
private, so che da Koestler a Silone,
da Orwell a Greene, la strada della
scrittura può essere attraversata da
incroci pericolosi, lastricata di frequentazioni
sospette, doppigiochi
rischiosi... E tuttavia, quando i giornalisti
indossano l’elmetto da combattimento,
poi non ci stanno più
con la testa: hanno la tendenza a
trasformare le loro opinioni in verità
assolute e qualche ufficio dei Servizi
da cui finiscono per dipendere
nella giustizia divina. Sognano di
fare la guerra al Maligno e si ritrovano
a cercare di carpire informazioni
a un magistrato. Vogliono la
gloria, ma a piè di lista... Viene fuori,
insomma, una guerra di bottoni
fra poveracci e intorno a essa il
voler prendere, il dover prendere,
per oro colato qualsiasi informazione:
prove schiaccianti su terroristi
mai esistite, ma sempre date per
certe, attentati sempre sventati, ma
di cui non si potrà mai dire di più,
complicità e reati considerati come
provati, ma per i quali vale la regola
del doverci credere a busta chiusa...
È chiaro, insomma, che si finisce
per fare un altro mestiere, magari
più bello, magari più interessante,
ma allora tanto vale mettersi una
barba finta e non pensarci più.