Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Elogio dei pregiudizi. Viaggio nella psiche malata dell’Occidente.

Elogio dei pregiudizi. Viaggio nella psiche malata dell’Occidente.

di Gian Maria Bavestrello - 20/12/2013

Fonte: heimat

Viviamo in un mondo denso di credenze radicate, etichettate come “scientifiche”, ma con spiccata repulsione ideologica verso un altro genere di credenze chiamate pregiudizi.  Avere pre-giudizi è il peccato mortale del XXI secolo, sintomo di “ignoranza”, di provincialismo e di chiusura mentale.

Contro i pre-giudizi si imbandiscono campagne sociali ed educative, invitando le giovani generazioni a disfarsene e a pensare che il mondo sia una “tabula rasa” dove usi, costumi, retaggi storici e religiosi, appartenenze sessuali o di genere, persino conclamate condizioni di infermità, non pesino in modo determinante sull’identità individuale e sul comportamento di ciascuno. Laddove si ammette che questo accada, è solo per sottolinearne il valore positivo.  L’unico pre-giudizio ammesso è quello “filantropico”, rivolto a sottolineare il “bene” di cui è possibile fare esperienza nell’Altro. E il male? Semplice scelta individuale o semplice effetto di cause sociali?

Si, secondo i dettami contemporanei, e con poche eccezioni. A parere dell’ideologia moderna, a cui concorrono sia influssi laici che religiosi, le alternative sono due: andare incontro alla vita con mente sgombra e petto nudo, senza timori di eventuali pericoli e senza letture pre-concette degli scenari sociali e culturali che si manifestano di fronte a noi, oppure abbracciarla pre-giudicandola come fonte di gioia, arricchimento e speranza.

Ora, donde nasce questa paura reverenziale del pre-giudizio negativo? E soprattutto: ha senso? “Di per sé – spiega il filosofo Hans Georg Gadamer – pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevante. L’interprete non non può proporsi di prescindere da sé stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova”.

Non avere pre-giudizi indica che il proprio livello di coscienza è sotto la soglia dell’attenzione e della presenza a sé stessi, una vera e propria menomazione psichica che appare difficile contrabbandare per atteggiamento filosoficamente corretto. Difatti non lo è: è piuttosto il risultato patologico di un malinteso senso di colpa occidentale per  il “male” perpetuato in epoche dove il pre-giudizio etnocentrico era forte e radicato. Dico malinteso perché il senso di colpa, per definizione, non è una condizione della psiche a cui cedere supinamente, ma il sintomo che è necessario confrontarsi lucidamente col proprio passato e liberarsi consapevolmente dalla sua natura spettrale, assillante e potenzialmente devastante.

Che la psiche, anche collettiva, pervenga a un’idea del mondo partendo dalle proprie esperienze o dal patrimonio di informazioni direttamente o indirettamente acquisito nel corso della vita, che la mente coltivi cioè pre-giudizi, è un processo iscritto nella logica dell’istinto di sopravvivenza. Che servizio ci renderebbe una mente incapace di rilevare situazioni di potenziale rischio, pericolo, conflittualità?

I pregiudizi ci aiutano ad assumere un atteggiamento di prudenza nei confronti della realtà circostante e a non commettere errori di valutazione nelle scelte, sia personali che politiche;  una prudenza che non significa rifiuto del nuovo o disponibilità a modificare quegli stessi pregiudizi integrandoli con nuove informazioni e sviluppando nuove consapevolezze, nuove distinzioni. Il pre-giudizio non è infatti un giudizio assoluto, ma un giudizio parziale che chiede di essere sottoposto, giorno dopo giorno, alla verifica della storia. Un percorso attraverso cui il mondo, progressivamente, si dischiude a noi mostrandoci quell’alterità che domanda rispetto a partire dalla sua identità, interrogandoci, modificandoci, in una circolarità che chiama a raccolta tutte le facoltà dell’uomo e non il solo desiderio ossessivo di espiare le proprie colpe.

Anche per una seconda ragione: é nel rifiuto del pregiudizio, paradossalmente, che agisce quel timore di un confronto che solo può salvaguardare l’Altro nella sua specificità.  Rifiutare il pre-giudizio significa, in ultima battuta, rifiutare la diversità e assimilare a noi ogni differenza,  compiendo un peccato di presunzione ancora peggiore. Certo il “senso di colpa” è lenito, il diverso diventa uguale a noi non perché abbia ottenuto un proprio status che lo ha reso pari a noi ma perché cessa di essere diverso e di turbarci. Il “negro” è stato riscattato non come tale ma solo diventando nero o persona di “colore”.  L”omosessuale è stato privato della sua identità e abolito dalla sua costituzione in etero-sessuale “sui generis”, con uguale collocazione nella sfera del diritto e della società. L’etnia Rom? Una collezione di leggende metropolitane o di generalizzazioni e non l’esito di una storia drammatica, unica e irripetibile, che apre ferite profonde e inaggirabili nel tessuto urbano e sociale europeo. In questo movimento di rimozione, sostituzione e omologazione dimostriamo di non avere ancora imparato ad accettare l’Altro in sé e per sé, ma la disponibilità ad assimilarlo a noi appaga il nostro narcisismo, perché di questo si tratta: di una civiltà, la nostra, disturbata, malata, schizofrenica, incapace di confrontarsi con la realtà se non attraverso mistificazioni o fobie. Una condizione per la quale, attualmente, non sembra esistere ancora una terapia.