Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’ultimo viaggio di Gogol nel regno delle anime morte

L’ultimo viaggio di Gogol nel regno delle anime morte

di Piero Citati - 18/02/2014


Nikolaj Gogol chiamava il suo capolavoro, Le anime morte , un poema. Non voleva che si usasse la parola romanzo. Era un poema, perché era ampio e spazioso: si ampliava sempre più via via che si avvicinava alla fine; in realtà, non possedeva una fine determinata e precisa, un epilogo. La fine fu sempre, per Le anime morte , un oceano, dove perdersi: o il fuoco, che dissolse e annullò, nell’aria fumosa della casa di Gogol, i personaggi, gli episodi, i pensieri della seconda parte del libro.
Le anime morte era un’opera ampia come la Russia: sia santa, con una moltitudine di chiese, monasteri, cupole, guglie e crocifissi; sia malinconica e illimitata: «Terra di Russia, terra di Russia!...che inaccessibile, misteriosa forza è dunque questa, che attira a te? Perché riecheggia e di continuo risuona all’orecchio, malinconica, come si diffonde in tutta l’ampiezza tua, da mare a mare, la tua canzone? Che c’è, in essa, in codesta canzone? Che cosa chiama così, e singhiozza, e afferra al cuore? Che suoni sono questi, che morbosamente si insinuano e penetrano nell’aria, e si attorcigliano attorno al mio cuore?».
Gogol guardava in quel vasto infinito, cercando la lingua russa, il culmine del suo amore per la Russia. Con meraviglia e ammirazione, vi coglieva parole che andavano dritte al segno: esse da un lato esprimevano con precisione fantastica e paradossale ogni cosa; e, dall’altro, erano piene di gradazioni, di variazioni e sottigliezze, e cambiavano ogni volta che una persona si rivolgeva alle altre, infinitamente diverse tra loro. Tutto era preciso, tutto era mobile, nell’oceano colorato della santa Russia.
Gogol scrisse Le anime morte viaggiando attraverso tutta l’Europa: Varsavia, Cracovia, Berlino, Bad Gastein, Vevey, Parigi, Marsiglia, Trieste, Venezia, Roma; come se solo la mobilità della carrozza e la rapida successione degli alberghi potesse ispirarlo. Anche Le anime morte è un viaggio. Alla caccia delle «anime morte», Cícikov non si ferma: percepiamo continuamente le strade che si snodano come serpenti benevoli, il passo dolcemente ondulato delle carrozze, gli improvvisi intralci, il cocchiere che frusta i cavalli riluttanti e discorre con loro, che gli rispondono nella loro lingua, e intona canzoni.
Per qualche ora la carrozza si ferma davanti a una casa: Cícikov la esplora, chiacchiera, seduce; e poi via, dove lo conduce il bisogno o l’umore. Ciò che importa è la velocità. «A quale russo non piace la velocità? Volete che proprio la sua anima, che aspira alla vertigine, all’abbandono, a dirsi tratto tratto: ‘Vada tutto all’inferno!’ proprio alla sua anima essa non piaccia? Non piaccia la velocità, in cui si fa sentire un che di esaltato e di meraviglioso? E’ come se una potenza ignota ti prendesse sull’ala con sé e tu voli e tutto vola… E un che di pauroso spira da questo rapido balenio, in cui non fa a tempo a delinearsi l’oggetto che precipita via: solo il cielo sopra la testa e le nubi leggere!».
Di colpo, il movimento vertiginoso delle cose si arresta. Niente più carrozze, né cavalli, né mondi balenanti. Gogol aguzza l’attenzione: guarda verso un oggetto minimo, perché contemplare con il microscopio un microorganismo invisibile non è meno mirabile che contemplare una stella col telescopio; ci vuole profondità e applicazione di spirito. Contempla, osserva, guarda, guarda, finché non riesce a far balzare in luce tutti i sottili, quasi impercettibili lineamenti di ogni cosa. Ecco ora, durante l’ardente solleone, un bianco, lucente pan di zucchero: gli aerei squadroni delle mosche entrano al volo dalle finestre, sicuri come padroni assoluti, e si spandono sui ghiotti bocconi. Volano dentro: non per mangiare, ma per far bella mostra di sé, per passeggiare avanti e indietro in quella massa zuccherina, per strofinare l’una con l’altra le gambette davanti e quelle di dietro, e per grattarsi le alucce. Per un momento il grande poema è dimenticato, la Russia è scomparsa, e l’universo è completamente occupato da questo primo piano, con le mosche che si grattano le ali.
Le mosche non scompaiono presto. Qualche pagina più avanti, ricompaiono: mentre la sera prima, dormivano tranquille sui muri e sul soffitto, ora hanno preso di mira Cícikov: una gli si posa sul labbro, l’altra su un’orecchia, una terza cerca di installarsi nell’occhio; una quarta ha avuto l’impudenza di posarsi vicino a una narice, e lui la inspira, dormendo, così che è costretto a dare uno starnuto fortissimo. Mentre guardiamo col nostro microscopio fantastico, ci convinciamo che le mosche sono completamente umanizzate, a patto che esistano veri e propri esseri umani nelle Anime morte .
Anche le cose sono umanizzate (o animalizzate). Quando un orologio suona, si avverte nella stanza uno strano sfruguglìo, come se tutta la stanza fosse piena di servi: l’ospite si spaventa; poi si tranquillizza perché intuisce che all’orologio è venuta voglia di battere. Subito allo sfruguglìo tiene dietro una specie di rantolo; e, infine, raccogliendo tutte le proprie forze, l’orologio batte le due, con uno strano suono, che assomiglia a quello di un servo che colpisce una cuccuma incrinata. Avremo torto a cogliere soltanto questo movimento. La metamorfosi si compie in tutte le direzioni: dagli animali e dalle cose agli esseri umani; e dagli esseri umani alle cose. Dove prima avevamo visto una graziosa giovinetta di sedici anni, ora vediamo un ovetto fresco, un ovetto di una diafana bianchezza, che resta sospeso controluce tra le mani robuste di una dispensiera.
Cosa fanno i cosiddetti uomini? Mangiano, con un appetito tale da divorare il mondo, loro stessi e il libro dal quale escono. «Prego, favorite un bocconcino, disse la padrona». Cícikov si riscosse e vide che sul tavolo c’erano funghi, pasticci, frittelle, focaccette di pasta frolla, con ripieni assortiti, ripieno di cipolline, ripieno di semi di papavero, ripieno di latte cagliato, ripieno di pesce. E se ci fermiamo nelle stazioni di posta, osserviamo che in una stazione i viaggiatori ordinano prosciutto, nella seguente porcellino da latte, nella terza un pezzo di storione o un salsicciotto fritto con cipolle, e poi, come niente fosse, si siedono di nuovo a tavola, a qualunque ora capiti, e le uova di tonno sfrigolano e gorgogliano fra i loro denti, alternate da bocconate di crostata di pesce o di timballo di code di siluro. Così l’appetito rampolla e si diffonde tra tutti quelli che stanno a osservare.
Quando finiscono di mangiare, i personaggi riempiono il bicchiere di vino, e si avvicinano a Cícikov, o a qualunque altro essere umano, e gli toccano il calice. «No, no, un’altra volta!», dicono i più focosi, e di nuovo si toccano i calici l’un l’altro.
Poi si spalanca la notte. Tutti dormono di un sonno profondo come il loro appetito e la loro sete: cadono addormentati nello stesso istante, e mandano un ronfamento di inaudita corposità, al quale chi occupa la stanza vicina dell’albergo risponde con un sottile sibilo nasale. Così gli abitanti delle Anime morte e della santa Russia dormono tutta la notte, di fianco, supini, e in ogni posizione possibile.
Questi corpi mangianti e dormienti non hanno il tempo necessario per pensare e ragionare; e, del resto, è probabile che non posseggano una mente. Essi sono divisi tra due possibilità. La prima è quella di fantasticare: pensieri vaghi, talora astratti talora corposi, che hanno quasi sempre come centro l’io, e le sue possibili avventure e ascese; oppure si slanciano in vertigini di tenerezza verso un altro, e pensano a come sarebbe bello vivere con l’amico sulla sponda di qualche fiume, poi in un enorme palazzo, in un belvedere talmente elevato, che di lassù si possa scorgere persino Mosca, e bere il tè all’aria aperta, finché l’imperatore, venendo a conoscere la loro meravigliosa amicizia, li promuova generali. La seconda è la fandonia, la menzogna con sé stessi e con gli altri: leggera, colorata, proprietaria di ali, mentre la realtà di ogni giorno è così infima, vischiosa e pesante.
Tutti parlano, con immenso piacere. Non seguono mai un filo; si correggono; fanno considerazioni di una vacuità tale da fondersi con le menzogne; si scambiano i sensi di una vera e finta tenerezza; insinuano nel discorso una quantità di parolette prive di significato, come «signor mio illustrissimo», «in certo qual modo», «nevvero», «non so se mi spiego», «potete figurarvi», «relativamente parlando», «sotto un certo rispetto»; queste parolette mirano a far precipitare il discorso nella verbosità pura, nell’assoluta assenza di senso. Ogni volta che una di queste parolette viene pronunciata e ondeggia nell’aria, Gogol gioisce: egli detesta i romanzi costruiti secondo le leggi della perfetta logica e geometria. Anche lui ammicca: complice dei suoi personaggi e dei suoi lettori, in modi diversi secondo i personaggi e i lettori. Siccome ignora come andrà a finire Le anime morte , fa congetture e ipotesi: ognuna delle quali contraddice l’altra; e imita con gioia infinita i suoi personaggi, abbandonandosi ad ogni possibile divagazione e variazione, visto che il centro del libro sta sempre fuori di esso.
Qualche volta si apre uno spiraglio, che dà non sappiamo dove, forse nel cielo. Appare una ragazza. «Sempre nella vita dovunque, almeno una volta, interviene sul cammino dell’uomo un’apparizione, dissimile da tutto quanto gli è accaduto di vedere finora; e, almeno una volta, desta in lui un sentimento, dissimile da tutto quello che egli è destinato a provare nel corso della vita». Subito dilegua e, in ogni caso, i personaggi non sono in condizione di afferrare e di far propria questa apparizione.
Oppure appare la Natura, la stessa natura di Rousseau, che alleggerisce le masse pesanti, taglia via la cruda regolarità e gli inesorabili buchi, dai quali si tradisce il malcelato progetto umano. Infine la Natura conferisce un meraviglioso tepore a tutte le cose pensate, immaginate e raccontate: nel cogliere questi tiepidi tocchi, Gogol possiede una sottigliezza e dolcezza meravigliose.
Spesso Cícikov, accompagnato da Gogol, si trova davanti a un luogo come questo. «Sulla scrivania, ornata di intarsi in madreperla che qua e là si erano staccati…, stava ammassata una quantità di roba di tutti i colori: un mucchio di carte scritte fitte fitte, e sopra un posacarte di marmo inverdito, sormontato da un uovo; non so che antico libro rilegato in cuoio, con il taglio cremisino; un limone tutto rinsecchito, ridotto non più grosso di una nocciola; un bracciolo di sedia rotta; un bicchiere con dentro un che di liquido e tre mosche, coperte da una lettera; un pezzetto di ceralacca, un pezzetto di straccio raccattato chissà dove, due penne impiastrate di inchiostro, consunte da una specie di tisi; uno spazzolino tutto ingiallito, con cui il padrone di casa si strofinava i denti prima che i francesi facessero la marcia su Mosca».
Forse, pensava Gogol, egli non poteva raccontare nient’altro che questo: un cafarnao, dove tutti gli oggetti, i personaggi, gli eventi, erano abbandonati in un angolo della scena, senza nessun tentativo di ordinarli e di sistemarli. Senza saperlo, Gogol voleva rappresentare il caos.
* * *
Quando, nelle prime righe delle Anime morte , Gogol ci parla di Cícikov, dice pochissimo di lui. Sappiamo cos’è la sua piccola «graziosa vettura a molle»; cosa dicono due muzík sulla porta di un’osteria; vediamo un giovanotto che si accosta alla locanda: com’è la locanda – e un venditore di bibite calde, col suo rosso samovàr di rame e il viso rosso come il samovàr; e così, via via, saremo informati di cose minime e insignificanti, che non appariranno mai più nel corso del poema. Di Cícikov ci viene detto soltanto: «un signore, che non era proprio un bell’uomo, ma non era neppure di brutto aspetto: non si poteva dire che fosse anziano, ma neppure, d’altronde, che fosse troppo giovane»; dunque un seguito di negazioni.
Quattro pagine dopo l’inizio, apprendiamo un fatto capitale: Cícikov «si soffiava il naso con eccezionale sonorità: non si sa bene come facesse, sta il fatto che il naso risuonava come una tromba». E poi via via, nel corso del romanzo, questo soffio sonoro si ripete, insieme a un sempre diverso sventolare di fazzoletti di batista. Ora, per Gogol, il naso non era una comune parte del corpo: ma la parte più eccezionale, straordinaria e stravagante; egli avrebbe voluto perdere il mento, o gli occhi o le orecchie ed essere solo un enorme Naso, con delle narici grandi come due orecchie, tanto da poter aspirare tutti i profumi possibili. Così Cícikov ebbe il privilegio che proprio a lui, sebbene fosse un uomo di nessuna apparenza, spettò il compito di esprimere l’invenzione centrale del libro.
Il romanzo si muove. Cícikov si fa portare l’occorrente per lavarsi, e straordinariamente a lungo, si stropiccia con il sapone tutte e due le gote, puntellandole dall’interno con la lingua; e poi si veste, con singolare attenzione, quale di solito non è dato vedere. Gira intorno gli sguardi, per rammentarsi della disposizione dei luoghi; legge un manifesto teatrale; entra in un’osteria; e domanda all’ostessa se lei stessa teneva l’osteria, o se c’era il padrone, e quanto rendeva l’osteria, e se con loro vivevano insieme anche i figli, e com’era il figlio maggiore, scapolo o ammogliato, e come l’aveva presa la moglie, con una bella dote o no, e così via, senza tralasciare nulla. Abbiamo l’impressione che lo scopo dell’esistenza di Cícikov sia quello di accumulare la maggior quantità possibile di cose viste e udite, così da farsene un tesoro personale.
Nei giorni successivi Cícikov conosce il governatore, il vice-governatore, il presidente del tribunale, il capo della polizia, l’appaltatore delle rivendite di liquidi, il direttore delle fabbriche statali e quasi tutti i principali possidenti del governatorato di N., che occupa un posto indeterminato della Russia. Gioca a carte; pranza dappertutto, con quell’appetito con cui la Russia mangia sé stessa; discorre di sé, con accenti stranamente abissali; parla con tutti, con cortesia, decoro, tenerezza, spirito di conciliazione, modi cattivanti; gioisce se fa un buon affare; e piace a tutti, funzionari e possidenti, uomini e donne. Via via che il libro si trasforma, anche lui si trasforma, diventando una specie di putto. Seguiamolo: «il nostro eroe rispondeva a questo e a quello, e sentiva non so che insolita leggerezza; si inchinava a destra e a sinistra, un pochino di fianco secondo la sua abitudine, ma con perfetta disinvoltura, tanto che tutti ne rimanevano affascinati… Mostrava sempre la testa in posizione di ossequio, un pochino di fianco. Nonostante la rotondità della persona, subito saltellò alquanto all’indietro, con la leggerezza di una palla di gomma… Si inclinava con discrezione quasi da militare, e saltellava indietro con una leggerezza da palla elastica».
Malgrado questa leggerezza confidenziale, Cícikov conserva in sé l’ignoto: una grande idea che né Gogol, né i personaggi, né i lettori del libro comprendono sino in fondo.
Quando va dai possidenti del governatorato, dopo aver parlato un poco del più e del meno, Cícikov fa sempre una richiesta: chiede di comprare le anime (i contadini) che siano morti negli ultimi anni, ma che risultino ancora vivi secondo il censimento statale. Lui avrebbe pagato le tasse sulle anime morte, e versato qualche rublo in più ai proprietari. La richiesta è strana. Tutti fanno domande: uno finisce per dire: «che razza di favole insomma, che razza di favole sono queste anime morte? Non c’è un fil di logica in queste anime morte: o perché mai comprar anime morte? Dove trovare uno sciocco simile? E che denaro della malora vorrà buttarci dentro? E a quale scopo, per quale affare si possono usare queste anime morte».
Cícikov non risponde volentieri: «le compro, dice, non perché ne abbia bisogno, come voi pensate, ma così… per un’inclinazione tutta mia… così, semplicemente, mi è venuta questa fantasia». Poi aggiunge che le anime morte gli erano necessarie per elevare la sua posizione sociale, perché non possedeva terreni importanti, e così, in attesa di tempi migliori, avrebbe avuto almeno queste animucce. Dice che lui desiderava ammogliarsi e che il padre e la madre della sua fidanzata volevano che egli possedesse non meno di trecento anime.
Infine, solo molto tardi, verso la conclusione della prima parte, Cícikov ci rivela le sue intenzioni.
«Se io comprassi tutti questi contadini che sono morti, mentre ancora non si sono redatte le nuove liste di censimento; ne acquistassi, poniamo, mille, le ipotecassi presso il Consiglio di Tutela, e il Consiglio di Tutela, poniamo, desse duecento rubli per anima, eccomi, subito subito, un capitale di duecentomila rubli! E ora è proprio il momento opportuno: poco fa c’è stata un’epidemia e di gente ne è morta, se Dio vuole, a bizzeffe. I possidenti hanno perduto il perdibile al gioco, hanno fatto baldorie e hanno scialacquato con tutti i sentimenti; mezzo mondo è scappato a Pietroburgo, a impiegarsi; i terreni sono abbandonati, mandati avanti alla carlona, le tasse si pagano di anno in anno più a stento: ben volentieri, dunque, chiunque me le cederà, se non altro per il fatto di non pagare per esse le tasse…
Soprattutto c’è questo di buono, che è una cosa che parrà a tutti inverosimile, nessuno ci crederà. È vero, senza terra non si può né comprare né ipotecare: ma vuol dire che io comprerò i contadini per trasportarli altrove; ora le terre, nei governatorati di Tauride e di Chersòn, si danno via gratis, non c’è che da portarci coloni».
Così i possidenti del governatorato di N., malgrado qualche dubbio e mormorio, vendono a Cícikov le loro «anime morte», ricevono in cambio qualche rublo e la certezza di non pagare le tasse su quei contadini.
Contadini, non contadine: non si sa perché, Cícikov non vuole assolutamente acquistare anime di donne. Gogol commenta. «Ed ecco che così mise radice nella mente del nostro eroe questa strana trovata, della quale non so se gli saranno grati i lettori, ma quanto grato gli sia l’autore, non è cosa facile a esprimersi, giacché, si dica un po’ quel che si vuole, se non fosse venuta in mente a Cícikov quell’idea non sarebbe venuto alla luce questo poema». Gogol esulta: con la sua strana esultanza, che ha sempre rapporti col vuoto e con l’informe; ma gonfia l’idea delle «anime morte» di un’ilarità e di un’eco che, felicemente, non si riesce a determinare con precisione.
* * *
Gogol pubblicò la prima, bellissima parte delle Anime morte il 21 maggio 1842: qualche giorno prima l’aveva annunciato durante una festa.
Negli altri dieci anni che gli toccò di vivere, non gli riuscì di finire il libro. Prima dei trentacinque anni la sua potenza creativa si era esaurita. Questa perdita ebbe molti aspetti: semplice debolezza (come nei capitoli della seconda parte che ci sono rimasti), tendenza a scrivere sermoni morali, trasformando il grande poema in una storia edificante. Gogol non faceva che lamentare malattie: malattie difficili da curare, perché erano al tempo stesso vaghe e variabili; crisi di malinconia depressiva che gli offuscavano la mente con presentimenti indicibili, e alle quali solo un brusco cambiamento di ambiente poteva dar sollievo, oppure brividi talmente forti che nessun sovraccarico di indumenti riusciva a scaldarlo.
Non gli restava che distruggere quello che aveva scritto: preda di un oscuro furore, come se il libro fosse colpevole del suo male e delle sue malattie.
Nel giugno-luglio 1845 ne bruciò una parte; nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1852, davanti al suo giovane domestico ucraino, gettò nel fuoco tutto quello che gli restava delle Anime morte . Il 13 entrò in una lunga agonia volontaria: rifiutò di nutrirsi, di curarsi, di parlare. Il 20 entrò in delirio. «La scala… presto la scala!».
Il 21 febbraio 1852, alle 8 del mattino, morì.