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«Hortus Eystettensis», meraviglioso padre di tutti gli erbari moderni

di Francesco Lamendola - 23/02/2014


 


 

Abbiamo già avuto modo di osservare il particolare interesse che la civiltà barocca ha riservato alla cultura delle piante, agli erbari, agli orti botanici, nella prospettiva della sua particolare sensibilità estetica e dei suoi specifici orientamenti intellettuali (cfr. l’articolo «Botanica e barocco: il caso di Giovan Battista Ferrari, gesuita», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 01/12/2011). Dobbiamo precisare ora che il fenomeno non riguardò soltanto l’Italia, ma anche i Paesi transalpini e particolarmente la Germania, l’Olanda e l’Inghilterra.

Un caso particolarissimo è rappresentato dalla pubblicazione, in Baviera, nel 1613, di un’opera editoriale mastodontica, il cosiddetto «Hortus Eystettensis», che si può considerare come il padre di tutti gli erbari moderni: un’opera nata dalla ardente passione botanica di due uomini, il principe-vescovo di Eichstätt e un farmacista di Norimberga; che richiese ben sedici anni di lavoro e che coinvolse una quantità di ricercatori, di studiosi, di giardinieri, di disegnatori, di incisori, di tipografi; che costò, infine, una enorme somma di denaro: ma che consegnò all’Europa un testo fondamentale, una pietra miliare nel cammino della botanica verso lo statuto di scienza rinnovata e completa.

Niente a che vedere con gli erbari medievali, concepiti soprattutto in funzione delle piante medicinali e delle loro virtù terapeutiche: lo scopo dell’erbario tedesco, l’«Hortus Eystettensis», era essenzialmente di carattere scientifico, descrittivo e sistematico: fornire una panoramica esaustiva, per quanto possibile, di tutte le piante presenti nell’orto botanico di Eichstätt, comprese le numerose specie provenienti da altre regioni d’Europa e perfino extra-europee, ciascuna fedelmente riprodotta mediante splendide illustrazioni dipinte a mano, ad acquerello, e poi incise su rame per la stampa, raffiguranti il loro aspetto nel corso delle diverse stagioni; e ciascuna corredata da una descrizione scientifica, condotta secondo criteri quanto mai rigorosi (e questo oltre un secolo che Carlo Linneo, nel 1735, mettesse a punto il suo celebre modello di classificazione degli esseri viventi secondo la nomenclatura binomiale).

L’erbario più antico di cui possediamo il manoscritto è quello di Dioscoride, un medico greco vissuto nel I secolo avanti Cristo, che venne a Roma e vi pubblicò il «De materia medica»; la copia pervenutaci è stata redatta nel 515 come dono per la nobile Anicia Giuliana, figlia di Anicio Olibrio, - che nel 472 era stato, anche se per soli quattro mesi, imperatore romano di Occidente - quale ringraziamento per l’edificazione di una chiesa dedicata al culto mariano. Opera di straordinaria bellezza (oggi conservata a Vienna), ricopiata in numerosi esemplari, non solo in latino, ma anche in greco e in arabo, per secoli e secoli, essa rappresenta il capostipite degli erbari medievali; che però, come detto, erano incentrati sulle virtù curative delle piante e non ambivano a rappresentare e descrivere tutte le piante, comprese quelle di nessun valore dal punto di vista medicinale.

Così riassume la complessa vicenda redazionale dell’«Hortus Eystettensis» la scrittrice e giornalista Ivana Malabarba (sulla rivista «Gardenia», Milano,  n. 247, novembre 2004, pp. 22-24):

 

«Eichstätt è una meravigliosa cittadina universitaria nel cuore della Baviera. Adagiata sulle rive del fiume Altmühl e dominata dalla fortezza del Willibaldsburg, riserva molte piacevoli sorprese ai visitatori, non ultime alcune splendide chiese e numerosi edifici barocchi di notevole eleganza. Il suo nome però resta indissolubilmente legato a una straordinaria impresa editoriale, passata alla storia con il none di “Hortus Eystettensis”, il più grande florilegio conosciuto, pubblicato nel 1613.  Protagonisti dell’impresa sono il principe-vescovo della città e un farmacista di Norimberga, Basil Besler, entrambi appassionati di piante e fiori.

Quando assume la carica di principe-vescovo di Eichstätt, nel 1595, Johann Konrad von Gemmingen ha 34 anni. È un collezionista raffinato e molto ricco, che ha viaggiato in Europa e ammira l’arte italiana. Insediatosi al Willisbaldsburg, decide di modificare il preesistente edificio, che risale al XIV secolo, trasformandolo in uno splendido “palazzo d’estate” tardo-rinascimentale, Chiama maestranze italiane (si parla di circa 200 operai) a lavorare al castello, convoca Joachim Camerarius il Giovane (1534-1598), medico ufficiale della città di Norimberga e botanico, figura di spicco nella comunità scientifica dell’epoca, per affidargli il progetto di rinnovamento del giardino: vuole che diventi il più bello a nord delle Alpi. Non è tanto motivato dall’interesse medicinale o alimentare delle piante quanto dal piacere che gli deriva dall’ammirare specie rare o sconosciute provenienti dai Paesi più lontani.

Philipp Hainofer, un giovane aristocratico e mercante d’arte di Augusta che ebbe modo di visitare la residenza nel 1611, lasciò la vivida descrizione di un luogo di delizie costituito da otto giardini “tutti sistemati in modo differente con aiuole e fiori, specialmente rose, gigli, tulipani bellissimi […] alcuni dei quali arricchiti da stanze dipinte e padiglioni”. Forse è lo stesso Camerarius, che a Norimberga ha istituito un orto botanico ormai famoso e incaricato alcuni artisti di ritrarne le piante, a suggerire a Gemmingen di immortalare i suoi giardini in un’opera che li tramandi alla posterità. Ma Camerarius muore nel 1598 e il principe-vescovo è costretto a passare ad altri l’incarico. La scelta cade su Basil Besler (1561-1629), che combina conoscenze botaniche – e buone relazioni con i botanici dell’epoca, come Clusio – con fine senso artistico e grandi capacità organizzative. Un impresario che non si risparmia di fronte alle difficoltà. Oltre a occuparsi dei giardini procurandosi piante da appassionati orticultori e dai commercianti di molte città dei Paesi Bassi, si dedica con entusiasmo alla realizzazione dell’”Hortus Eystettensis”.

In un’epoca di mezzi elettronici come la nostra, è difficile, senza molta immaginazione, cogliere l’audacia e la nobiltà dell’impresa. Un’impresa che durò anni, a partire dal 1606. Si trattava di ritrarre tutte le piante acquisite e coltivate nei giardini del principe-vescovo nelle differenti epoche della fioritura, di tradurre gli acquerelli in incisioni su rame (la grande novità del Seicento), di portare le incisioni alla stampa. Di stendere testi descrittivi a commento e di stamparli, di rilegare i fogli stampati in volume. Occorrevano artisti, incisori, redattori scientifici, stampatori, e anche coloritori, perché, oltre a una edizioni commerciale, dove il recto di una pagina era occupato da una illustrazione in bianco e nero e il verso da un testo di commento, era prevista una costosissima edizione “de luxe” dove le immagini colorate a mano erano stampate su un foglio il cui retro era bianco. Besler raccolse la sfida. A Norimberga e ad Augusta trovò illustratori, incisori, stampatori, coloritori, e mentre emissari del principe-vescovo raggiungevano tutte le settimane la città “portando una o due ceste di fiori da copiare”, lui dal canto suo provvedeva a coltivare le stesse specie nel suo giardino per avere esemplari più freschi da far ritrarre.

Il risultato è impressionante. Un’opera in tre volumi di complessive 584 pagine, di cui 373 sono tavole di grandi dimensioni (57x46 cm). Occorreva una carriola per trasportare un volume, come ebbe a commentare argutamente lo studioso inglese Arthur Harry Church. Il primo volume (tav. 1-134) è dedicato alla primavera, il secondo (tav. 135-261) all’estate, il terzo (262-367) alla tarda estate, all’autunno e all’inverno. Vi sono rappresentate 1.084 piante coltivate nei giardini del principe: più della metà erano allora già naturalizzate in Germania, un terzo proveniva dalla regione mediterranea, circa il 10 per cento dell’Asia, soprattutto dal Medio Oriente e dall’India, e almeno cinque dalle Americhe e pochissimo  dall’Africa. Ogni pagina è concepita come un0opera d’arte: le piante, più di una per pagina, sono rappresentate a grandezza naturale nello splendore della fioritura; piccole piante spontanee vengono messe a contorno, “come servi o lacchè”, per riempire gli spazi. Grande importanza viene data all’uso del colore, così che le piante più piccole inserite nelle tavole si intonano sempre a quelle più grandi.

Konrad von Gemmingen, che con tanto impeto ed entusiasmo aveva avviato e sostenuto l’opera di Besler, non visse a lungo per coronare il suo sogno: vedere il volume pubblicato. Morì il 7 novembre 1612. Toccò a Besler portare a termine l’opera. Il 23 agosto 1613 il farmacista di Norimberga dedicava un’edizione senza testo al successore del principe-vescovo. L’”Hortus Eystettensis” iniziava il suo viaggio nella storia.»

 

Sfogliare le pagine e ammirare le tavole illustrate di questo straordinario erbario seicentesco, composto mentre la Germania era in un momento di grande fioritura culturale e prima che si scatenasse la disastrosa Guerra dei Trent’Anni, che l’avrebbe immiserita e riportata indietro di decenni, rappresenta una emozione dal sapore speciale: è come immergersi nella verde e trasognata atmosfera di un grande vivaio e passeggiare lungamente sotto le volte delle serre e lungo le file ordinate e simmetriche di piante in vaso. La sensazione è ancor più rafforzata dalle dimensioni straordinarie delle tavole e dal fatto che moltissime specie di fiori, piante e verdure sono riprodotte a grandezza pressoché naturale

L’eleganza delle illustrazioni, ma anche la loro precisione e accuratezza, la cura con cui sono stati accostati i colori delle diverse specie, in modo da formare un insieme armonioso e sempre gradevole alla vista, evitando stacchi bruschi di colore, ci ricorda che siamo in presenza di un’opera pensata e realizzata anche per il piacere dello sguardo, oltre che per fornire al lettore le informazioni più dettagliate e precise circa le diverse specie vegetali; un’opera, inoltre, che nasce da un’esperienza viva e non da uno studio freddo e distaccato: cioè dalla messa a dimora, nel giardino botanico del principe-vescovo, di decine e centinaia di fiori e piante, sapientemente selezionati e amorevolmente curati da personale esperto, sotto la supervisione attenta e competente di autentici esperti in materia.

L’edizione in bianco e nero costava trentacinque fiorini; quella di lusso, con le tavole ridipinte a mano, costava la cifra astronomica di cinquecento fiorini: abbastanza per consentire a Besler di acquistare una casa in un quartiere elegante di Norimberga e di godersi il meritato riposo dopo gli strapazzi del lavoro redazionale. La casa, fra parentesi, gli era costata quanto cinque sole copie dell’edizione di lusso del suo erbario, ovvero duemilacinquecento fiorini. Raramente si era vista una impresa editoriale condotta con maggiore tenacia, con minore riguardo alle spese, e con una più ricca partecipazione di studiosi ed esperti. Fra gli artisti che vi collaborarono meritano di essere ricordati il pittore Sebastian Schedel e l’incisore Wolfgang Kilian (prima della morte del vescovo Gemmingen), in seguito gli incisori Johannes Leypold, Georg Gärtner, Levin e Friedrich van Hulsen, Peter Isselbug, Heinrich Ulrich, Dominicus Custos e Servatius Raeven.

È un libro che lascia sbalorditi, attoniti, ammirati, specie se si riflette alla mole immensa di lavoro che fu necessaria per realizzarlo e a quanta profusione di entusiasmo, intelligenza e coraggio esso richiese ai suoi ideatori e finanziatori. Riflessione che si tinge di malinconia, oggi, nell’era dei libri elettronici, quando basta un telefonino cellulare per fotografare qualunque oggetto, dunque anche le piante di un orto botanico, e trasmetterne le immagini a qualunque destinatario, in qualunque parte del mondo, in tempo reale. Ai tempi del buon principe-vescovo, invece, come abbiamo visto, era necessaria una carretta per portare in giro gli enormi, pesantissimi volumi della edizione di lusso, dipinta a mano; e ci voleva un braccio assai muscoloso per riuscire a distenderli sul leggio o sopra un tavolo da lavoro.

Eppure, considerazioni democratiche a parte, crediamo che la scienza botanica divulgativa non abbia realizzato chissà quali progressi e che il fatto di disporre, oggi, di strumenti di diffusione tanto più economici e di pronto uso, come gli atlanti botanici fotografici, non abbia segnato chissà quali passi avanti nella diffusione delle conoscenze o nella loro precisione. Sono passati esattamente quattro secoli (nel 2013 ricorre, infatti, il quattrocentesimo anniversario della pubblicazione dell’«Hortus Eystettensis»), ma le splendide tavole incise e dipinte dell’erbario tedesco possono ben reggere il confronto con le migliori riproduzioni fotografiche. I sostenitori degli atlanti illustrati mediante disegni e quelli degli atlanti che utilizzano le fotografie a colori potranno discutere e litigare tra loro all’infinito; rimane il fatto che il disegno, se ben fatto, non sacrifica nulla alla dimensione scientifica e offre l’indiscutibile vantaggio di isolare meglio l’immagine e di evidenziare in maniera più efficace e didattica le caratteristiche specifiche della pianta o del fiore.