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Contro l’etichetta single

di Michele Orsini - 09/03/2014


 

Bisogna rifiutarsi di parlare inglese e continuare a parlare la propria lingua nazionale, per evitare appunto di essere in un rapporto di subordinazione rispetto a chi inglese ce l’ha come madrelingua.

Diego Fusaro

 

 

L’anno scorso la rivista Eurasia ha dedicato il suo terzo numero alla “geopolitica delle lingue”, la particolare branca della geopolitica che studia il ruolo del fattore linguistico nel rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio politico, ovvero del nesso tra egemonia linguistica ed egemonia politico-militare[1].

In uno dei tre contributi dedicati specificatamente alla lingua italiana, Giovanni Armilotta denuncia la diffusa tendenza all’abbandono della nostra lingua «a favore di un inglese dozzinale, sgrammaticato e idiomatico, da parte di gente che non sa esprimersi in quest’ultimo idioma»[2].

Difatti la lingua inglese che ci viene imposta, come sottolinea Diego Fusaro, «non è però quello di Shakespeare e di Wilde, bensì quello operazionale e della finanza, l’inglese dell’economista», la cui egemonia è quindi parte integrante della cosiddetta globalizzazione, termine che egli definisce «il nome pudico dell’invasione del mondo da parte della forma-merce»[3]. Non si dovrebbe nemmeno parlare di inglese, ma più precisamente di statunitense[4], del resto la globalizzazione e l’imperialismo a stelle e strisce sono due fenomeni che vanno insieme[5].

Oramai in molti si sono accorti del fatto che bisogna essere diffidenti verso i discorsi infarciti di anglicismi economici quali spread, austerity e fiscal compact, poiché potrebbero nascondere delle solenni fregature. L’uso di barbarismi nell’italiano corrente non si ferma però ai soli termini economici, né tanto meno ai termini tecnico-scientifici in generale. Da un punto di vista propagandistico le parole più impattanti sono forse quelle di uso comune, spesso utilizzate da un gran numero di persone, insomma quelle che riguardano gli argomenti che suscitano l’interesse dei più ampi strati della popolazione. E’ nostra impressione che qualcuno possa rammaricarsi o addirittura indignarsi di fronte all’istituzione di un Ministero del Lavoro e del welfare, ma che l’uso di Champions League al posto di Coppa dei Campioni[6] sia ancora più preoccupante a causa della sua maggiore diffusione. Vogliamo qui soffermare l’attenzione su un altro termine di uso comune tutt’altro che innocente, cioè single.

È interessante notare che le parole italiane che indicano gli individui in nessun modo impegnati in una relazione sentimentale differiscono per gli uomini e le donne, ciò denuncia una certa dose di maschilismo insito nella nostra cultura: infatti il termine scapolo che deriva da scapolare, fuggire i legami, fa pensare all’uomo libero da soggezione, mentre zitella deriva dal germanico Zitze, ovvero “mammella”, ma in senso figurato “lattante”, cioè riferito a donna immatura, bambinesca[7].

Insomma la parola scapolo ha una connotazione positiva (gli scapoli, si sa, sono quasi sempre d’oro…), la parola zitella una negativa: in qualche modo lo scapolo è più di un uomo che vive una relazione, mentre la zitella è qualcosa meno di una donna impegnata. L’anglicismo single sembra occupare allora un campo semantico prossimo a quello appartenente alla parola scapolo, che oramai non si usa quasi più e si può ritenere sia stata piuttosto sostituita che non tradotta. La parola zitella invece resiste, anche se la si usa con meno frequenza, d’altra parte le si è affiancata la forma maschile zitello, entrambe con una connotazione forse ancor più chiaramente peggiorativa che in precedenza. In pratica nel linguaggio corrente si tendono a definire single gli individui liberi da legami sentimentali ma sessualmente attivi, zitello o zitella colui o colei che sono astinenti e quindi sono out.

L’attività sessuale del single va esibita, poiché fonte di prestigio come il gossip (termine neutro che sostituisce lo spregiativo pettegolezzo) che ne consegue, ed è possibilmente libera da implicazioni sentimentali, le quali sono piuttosto considerate come degli incidenti di percorso: si tratta insomma di esperienze di consumo, del tipo che secondo Erich Fromm serve all’uomo trasformatosi in Homo consumans per sfuggire «al suo vuoto interiore, alla sua passività, solitudine e ansietà», per questo egli «consuma sigarette, liquori, sesso, pellicole cinematografiche, viaggi, e lo stesso fa con istruzione, libri, conferenze, arte»[8].

La strategia pubblicitaria è quella di presentare il consumatore come il vincente ed il single non è nient’altro che una variante del consumatore. I zitelli e le zitelle sono invece simili agli individui “con le tasche vuote” di cui parla Zygmunt Bauman, che pieni di rabbia e di autodisprezzo guardano invidiosamente i compratori attraverso le vetrine, non comprendendo che la vita del consumatore è plasmata sul modello del negozio di dolciumi e come tale comporta anche attacchi di nausea e dolori di stomaco[9].

Il rifiuto dell’etichetta single configura un atto di resistenza all’imperialismo culturale, quello della più estensiva classificazione consumatore costituisce un segno di rispetto verso se stessi, un riconoscersi come qualcosa di più di quello che la pubblicità vuole farci credere di essere.

Allora è molto meglio definirsi zitello o zitella, parole che danno sì il senso di una minorità ma proprio per questo motivo alludono anche ad uno stato ideale cui tendere, che non è più per forza il matrimonio, ma una soddisfacente relazione sentimentale monogama, ovvero quello che la stragrande maggioranza delle persone continua a desiderare, anche se spesso senza ammetterlo.

Anche a livello collettivo la diffusione di relazioni monogame è desiderabile: si usa dire che la famiglia è la cellula della comunità, ma non bisogna dimenticare che la coppia è la base della famiglia.

La scienza non riesce a trovare una teoria convincente sulla genesi della monogamia perché non prende in considerazione l’ipotesi della sua origine in ambito religioso, mentre è stato affermato che «un popolo nel quale le pratiche nuziali erano ritualizzate e sempre conformi alle leggi eterne costituiva una grande catena magica legante la sfera materiale con le sfere superiori»[10]. Detto ciò, la sessualità monogamica non è da considerarsi qualcosa di naturale, ma è solo una delle condizioni necessarie[11] per una via erotica al sovrannaturale. Un’altra delle condizioni, per inciso, è che la coppia sia formata da un uomo e una donna, da qui il rifiuto delle religioni per l’omosessualità: si tratta perciò di motivazioni di ordine spirituale operativo, cosicché ogni moralismo risulta del tutto privo di senso.

Anche in campo profano la vita di coppia è desiderabile se non altro perché rende possibile una crescita psicologica degli individui che la compongono. L’innamoramento per Carl Gustav Jung facilita l’integrazione della parte psichica femminile nell’uomo (Anima) e della parte psichica maschile della donna (Animus): pur capitando almeno una volta nella vita quasi a tutti, un simile vissuto può essere definito «una pura e innegabile esperienza del divino»[12]. Sarà forse per questo che addirittura in una recentissima guida al poliamore le autrici affermano, bontà loro, di considerare anche la monogamia come un’opzione da prendere in considerazione[13].

La scelta d’un oggetto d’amore esclusivo può tuttavia risultare molto difficile per chi si lasci influenzare dalla cultura utilitaristica dominante, sviluppando quella che Claudio Risè definisce una sindrome della valutazione qualità/prezzo che lo porti a chiedersi sempre “Non starò per caso prendendomi una bidonata, quando magari, cercando bene, posso trovare molto meglio?”. Invece ha più possibilità chi pensa: “Mi attrae. Mi è simpatico/a. Tutto questo basta e avanza. Cominciamo finalmente la cerimonia dei doni”[14], senza indietreggiare di fronte al fatto che il dono, sia dato che ricevuto, fonda una nuova comunità, impegna[15].

 

 

 



[1] Claudio Mutti, Geopolitica delle lingue, in “Eurasia Rivista di studi geopolitici”, n° 3/2013, p. 5

[2] Giovanni Armilotta, Breve storia recente dell’idioma di Dante, in “Eurasia Rivista di studi geopolitici”, n° 3/2013, p. 217

[3] Diego Fusaro, Contro la dittatura della lingua inglese, http://www.youtube.com/watch?v=07zf8_aFgO0

[4] Giovanni Armilotta, op. cit., p. 218

[5] Gabriele Répaci, Intervista ad Alain de Benoist, http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkpuEkylpFilaHBHqp.shtml

[6] Guido Ceronetti, RadioManifestazione La Resistenza alla dittatura linguistica inglese, http://www.youtube.com/watch?v=cVU1Rn0sWJc

[8] Erich Fromm, Umanesimo socialista, Dedalo Libri, Bari 1971, p. 263

[9] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 29

[10] Pascal B. Randolph, Magia sexualis. Forme e riti, Edizioni Mediterranee, Roma 1977, p. 32

[11] Ivi, p. 71

[12] Carl Gustav Jung, Il matrimonio come relazione psicologica, in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna. Einaudi, Torino 1964, p. 194

[13] Dossie Easton, Janet Hardy, La zoccola etica. Guida al poliamore, alle relazioni aperte e altre avventure, Odoya, Bologna 2014, p. 260

[14] Claudio Risè, Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro, Sperling & Kupfer, Milano 2004, p. 60-61

[15] Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della Comunità, Einaudi, Torno 1998, p. XIII