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Una visione controcorrente di un'epoca di paradossi culturali

di Costanzo Preve - 26/03/2014

Fonte: centroitalicum


 

1. II problema

Il lettore che mi ha seguito con attenzione fino a questo punto dovrebbe ormai essere preparato a prendere in considerazione critica punti di vista assolutamente estranei alla tradizione storiografica consolidata. Del resto, è questo lo scopo di un saggio filosofico. Infatti, se ci si limitasse a riproporre interpretazioni abituali al lettore conformista, pio e rispettoso dell'impersonalità maggioritaria (il Man heideggeriano), che senso avrebbe impoverire la natura tagliando gli alberi per fare carta su cui stampare dei saggi? Come il cacciatore primitivo che uccide la preda per nutrirsene, ma poi si scusa per averla uccisa, nello stesso modo credo che sia necessario scusarsi con gli alberi da carta, ed il solo modo per scusarsi veramente sia quello di scrivere cose nuove e stimolanti.

Devo ammettere che nei primi due capitoli mi sono limitato a riproporre cose certamente interessanti, ma non dei tutto nuove. È infatti largamente noto che la razionalità filosofica degli antichi greci consisteva nel mettere in mezzo (en meson) la ragione (logos) per sottoporla al dialogo. È altresì noto che la costituzione filosofica maggioritaria nella società capitalistica ha dato luogo ad una vittoria del modello utilitaristico sui due precedenti modelli tradizionale e contrattualistico. Tuttavia, come già scrisse Hegel, il noto, in quanto noto, non per questo è conosciuto, cioè razionalmente assimilato nella coscienza critica. Ed è per questo che i primi due capitoli restano imprescindibili per la costruzione (sempre provvisoria, revocabile e sottoponibile a radicali modificazioni) di una filosofia del presente.

Il terzo capitolo, il lettore se ne è certamente accorto, è invece assolutamente insopportabile per il lettore pio e politicamente corretto. In esso si da un'interpretazione di Marx che, se fosse conosciuta, mi farebbe inseguire con bastoni da militanti identitari ed abituati da più di un secolo ad una vulgata di tipo religioso. Si sostiene infatti che il vero e proprio "materialismo" in Marx è praticamente introvabile, che lo statuto implicito della filosofia di Marx è una forma di idealismo naturalistico, e che la vera "forza" di Marx sta proprio dove i marxisti ci vedono una debolezza incurabile, e cioè l'unità dialettica fra una teoria economica del valore ed una teoria filosofica dell'alienazione. Si sostiene inoltre che per quasi cento anni il marxismo maggioritario è stato l'erede di un pensiero tradizionalista addirittura precritico, in quanto il materialismo dialettico ha imperfettamente secolarizzato, unità fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, ed il materialismo storico ha imperfettamente secolarizzato l'ideologia messianica della fine della storia in un punto spazio-temporale di pienezza finale e salvifica.

C'è di che essere fatti passare per matti (spero innocui) dalla consorteria politicamente corretta dei critici accademici Doc. Poco male. Da tempo ritengo che il principio filosofico fondamentale per la comprensione della storia sia "il tempo è galantuomo".  Tuttavia le innovazioni dei tre capitoli precedenti non sono nulla rispetto a quelle che aspettano il lettore in questo quarto capitolo. Non alludo soltanto alle proposte interpretative controcorrente di personaggi come Bobbio, Nietzsche, Heidegger ed Alain de Benoist. Alludo ad un generale e complessivo "invito allo spaesamento" che farò in tutto il capitolo.

2. Un invito allo spaesamento

Che significa invito allo spaesamento? Significa invito a non fidarsi più delle coordinate abituali che ci hanno permesso di muoverci nel vecchio "paese della cultura novecentesca". Questo paese è stato in gran parte distrutto da un terremoto sociale che gli studiosi francesi Boltanski e Chiapello hanno provvisoriamente definito "La terza età del capitalismo". Questa terza età del capitalismo non è più come la prima e la seconda. Al'interno della cosiddetta "cultura di sinistra" la maggior parte dei militanti, elettori e simpatizzanti è ancora ferma alla prima età, mentre la maggior parte degli intellettuali e dei teorici sono fermi alla seconda. Nel quinto ed ultimo capitolo, dedicato alla vera e propria "filosofia del presente", tornerò su questo nodo di problemi. Per ora, invece, mi limito a reiterare un sincero invito a considerare lo spaesamento come l'approccio migliore e più fecondo ai paradossi della situazione attuale. La mia lettura "paradossale" di Bobbio, Nietzsche, Heidegger e de Benoist è rivolta ad abituare progressivamente il lettore allo spaesamento.

Viviamo fra i paradossi. Eppure, per dirla con Shakespeare, c'è una logica in questa follia. Con un po' di pazienza e di coraggio intellettuale questa logica può essere almeno in parte ritrovata. Il coraggio conta ancora di più della pazienza e del bagaglio intellettuale di cui disponiamo.

3. Perché la cultura di destra non ha mai prodotto un Karl Marx?

Partiamo da questa domanda un po' surreale: perché in duecento anni la cosiddetta "cultura di destra" non ha mai prodotto un Karl Marx, cioè un pensatore complessivo in grado di conquistarsi di fatto un "primato" sugli altri, diventando cioè, come direbbe Orwell, "più eguale degli altri"?

La domanda non è affatto peregrina come sembra. Non è un gioco di società per turisti annoiati, ma è un buon modo per inquadrare i termini teorici preliminari del problema. Ovviamente, devo fornire al lettore la mia personale definizione di "cultura di destra". In prima approssimazione, definisco "cultura di destra" il tentativo bisecolare di produrre una critica complessiva del nuovo modello utilitaristico dal punto di vista del proseguimento nelle nuove condizioni storiche del vecchio modello tradizionale.

Se ci fosse qui lo spazio sufficiente, mi soffermerei a lungo sull'inglese Burke e sul savoiardo De Maistre. In entrambi c'è un livello visibile della critica, e cioè la demolizione delle pretese del contrattualismo rivoluzionario francese di poter "rifondare" la convivenza sociale con un nuovo patto necessariamente astratto, ma c'è anche un livello sottostante, che a mio avviso è il più interessante, che critica anche i presupposti utilitaristici potenzialmente ben più distruttivi della tradizione. La cultura di destra nasce allora proprio, se i termini filosofici hanno ancora un senso, dal doppio rifiuto del contrattualismo rivoluzionario livellatore e dell'utilitarismo economico individualistico. A questi due modelli si oppone ovviamente il richiamo alla Tradizione.

 C'è però un piccolo problema. La "tradizione", infatti, non esiste ed è sempre una costruzione sociale arbitraria, in cui si decide convenzionalmente da quale momento temporale deve essere fatta iniziare la storia. La tradizione, infatti, se si vuole utilizzare un concetto hegeliano, è un "cattivo infinito", perché è possibile andare sempre più indietro senza fermarsi mai fino ad una origine largamente mitica che precede ogni memoria scritta. Ogni interruzione artificiale del tempo storico del passato, decisa per farvi iniziare la"tradizione" che ci interessa, porta all'arbitrio più assoluto. La tradizione signorile? La tradizione medioevale? La tradizione romana imperiale? La tradizione greca? La tradizione pregreca così come la ricostruì a suo tempo il volonteroso Nietzsche? La tradizione indoeuropea? La tradizione mesopotamica e sumerica? E via retrocedendo senza poter seriamente fermarsi mai.

Questa contraddizione logica e storica sta alla base, almeno a mio parere, del fatto che la cultura di destra non ha avuto mai un Karl Marx che potesse "unificare simbolicamente", il suo punto di vista. Il modello utilitaristico, infatti, non è che la proiezione ideologica necessaria dell'avvento del modo di produzione capitalistico. Sarebbe stato allora necessario impadronirsi di questo concetto (e del sistema di concetti satellitari che ci girano intorno) senza farsi distrarre dalle "ricadute" economiciste e storiciste con cui tutta la tradizione politica di "sinistra" aveva sfigurato questi concetti illuminati. Ma si volle buttare via il bambino della critica dell'economia politica con l'acqua sporca dell'economicismo (primato dello sviluppo delle forze produttive), dello storicismo (secolarizzazione di una vecchia concezione teleologica e necessitaristica della storia), del politicismo (presenza ossessiva di un partito politico monopolistico e totalitario che pretendeva conoscere il vero "senso della storia"), ed infine del sociologismo (attribuzione alla classe operaia di fabbrica deificata del potere demiurgico di palingenesi sociale definitiva).

Sarebbe stato astrattamente possibile un unico Karl Marx della cultura di destra? Io non 1o credo. E non lo credo perché il punto di vista della critica all'utilitarismo in nome del modello tradizionale è per sua natura arbitrario e non organizzabile in un sistema teorico coerente, appunto perché la data d'inizio della cosiddetta "tradizione" è sempre arbitraria. Si ha così di fatto una sorta di "grande magazzino" di punti di vista, gran parte dei quali anche intelligenti e pertinenti, dalla critica alla decadenza di Nietzsche alla critica all'usura di Pound, eccetera, che non riescono però ad elevarsi ad un sistema teorico coerente. Ed allora un Karl Marx di destra, unificatore geniale della critica tradizionale all'utilitarismo, diventa impossibile.

Naturalmente c'è anche da rilevare un fatto che sta sotto gli occhi di tutti, e cioè l'approdo della destra politica stessa, o almeno dei suoi esponenti elettoralmente consacrati dal voto popolare, a delle forme estreme di utilitarismo, cioè di adesione integrale allo spirito del capitalismo. L'esempio del partito italiano di Alleanza Nazionale è sotto gli occhi di tutti, ma si tratta solo di un episodio provinciale di un fenomeno mondiale, da Bush negli Stati Uniti d'America a Koizumi nel moderno Giappone. L'approdo delle odierne sinistre e delle odierne destre elettorali alla santificazione del primato dell'economia e del monoteismo dei mercati finanziari è un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti e che è ormai solo negato dai fanatici identitari cui gli eccessivi girotondi hanno fatto venire il male di testa.

3. Friedrich Nietzsche, il filosofo inconsapevole della democrazia radicale post-moderna

Nietzsche è il vero ed inimitabile filosofo inconsapevole della democrazia radicale post-moderna. Questa affermazione suona paradossale ed un po' provocatoria, ma basterà ragionare senza pregiudizi (d'altro canto, questo intero saggio, e non solo questo paragrafo, deve essere letto senza pregiudizi e con l'animo di chi guarda panorami mai ancora ammirati) per capire che si tratta di un' affermazione sensata e meditata.

Quando ero un giovane liceale alla fine degli anni Cinquanta giravo con in tasca il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, ovviamente dalla parte della copertina, in modo che si potesse vedere che ero un giovane rivoluzionario anti-borghese potenzialmente pronto a tutto. Ricordo un mio compagno di scuola di "destra" che invece girava con in tasca Così parlò Zarathustra, per mostrare che lui non aveva nulla a che fare con noi, plebaglia invidiosa, rancorosa e pezzente. Che poi entrambi ci capissimo qualcosa o che in questo modo facessimo più colpo sulle ragazze di chi si limitava a giornali sportivi o a riviste automobilistiche dell'Italia in pieno miracolo economico lo lascio all'oblio della storia o alla pietosa comprensione dei lettori. Sta di fatto che questa "scena primaria" dell'Italia in simulata guerra civile permanente è durata a lungo. Quando Marco Tarchi decise di passare dal ruolo di piccolo politicante di partito a quello di pensatore metapolitico e fondò "Diorama Letterario" (rivista cui comunque mi onoro di collaborare) scelse come logo di una nuova cultura di destra il faccione baffuto di Nietzsche; Insomma, Marx, a "sinistra" e Nietzsche a "destra". Signori cavalieri, che il torneo cominci.

La storia, tuttavia, è il teatro dei paradossi, non delle apparenti ovvietà. Ho già fatto notare nel capitolo precedente che la vulgata teorica del marxismo, ritenuta il massimo dell'innovazione, riproduceva in realtà sotto un linguaggio ingannatore dialettico-positivistico i due "giacimenti geologici" più tradizionali del pensiero europeo, l'unità del complesso macrocosmo-microcosmo (materialismo dialettico) e la garanzia salvifica della storia (materialismo storico). Qualcosa del genere, anche se ovviamente invertito, vale anche per Nietzsche. Nei panni del pensatore più "aristocratico" di tutti i tempi si nascondeva l'inconsapevole teorico della democrazia più radicale mai esistita (in senso tocquevilliano, ovviamente, non greco-antico o russoviano).

Eppure, il fatto che Nietzsche sia stato considerato di "destra" ed aristocratico per quasi un secolo non può essersi basato solo su di un equivoco. Infatti, non ci fu nessun equivoco. Ci fu solo un mutamento radicale di fase storica. Nei primi decenni del successo di Nietzsche erano presenti due elementi oggi in buona parte tramontati. In primo luogo, esisteva ancora una differenza di principio fra borghesia (conservatrice) e capitalismo (innovatore), per cui vi era ancora uno spazio filosofico molto vasto per criticare le forme di falsa coscienza borghese, cosa che Nietzsche fa con impareggiabile maestria. In secondo luogo, nel contesto di una fioritura delle teorie elitistiche e dell'aperto richiamo ad accettare la sfida del socialismo rispondendo per le rime (ed anzi alzando la posta) ai suoi proclami sovversivi (e si pensi ad esempio ad un Pareto), Nietzsche poteva sembrare colui che aveva saputo sollevare con maggiore radicalità filosofica il guanto della sfida proletaria.

Quei tempi sono passati con la doppia consumazione storica, a mio avviso irreversibile, sia dei regimi fascisti e nazionalsocialisti sia degli stati socialisti diretti dal comunismo storico novecentesco. È finito il momento in cui settori di classe media e settori di proletariato organizzato si confrontavano inalberando i faccioni di Marx e di Nietzsche, due tedeschi dell'Ottocento, uno barbuto e l'altro baffuto. Il nuovo capitalismo postborghese ed ultraoligarchico ha riscoperto la simbologia del Povero come alla fine del mondo antico, simbologia che accompagna sempre una radicalizzazione ultraoligarchica della società (a quei tempi agraria ed oggi finanziaria). Al posto del vecchio "nemico interno" ci sono ormai solo più nemici esterni, i terribili terroristi suicidi musulmani diretti da Osama Bin Laden in qualche polverosa caverna afgana.

Si dirà che un Nietzsche redivivo, ispirato dalla sua furia iconoclasta e dalla sua filosofia del "martello" distruttore, avrebbe fatto a pezzi la finzione soporifera del Povero, dietro cui si nasconde ormai l'oligarchia più prepotente e svergognata dai tempi dell'impero assiro. E veramente così. Ma questo resta tuttavia un elemento interessante, ma secondario. Il punto essenziale sta altrove.

Il punto essenziale sta nella concezione nicciana della verità. Come è noto, per Nietzsche la verità non esiste, e quello che passa sotto quel nome non è altro che un sistema dinamico di flussi energetici di volontà di potenza (wille zur Macht) in eterno agone reciproco. Già ai tempi di Nietzsche era stata creata una variante "moderata" di questa concezione dal pragmatismo americano, e questa coincidenza temporale non è casuale, perché il capitalismo americano era il luogo geografico in cui era stata spinta più a fondo la trasformazione delle passioni in interessi, più esattamente delle passioni precapitalistiche in interessi capitalistici. Ma non è ancora questo il centro del problema.

Il centro del problema sta nel fatto che se si vuole sostenere a tutti i costi l'esigenza di una aristocrazia è necessario fondare questa esigenza su di una teoria della verità, in base a cui appunto gli uomini si dividono fra chi la cerca e la prende sul serio e chi invece si perde nel mondo alienato della chiacchiera, della curiosità e dell'equivoco (ricordo qui la triade di Heidegger su cui ritornerò fra poco). Non ci si può limitare a dire che la sola verità del mondo è la non-verità, e cioè l'eterno ritorno del sempre eguale conflitto fra volontà di potenze rivali. Questa concezione ciclica della storia non è peraltro greca per nulla, se è vero quanto ho prima ricordato a proposito della concezione aporetica e non ciclica degli antichi greci.

L'odierna "democrazia" postmoderna si fonda appunto niccianamente sulla totale rimozione del problema della verità, irrisa o ridotta a ciò che invece è bene chiamare non "verità", ma certezza, esattezza e veridicità, che sono cose ben diverse. L'odierna democrazia non mette più in mezzo (en meson) la ricerca della verità, ma viene irradiata da flussi manipolativi di tipo mediatico a ferrea direzione oligarchico -finanziaria. Gli individui continuano a muoversi nel caos economico sospinti dalle loro private volontà di potenza, non più fondate su spadoni feudali ma su obbligazioni (pardon, su bonds) che si disputano l'egemonia in mercati internazionali.

Nessuno come Nietzsche ha saputo annunciare tanto profeticamente i tempi nuovi. Certo, poi le cose vanno diversamente. Gesù di Nazareth ha annunciato il Regno di Dio, ed è venuta la Chiesa. Marx ha annunciato il comunismo, ed è venuto il socialismo ..reale" di Stalin e della sua polizia in giacca di pelle nera che svegliava la gente all'ora del lattaio. Nietzsche ha annunciato I'avvento dello Ubermensch,il Superuomo-Oltreuomo, ed è arrivato invece l'Ultimo Uomo (peraltro parzialmente previsto da Nietzsche), la cui asfissiante presenza sta oggi saturando gran parte degli spazi metropolitani.

4. Heidegger, il restauratore inconsapevole della concezione ellenistica e tardo-antica della filosofia

Il lettore è ormai abituato alle mie letture eterodosse, come quelle che ho condotto su Marx e su Nietzsche, e allora non deve stupirsi se anche su Heidegger dirò cose un po' diverse dalla vulgata comune.

Heidegger è indiscutibilmente uno dei più grandi filosofi del Novecento, ed addirittura della tradizione filosofica moderna presa nel suo complesso. I tentativi di squalificarlo come un generico "irrazionalismo" o come aderente nel 1933 al nazionalsocialismo sono in genere strumentali e non colgono il vero punto della questione, che è la capacità di un filosofo di giungere alla vera comprensione astratta di quella concretezza storica particolare che è il presente vissuto nel pensiero. Il fatto che Gentile abbia aderito al fascismo italiano, Lukàcs abbia aderito allo stalinismo sovietico e Heidegger al nazionalsocialismo tedesco, eccetera, può essere usato come argomento liquidatorio solo da un vero analfabeta filosofico.

Come è noto, Heidegger si contrappone a due approcci abituali della considerazione tradizionale del problema metafisico. In primo luogo, si oppone alla metafisica realistica tradizionale di orientamento aristotelico e tomistico, per cui occorre determinare nel pensiero per analogia le categorie ontologiche che caratterizzano l'Essere stesso. Per Heidegger, invece, l'Essere non può essere direttamente sottoposto ad una descrizione categoriale di tipo ontologico, perché ciò è possibile solo per gli enti storicamente costituiti, e bisogna allora prendere la via non della impossibile descrizione dell'Essere, ma della differenza ontologica fra l'Essere e gli enti. Si tratta veramente di una via alternativa. In secondo luogo, Heidegger si oppone alla ricostruzione logico-ontologica della storia della filosofia occidentale fatta da Hegel, in cui si era in presenza di un accrescimento progressivo dell'autocoscienza umana complessiva, tale da poter parlare di un vero e proprio "progresso" nella filosofia,  e  non solo nei costumi e nelle scienze naturali. Per Heidegger questo progresso non esiste ed è del tutto illusorio. Non si sarebbe però egualmente in presenza di una disordinata e caotica serie di idee casuali, e neppure di una successione di ideologie di giustificazione e/o di contestazione dei rapporti sociali nel senso di Marx, ma vi sarebbe egualmente una ben precisa logica che reggerebbe questa successione. E questa logica per Heidegger consisterebbe in ciò: che vi sarebbe un processo di progressivo svuotamento storico dell'approccio metafisico occidentale, fondato appunto sull'equivoco originario di considerare l'Essere come se fosse un ente come gli altri (onto-teologia, eccetera), fino al punto che tutta la storia della metafisica occidentale si risolverebbe in Tecnica planetaria, cioè in apparato (Gestell) anonimo ed impersonale di dominio nichilistico sulle cose e sui rapporti umani. A questo punto, per dirla con Gunther Anders, l'uomo stesso sarebbe "antiquato", cioè non più in grado di gestire e controllare i suoi stessi prodotti, in particolare quelli tecnologici. Per usare un'espressione marxiana, l'alienazione non sarebbe più in alcun modo rimediabile, e diventerebbe un "destino", (Geschick) che non sarebbe più oggetto di storia vera e propria (Geschichte).

Ho ricordato qui brevemente al lettore il nucleo essenziale della diagnosi filosofica heideggeriana della modernità (più esattamente della contemporaneità) per riaffermare che sono perfettamente consapevole del fatto Heidegger è un pensatore "originario"' che non si occupa dunque storiograficamente della filosofia ellenistica (stoicismo, epicureismo, scetticismo, eclettismo, eccetera), ma che va proprio alla ricerca delle origini fondative della metafisica occidentale (Anassimandro, Parmenide, Platone, eccetera). Tuttavia a me interessa in questa sede constatare un esito paradossale della riflessione heideggeriana, per cui attraverso il saggio détour della ricerca sulle origini della metafisica occidentale in pratica poi si arriva alla conclusione che il linguaggio popolare si esprime come "non c'è più niente da fare", Heidegger ha dottamente espresso con l'espressione "solo un Dio può ancora salvarci".

Ma l'espressione colta della conclusione per cui "non c'è più nulla da fare" (cui un autore di canzoni della mia generazione ha aggiunto il motto "è stato bello sognare"), è appunto la riproposizione della concezione e della pratica individuale e sociale della filosofia ellenistica. Se non c'è più nulla da fare allora ciò che resta ancora nelle nostre possibilità è la chiusura volontaria in comunità di amici che si organizzano in un rinnovato "giardino epicureo", e che diventa poi il "coltivare il proprio giardino" con cui Voltaire termina il suo Candido, in cui Candido può finalmente vivere con la sua più volte stuprata Cunegonda e non il professore Pangloss, che non dimentichiamo era stato presentato da Voltaire all'inizio del romanzo come professore di metafisico-cosmoscemologia.

L'esito di Heidegger è quindi paradossale. Si comincia con il programma della restaurazione della massima autenticità filosofica originaria, quella della differenza ontologica fra l'Essere e gli enti, e si finisce poi con il massimo del minimalismo filosofico possibile, e cioè la coltivazione dell'interiorità all'ombra del potere, un potere che è ormai dichiarato non più scalfibile da progetti umani, in quanto ormai incorporato in un apparato tecnico anonimo ed impersonale (Gestell), in cui è venuta ad implodere anche la vecchia alienazione (Entfremdung).

 

Da "Filosofia del presente, Settimo Siglillo 2004