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Afrikan Spir ed Eduard von Hartmann araldi di un moderno spiritualismo gnostico

di Francesco Lamendola - 26/03/2014


 


 

Per comprendere pienamente, nel loro effettivo significato, le aporie, le incertezze, i paradossi del pensiero contemporaneo, bisogna fare un passo indietro e valutare, nel suo complesso, la principale linea di sviluppo della filosofia moderna, a partire dalla Rivoluzione industriale e dal trionfo delle scienze e della tecnica ad essa legato.

Sbaglierebbe chi pensasse che tale linea principale corrisponde a una marcia univoca della ragione strumentale e calcolante e ad una adorazione incondizionata del “fatto” e, di conseguenza, della tecno-scienza; infatti, accanto alla corrente positivista - che si prolunga, con svariati indirizzi, fino ai nostri giorni – fiorisce una rigogliosa tendenza antipositivista, che sta anch’essa all’origine di alcuni aspetti del pensiero odierno e specialmente del cosiddetto “pensiero debole”.

Semplificando, ma senza allontanarci troppo dalla verità, potremmo dire che se il filone positivista e neopositivista rappresenta la tendenza del “pensiero forte”, caratterizzato da una piena fiducia nella conoscibilità del reale, oltre che dalla consistenza ontologica di tale “reale” (perlopiù identificato con la realtà fisica e fenomenica), il filone antipositivista rappresenta il disagio e quindi il dubbio - più o meno sistematico, più o meno radicale – nei confronti tanto della conoscenza umana, quanto della solidità e consistenza reale del mondo così come appare.

Generalmente si pensa che la prima tendenza sia caratterizzata da una impronta marcatamente ottimistica, la seconda da una opposta propensione al pessimismo; ma si dovrebbe dire, piuttosto, che questo e quello non costituiscono, necessariamente, un dato astratto e assoluto, quanto una variante relativa all’idea di “progresso”, così come questa si è formata nella coscienza europea a partire dall’Illuminismo e come si è, poi, consolidata e rafforzata nel contesto della stagione positivista. L’ottimismo e il pessimismo, cioè, non si applicano senz’altro all’insieme del conoscere e al giudizio sul reale, ma al grado di fiducia che si ha, o non si ha, nella possibilità che il progresso scientifico e tecnologico consenta all’uomo di raggiungere una conoscenza sempre più esatta e di esercitare un dominio sempre più incisivo sulla natura, cosa che porterebbe automaticamente, secondo i suoi cultori, ad un aumento della “felicità”, sia collettiva che individuale.

Entrando di più nello specifico, accanto al filone positivista della filosofia europea, promosso specialmente dalle teorie di Darwin e sviluppato, oltre che da Comte, Mill e Bentham, da Spencer, Haeckel, Avenarius, Ardigò, fiorisce un non meno ricco filone antipositivista, che prende la forma di teismo speculativo in Lotze,  di neocriticismo in Lange, di personalismo in Renouvier; e, ancora, si esprime nelle ricerche della Scuola di Marburgo (Natorp, Cassirer), nella filosofia dei valori (Windelband, Rickert), nello storicismo di Dilthey, nello storicismo vitalistico di Simmel - e, poi, di Spengler -, nello storicismo religioso di Troeltsch e di Meinecke.

In questo ricco e complesso panorama, una posizione particolare è occupata da due pensatori che potremmo accomunare sotto la denominazione di” spiritualisti gnostici”: il russo Afrikan Spir e il tedesco Eduard von Hartmann; il secondo più conosciuto del primo e, a suo tempo, largamente celebre, poi entrambi semi-dimenticati a causa degli sviluppi prevalenti nella cultura filosofica della seconda metà del Novecento e di questo inizio del terzo millennio. Vale invece la pena di soffermarsi un momento sulla loro lettura del fenomeno “mondo”, perché, crediamo, da essa si possono ricavare utili spunti per orientarsi nella confusione intellettuale e spirituale di questa tarda modernità che molti amano chiamare “post-modernità”, senza peraltro che appaiano i segni di un convincente superamento della modernità “classica”.

Il tratto comune a questi due pensatori e il loro legame con una certa cultura loro contemporanea, benché siano generalmente considerati indipendenti l’uno dall’altro e piuttosto isolati nel loro tempo, sono stati riconosciuti con sicuro istinto da Vittorio Mathieu, che giustamente li considera quali espressione di una medesima tendenza speculativa, appunto lo spiritualismo gnostico (in: V. Mathieu, «Storia della filosofia», Brescia, La Scuola Editrice, 1967, 1971, vol. 3, pp. 191-92):

 

«Alla divinizzazione positivistica dei “fatti” si contrappone, da parte degli spiritualisti, l’affermazione che il “puro fatto”m, nella sua immediatezza, è un’astrazione, anzi, un nulla impensabile. Quest’affermazione acquista la sua forma più precisa nel russo Africano Spir (1837-1890), ex marinaio, vissuto in Germania e in Svizzera dove scrisse, in tedesco, “Pensiero e realtà” (1873), “Moralità e religione” (1874) e altre opere.

Il principio supremo del pensiero – il “principio di identità”, secondo cui ogni cosa è ciò che è – contrasta assolutamente, osserva lo Spir, con il modo in cui la realtà empirica si presenta. Infatti nessun oggetto è del tutto “identico con se stesso”, tutto diviene continuamente altro e dipende da altro. Il principio d’identità ha, dunque, tutt’altro fondamento che empirico: esso esprime “l’essenza di Dio”. Questa è incondizionata e identica con sé, mentre la realtà fenomenica è “anormale e falsa”.

Erroneo perciò, secondo lo Spir, tanto il panteismo, che identifica la realtà fenomenica con Dio, quanto il teismo, che fa di Dio la “condizione” o la “causa” della realtà fenomenica, e, con ciò, ingoia anche Dio nella catena di condizioni e condizionati che vale, invece, solo tra un elemento e l’altro del fenomeno. La conclusione dello Spir è che la realtà fenomenica non sta in nessun rapporto con l’assoluto. Ma nello spirito dell’uomo c’è – al di fuori di ogni rapporto esterno di “causa e effetto” – il sentimento intimo della parentela con Dio: cioè, di una sostanziale identità di natura tra Dio e ciò che vi è di spirituale nell’uomo. Questo dualismo assoluto tra lo “spirituale” divino, e il naturale (o “carnale”), intrinsecamente nullo e falso, è una tipica dottrina gnostica, che fa dell’uomo spirituale un Dio caduto nella materia e che da essa si risolleva, prendendo coscienza della propria origine.

Del pari essenzialmente gnostica è la “Filosofia dell’inconscio” (1869) di Eduard von Hartmann (1842-1906), che nei suoi strumenti tecnici si rifà a Schopenhauer e all’ultimo Schelling. Le scienze naturali sono incapaci di spiegare fino in fondo i fatti, perché i fatti – fisici o psichici che siano – hanno la loro radice unitaria in un principio inconscio, simile per certi aspetti alla Volontà di Schopenhauer, nel quale però è presente, inconsciamente, un’idea che ne determina l’essenza.

Nascendo dal progressivo estraniarsi di questi due principi, la “volontà” e l’”idea” (originariamente identici nell’inconscio, e contrastanti, invece, quando si portano sul piano della coscienza), il mondo giustifica, secondo lo Hartmann, il più radicale pessimismo: infatti il male, che nasce da quel contrasto, tende ad accentuarsi col progredire della coscienza. Lo spirito dell’uomo, tuttavia, che nella sua radice inconscia è identico con Dio, può, riconoscendo quest’identità, superare la separazione tra “volontà” e “coscienza”, propria dell’individuazione, e liberarsi dal male e dalla sofferenza che l’individuazione porta con sé.

Queste forme di “spiritualismo”, come si vede, sono lontane dal cercare valori spirituali nella bellezza delle cose, nella bontà delle opere, nella “gloria di Dio” che splende nel mondo: esse aspirano alla salvezza piuttosto attraverso la negazione di ogni valore del mondo, e il riconoscimento “gnostico” di una originaria e immediata parentela, se non addirittura identità, del “puro” spirito con Dio.»

 

Il pensiero di Eduard von Hartmann, per certi aspetti più complesso e più chiaramente legato a quello di Schopenhauer, tradisce una tentazione ricorrente nella storia della filosofia occidentale, allora e dopo: quella di non esistere, quella di negare ogni valore all’esistenza e di auspicare una sorta di suicidio cosmico mediante la soppressione della volontà d’esistere. Possiamo ritrovare questa tendenza nelle opere di E. Cioran, caratterizzate da un nichilismo “fiammeggiante” e dall’intuizione leopardiana che il non essere è meglio dell’essere, perché l’essere è male.

Più interessante, per un altro verso, il pensiero di Afrikan Spir, in quanto più si vedono, in esso, i tratti dello spiritualismo gnostico o, se si vuole, di uno gnosticismo spiritualista, antichissima tendenza del pensiero occidentale e tentazione anch’essa ricorrente, specie nelle epoche storiche di travaglio, di dubbio, di transizione, quando i vecchi valori e le vecchie certezze appaiono irrimediabilmente minati dalla crisi e i nuovi non si scorgono ancora all’orizzonte.

Egli parte da una riflessione in sé giusta e condivisibile: il principio d’identità, di cui troppo hanno abusato i filosofi d’impostazione razionalista, a rigore non può applicarsi che all’Essere, perché nessun ente fenomenico lo rispetta pienamente e, se anche lo rispettasse, nessun soggetto percipiente lo potrebbe cogliere nella sua integrità. In altre parole, noi non conosciamo le “cose” così come sono; e, se anche esse fossero realmente sempre identiche a se stesse, noi non ne potremmo avere conoscenza, perché la sola conoscenza che noi abbiamo delle cose passa attraverso l’esperienza sensibile, e questa non è mai identica sa se stessa.

Giusta la premessa, dunque; ma discutibili gli sviluppi del ragionamento. Da questa inconoscibilità dell’Essere mediante l’esperienza sensibile, infatti, lo Spir deduce che la realtà fenomenica è falsa e anormale. Ma essa non è falsa in se stessa, è falsa soltanto se si pretende che ad essa si possano applicare i criteri della verità assoluta; e poi, che vuol dire che la realtà è falsa? La realtà è reale o irreale, non vera o falsa: la realtà, in quanto realtà, è sempre “reale”, qualunque cosa ciò significhi; fuori di noi o dentro di noi, oggettivamente o soggettivamente. L’alternativa sarebbe sospendere il giudizio su qualunque manifestazione della realtà, negare in linea di principio ogni valore a qualsivoglia tentativo di conoscenza di essa. Se non si è disposti ad abbracciare questo scetticismo radicale (e pare che il Nostro non lo sia), allora non ha senso tacciare la realtà fenomenica di falsità; al massimo, la si può definire “illusoria”, illusoria rispetto a una supposta verità oggettiva, il che è tutta un’altra cosa. Tantomeno la si può definire “anormale”, perché ciò equivarrebbe a definire come “normale” solo la realtà essenziale, cioè l’Essere: ma “normale” e “anormale” sono giudizi empirici, non filosofici; se avessero libero corso nel ragionamento filosofico, allora tanto varrebbe fare a meno della filosofia stessa. Nel nostro caso, è evidente che la realtà fenomenica risulta “normale”, se per ”normale” si intende solo ciò che è assoluto; ma la realtà fenomenica non può che essere relativa: dunque, definirla “anormale” non è che una tautologia.

La doppia critica di Spir al panteismo e al teismo risente di questa debolezza fondamentale. È vero che il panteismo pretende di identificare la realtà fenomenica con Dio e, con ciò, compie un salto logico assolutamente gratuito, se è vero che l’essere di Dio, per definizione, è radicalmente “altro” dal fenomeno; ma non è vero che il teismo ingoia necessariamente Dio nella catena della realtà fenomenica, attraverso il rapporto di causa ed effetto tra il condizionato e il condizionante. Sì: per Dio e per Dio solo, a stretto rigore, vale il principio di identità in tutta la sua pregnanza; solo l’Essere è se medesimo, in tutto e per tutto; solo l’Essere è ciò che deve essere, sempre e comunque. Ma ciò non significa che l’Essere, per rimanere uguale a se stesso, debba seguire le stesse categorie e le stesse leggi di ciò che è fenomenico. Ha ragione Spir di affermare che la realtà fenomenica non sta in alcun rapporto con l’assoluto (così come ha ragione di rilevare che, tuttavia, nell’uomo vi è il sentimento intimo di un legane originario con Dio); ma non ha ragione quando ne deduce che tale impossibilità esista anche dalla parte dell’Essere.

Ci spieghiamo. Le cose, i fenomeni, essendo condizionati, sono sempre lontani dall’essere, anche se vi partecipano: per essi, e solo per essi, vale la legge secondo cui non esiste condizionato che non presupponga una condizione. Ma questa legge non vale per l’Essere: del quale nulla sappiamo empiricamente e nulla possiamo dire razionalmente, se non che esso è, che è nel senso pieno del termine, e dunque che sfugge alla catena del condizionato. Nulla però ci permette di affermare che l’Essere, l’Incondizionato, ossia ciò che è condizione del mondo fenomenico, non sia anche, con quest’ultimo, in un rapporto che noi, dal nostro umano punto di vista, chiamiamo “di causa ed effetto”, ma che, dal punto di vista dell’assoluto, può essere tanto libero e gratuito da non alterare minimamente la medesimezza dell’Essere, l’inseità dell’Essere.

L’Essere è, le cose divengono: questa è l’intuizione giusta. Ma non ne consegue che le cose non possano derivare dall’Essere: solo che l’Essere non deriva dalle cose. Questo si può dire e non altro.