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Gli alti stipendi come "questione sociale"

di Mario Bozzi Sentieri - 01/05/2014

Fonte: Arianna editrice


 

In occasione dell’introduzione dell’atteso e discusso “tetto” di 240mila euro agli stipendi dei manager pubblici, esteso ai presidenti delle aziende controllate quotate,   si è parlato di “regola Olivetti”. Di che cosa si tratta ? Per  Adriano Olivetti, l’industriale e politico di Ivrea, scomparso nel 1960, la regola era che nessun dirigente, anche ai massimi livelli,  dovesse guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo.

Al di là degli interventi legislativi, limitati ai manager del  settore pubblico (auspicati, ma non vincolanti per aziende come Eni, Enel, Finmeccanica e Poste) il tema ha una sua rilevanza generale e una  stringente attualità. Al punto che perfino il predicatore pontificio, padre Raniero Cantalamessa, nell’ omelia letta durante le celebrazioni del Venerdì Santo (18 aprile 2014) a San Pietro, in presenza di Papa Francesco,  si è sentito in dovere di denunciare:   “Non è  scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la voce appena si profila l'eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in vista di una maggiore giustizia sociale?”.

Senza nulla concedere alle  facili  colpevolizzazioni , ma anche senza perdere di vista la necessità di coniugare  “senso etico” ed economia, giustizia sociale ed efficienza delle aziende,  occorre, dati alla mano,  prendere intanto atto delle evidenti  “storture” di un sistema che, nel corso degli anni,   ha allargato  le distanze all’interno  delle aziende;   ha , per la maggioranza dei  dirigenti aziendali, reso gli stipendi una sorta di “variabile indipendente ”;  ha snaturato  il ruolo stesso del manager.

Primo dato è che,  in un mercato globale, segnato dalle forti accelerazioni finanziarie, da una estrema competitività e da ugualmente estreme sperequazioni, nello spazio di pochi anni  i rapporti  tra stipendi medi e retribuzioni  dei top manager  sono letteralmente esplosi. Per  “l’Economist”, nel periodo  1998-2010 il rapporto tra le retribuzioni dei vertici delle aziende quotate nella borsa di Londra e quello medio dei dipendenti è cresciuto da 47 a 120 volte. Nel 1980 un manager di vertice guadagnava 23 volte più di un neolaureato. Oggi 150.  Nel nostro Paese, secondo uno studio della Fisac – Cgil,   il rapporto tra uno stipendio base ed uno di vertice è 1 : 163 con punte notevolmente superiori nel caso dei top manager delle grandi aziende, a cui vengono riconosciute  stock option, bonus e liquidazioni milionarie. In ambito europeo, l’Italia si classifica seconda, dopo la Gran Bretagna, per  il   livello di disuguaglianza distributiva dei redditi.

Secondo aspetto da non sottovalutare è che alla crescita degli stipendi dei top manager non sempre corrispondono  autentici risultati “produttivi”. Significativo, da questo punto di vista, il settore bancario . Come denuncia  un’indagine del Centro Studi della Uilca,  il sindacato dei lavoratori del settore bancario assicurativo, mentre nel 2013 le undici principali banche italiane hanno perso complessivamente 21,87 miliardi di euro  gli stipendi dei loro amministratori delegati sono cresciuti in un anno del 16,8%, a 19,2 milioni. Un banchiere “vale” come 62 dei suoi dipendenti bancari, prendendo come parametro  il rapporto tra le due retribuzioni in media. L’indagine  conferma questo paradosso anche durante il perpetrarsi della crisi. In barba ai proclami e ai gesti simbolici, i top manager bancari guadagnano di più rispetto al 2012, anche se sono alla guida di istituti bancari dai bilanci oscillanti”. Sull’aumento del monte stipendi degli amministratori delegati, fa notare il sindacato, hanno pesato “in parte” i 3,6 milioni di euro di penali pagate all’ex Ceo di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, per recesso anticipato dal contratto. Lo stipendio dei banchieri “è sostanzialmente” costituito da una “quota fissa” mentre “sono solo due i Ceo che hanno percepito uno stipendio inferiore agli 800.000 euro nel 2013″.

Terzo elemento su cui riflettere è  la “figura” dello  stesso  manager, oggi  snaturato dalle distorsioni del mercato globale ed orientato  alla massimizzazione del profitto, a scapito della continuità aziendale,  senza rispetto per il  benessere dei lavoratori, spesso con gravi costi sociali. Del resto i manager non rischiano in proprio. Non hanno propri capitali investiti. Non hanno , vista la loro fungibilità, legami particolari con le aziende e con i territori. A garantirli ci sono contratti  in cui la componente fissa dello stipendio è  largamente superiore a quella variabile,  e liquidazioni da capogiro, certamente non proporzionate  all’attività svolta (emblematico il citatissimo caso  di Alessandro Profumo,  ex amministratore delegato di Unicredit, “liquidato” con 40 milioni di euro).

Preso atto di questo “quadro” non è eccessivo definire  il tema  degli stipendi dei top manager come la nuova frontiera della “questione sociale”, in quanto da qui passano e passeranno sempre di più  i destini delle aziende.

Così è stato negli Stati Uniti. Così è e sarà sempre di più  nel nostro Paese, dove si è  ormai consolidata l’immagine del manager-solo-al-comando, il cui ruolo non è quello di fare crescere le imprese, ma di ristrutturarle, di massimizzarne l’efficienza, a cominciare dalla riduzione del costo del personale, di svolgere  “il lavoro sporco” – ci si passi il termine  - a fronte di un “padrone” sempre più invisibile, anonimo, delocalizzato.

E’ evidente che, in un ambito regolato dalla contrattazione individuale, non siano ipotizzabili imposizioni ex lege di possibili “tetti” per gli stipendi dei top manager, così come è avvenuto nel settore pubblico.  La rilevanza, non solo etica, ma anche economica e gestionale, della questione non esclude tuttavia di mantenere vivi i livelli di sensibilizzazione, il dibattito e l’individuazione di soluzioni realistiche.

Intanto  cercando di incidere sulle distorsioni del mercato, di cui i manager sono artefici e vittime; poi ritrovando la centralità del manager, espressione di competenza tecnica e costruttore di coesione sociale; infine riequilibrando gli eccessi del divario salariale, agganciando la remunerazione agli obiettivi raggiunti.

Occorre, in definitiva, che anche i manager comincino a guardare al di là delle contingenze, dei risultati a breve termine, assumendo un ruolo e prospettive di lavoro più  ampie, magari all’interno di un sistema partecipativo, in cui collegare finalmente ed organicamente i diversi soggetti dell’impresa, il capitale, il lavoro, la tecnica, il management. Avendo - per dirla con Adriano Olivetti, citato in apertura –  un’ idea di economia, non più fondata esclusivamente sull’idea di profitto individuale, in grado di dare una nuova coscienza al lavoro, con l’ ambizione di servire la Comunità e di diventare  “orgoglio di una professione, senso del dovere sociale, gioia di creare”.