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Dalla cucina futurista alla cucina molecolare, passando per il Giappone

di Valerio Zecchini - 14/05/2014

Fonte: Arianna editrice


 

Nouvelle cuisine, cucina fusion, cucina molecolare, finger food: termini che fino a non molto tempo fa ai piu’ suonavano esotici e perfino esoterici, sono ormai penetrati  nell’immaginario popolare e nel lessico quotidiano; e mentre in tv si cucina a tutte le ore, gli chef superstar sono gia’ autorita’ indiscutibili che sfornano non solo piatti prelibati ma anche ricettari bestsellers a ripetizione.

Fin da quando sono esistite le corti, sono esistiti i sontuosi banchetti per le elites che circondavano il sovrano (e fuori c’era sempre il Diogene di turno che li schifava). Dunque da sempre il cibo ha avuto un valore simbolico e l’alta cucina ha esercitato una funzione di status symbol – come tale conobbe il suo apice in epoca romana e rinascimentale o nello sfarzo della corte di Versailles. Soltanto negli ultimi decenni pero’ la cucina e’ assurta al rango di arte, quindi non piu’ soltanto bisogno fisiologico o sfoggio di potere, ma espressione dell’ingegno di un artista, lo chef.

C’e’ stato un momento preciso in cui l’arte culinaria ha fatto il suo ingresso ufficiale nel mondo dell’arte vera e propria: nel 2005, quando Ferran Adria’ (il grande chef del ristorante catalano El bul-li) fu invitato ad esporre le sue creazioni di cucina molecolare a Documenta Kassel, una delle piu’ prestigiose fiere d’arte contemporanea del mondo. La cucina molecolare ( o cucina tecnoemozionale, come la chiama lui) e’ il non plus ultra della sperimentazione gastronomica, e si basa su raffinate formule chimiche; fino a quel momento, la cucina rientrava nella categoria dell’artigianato, anche se di alto livello. La moda ha conosciuto lo stesso destino – prima di essere promosso al grado di artista, il fashion designer ha dovuto aspettare gli anni ottanta,  fino ad allora era stato solo un bravo sarto. Parrucchieri e truccatori stanno oggi percorrendo la stessa strada, appunto il passaggio del loro mestiere dallo status di artigianato a quello di arte. In definitiva, ce n’e’ voluto di tempo per arrivare dai panciotti multicolori del futurista Depero al sano e sacrosanto eccesso del vestiario di Lady Gaga.

Se il riconoscimento a Ferran Adria’ costituisce un punto d’arrivo, c’e’ pero’ anche un ben preciso inizio in questa storia, che e’ senz’altro il Manifesto della cucina futurista (1931) a firma di Filippo Tommaso Marinetti e Fillia. La stesura dei manifesti e la loro diffusione erano fondamentali nella strategia del movimento futurista, che aveva appunto esordito con la pubblicazione sul Figaro del Manifesto di fondazione del futurismo nel 1909. Lungi dall’essere dei semplici vademecum su come rivoluzionare le varie arti, essi erano delle vere e proprie grida di battaglia in cui lo splendore geometrico della poesia marinettiana si esprimeva al meglio.Essi contenevano I precisi indirizzi teorici e tecnici per una ricostruzione futurista dell’universo. Tale ricostruzione prevedeva una pari dignita’ di tutte le discipline artistiche, la sperimentazione totale all’interno di ognuna di esse e la loro continua interazione (quella che oggi si invoca sempre e la si chiama “contaminazione”). Quindi  in questi manifesti vediamo in nuce quello che sarebbe poi stato il percorso delle arti fino ad oggi e oltre, dopo la necessaria opera di demolizione di ogni idea data e di qualsiasi conformismo filisteo da parte dei futuristi – tutto cio’ andra’ inevitabilmente a scontrarsi con quella che Marinetti  con un delicato eufemismo chiamava “la lenta comprensione del popolo” . Ad esempio il manifesto L’arte dei rumori (1913) dice che il rumore generato dai macchinari industriali e’ suono e va inglobato nella musica; Luigi Russolo mise in pratica questa sua geniale intuizione inventando l’intonarumori: al suo esordio il pubblico di Modena lo sommerse di ortaggi e molti chiesero alle autorita’ di farlo internare in manicomio, ma molti decenni dopo ci penseranno Karlheinz Stockhausen, Brian Eno e soprattutto Lou Reed con il suo Metal machine music a vendicarlo. E ancora, il Manifesto dell’arte cinematografica  o quello dell’arte fotografica indicarono come sperimentare con questi nuovi mezzi e ne sancirono il valore estetico fino ad allora giudicato assai dubbio (il cinema era considerato un’attrazione, ossia piu’ o meno un fenomeno da baraccone).

In questa febbrile ansia, in questa ferma volonta’ di estetizzare tutto l’esistente non potevano non rientrare l’abbigliamento e l’alimentazione, da cui quindi il tentativo di nobilitare l’opera di sarti e cuochi, che all’epoca erano tutt’al piu’ considerati, come si e’ detto, dei bravi artigiani. In tutto cio’, va ricordato che la principale tra tutte le arti secondo Marinetti era probabilmente quella dell’erotismo e della seduzione, a cui dedico’ non un manifesto, ma un intero volume (Come si seducono le donne, e si tradiscono gli uomini – 1916). In questo campo c’e’ pero’ da dire che le sue sperimentazioni furono limitate, e il libro sembra piu’ che altro un aggiornamento delle Memorie del Casanova (citazione obbligata: “Le femministe? Sono semplicemente delle donne che vanno conquistate non una, ma due volte”). In definitiva, su questa particolare arte avevano gia’ detto e catalogato tutto De Sade, Restif de la Bretonne e  gli altri libertini del settecento, e successivamente Sacher-Masoch e Proust.

Ma tornando al Manifesto della cucina futurista, l’attacco frontale alla tradizione qui non poteva essere che contro il piatto nazionale per eccellenza: la pastasciutta, con i suoi succulenti condimenti. La sua pesantezza annebbia la mente, e a causa della laboriosa digestione, rende il passo meno spedito e la persona meno dinamica. Anche qui poi si consiglia una sperimentazione a tutto campo che anticipa l’odierna cucina fusion (come il mix tra dolce e salato, o tra carne e pesce) e una maggiore attenzione alla presentazione e all’estetica delle portate. Qualche anno dopo la pubblicazione del manifesto, promossa da Fillia e Marinetti, ebbe luogo una memorabile cena futurista che intendeva rovesciare alla radice il tradizionale ordine gastronomico: si inizio’ col caffe’ e si fini’ con gli antipasti. In questa occasione il popolo non protesto’ ne’ si ribello’, ma si limito’ a una sorta di sterile compatimento.

Si sara’ dunque notata una qualche affinita’ tra la cucina futurista e quella orientale, e per vie traverse in epoca piu’ recente esse verranno in qualche modo a coincidere, quasi ad incrociarsi. Infatti da un punto di vista non solo culinario ma anche estetico, l’irrompere sulla scena globale della cucina giapponese a partire dagli anni novanta ha decisamente cambiato le cose, indirizzando la gastronomia di tutto il mondo verso una piu’ meditata presentazione dei piatti (o per meglio dire, una sorta di generale presa di coscienza di come il cibo puo’ essere posizionato e guarnito). Ma perche’ l’estetica delle portate e’ cosi’ importante nella cucina nipponica, e mai casuale? Secondo lo scintoismo, religione nazionale giapponese, l’anima risiede nello stomaco (infatti l’obi, la fascia del kimono, simbolicamente protegge lo stomaco); da qui l’estrema importanza di tutto quello che si ingerisce, come lo si ingerisce e da dove. Cio’ spiega non solo il complesso rito della cerimonia del te’, ma anche la bellezza dei piatti e delle scodelle nonche’ la disposizione del cibo nei piatti stessi, che va curata come si cura un giardino zen o come i fiori nell’ikebana.

Il mangiare, o meglio “degustare” insieme e’ oggi diventato un rituale cosi’ importante che alle inaugurazioni delle mostre d’arte spesso ci si concentra di piu’ sul finger food o sul grand buffet che sulle opere stesse. E’ in quest’ottica  che si presenta come estremamente interessante l’inedita contaminazione tra arte e cucina proposta dagli chef Savigni, Rampinelli e Pappalardo del progetto Sauce and life, il quale ha esordito lo scorso gennaio a Bologna nell’ambito di Setup art fair e che vuole imporsi come nesso permanente tra arte e cucina: la loro missione e’ di interpretare un’opera d’arte attraverso l’ideazione di ricette ispirate all’opera stessa, pensate per assaporarla; ricette che richiamano le caratteristiche dell’opera, tramite i colori, le forme e le sensazioni che essa suscita. Non possiamo che salutare questa iniziativa come un ulteriore passo in avanti di quel lungo, affascinante percorso iniziato nel 1931 col Manifesto della cucina futurista.