Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Magistratura castale. Cassazione: è reato accusare i giudici di fare sentenze politiche

Magistratura castale. Cassazione: è reato accusare i giudici di fare sentenze politiche

di Adnkronos - 30/08/2006

derive "democratiche": uno dei poteri dello Stato, quello giudiziario nella fattispecie, che giudica chi e come puo' criticarlo... (ndr)

 

Il verdetto depositato oggi dalla sezione feriale penale
Cassazione: è reato accusare i giudici di fare sentenze politiche
La Suprema Corte: ''Esula dal diritto di critica e assume portata offensiva risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona''

(Adnkronos) - E' reato accusare le toghe di fare sentenze politiche. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con un verdetto depositato oggi e nel quale la sezione feriale penale della Suprema Corte sottolinea come accuse di questo tipo ai magistrati esulano dal ''diritto di critica'' in quanto ''una siffatta espressione, evocando l'intento di favorire una determinata forza politica a scapito di un'altra, assume portata offensiva, risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona''.

In particolare la Suprema Corte ha imposto lo stop agli attacchi nei confronti della magistratura, cui facilmente si fa ricorso ogni qualvolta viene emessa una sentenza, occupandosi di un ricorso presentato da Vittorio Sgarbi che nell'agosto del '98 in un'intervista ad un quotidiano nazionale aveva accusato i magistrati della Procura di Palermo guidati da Giancarlo Caselli. Era scattata la condanna in primo grado nei confronti del parlamentare per il reato di diffamazione aggravata ad un mese di reclusione, convertito in 1.000 euro di multa da parte del Tribunale di Monza.

Verdetto confermato anche dalla Corte d'Appello di Milano nel gennaio del 2006. Invano Sgarbi si è rivolto alla Cassazione sostenendo di essersi ''limitato a censurare il comportamento delle persone offese esprimendo comunque giudizi e convinzioni personali''. La Suprema Corte respingendo il suo ricorso ha evidenziato come ''non sussiste l'esimente del diritto di critica allorché un magistrato del pubblico ministero venga accusato di svolgere indagini politiche, in quanto - scrive il relatore Alberto Macchia nella sentenza 29453 - una siffatta espressione, evocando l'intento di favorire una determinata forza politica a scapito di un'altra, assume portata offensiva risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona''.

Per sgomberare il campo da dubbi, dunque, gli 'ermellini' precisano che ''esula dalla scriminante del diritto di critica, politica o giornalistica, l'accusa di asservimento della funzione giudiziaria a interessi personali, partitici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l'operato del pubblico ministero''. E questo in virtù delle ''attribuzioni e dei doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale'' dell'ufficio del pm.

La necessità di porre fine alle accuse alla magistrature di fare sentenze politiche, secondo piazza Cavour è determinata dal fatto che ''pure nell'ambito della polemica tra avversari di contrapposti schieramenti e orientamenti, di per sé improntata a un maggior grado di virulenza'', non può fare prescindere dal fatto che ''la critica sia espressa con argomentazioni, opinioni, valutazioni, apprezzamenti che non degenerino in attacchi personali o in manifestazioni gratuitamente lesive dell'altrui reputazione, strumentalmente stese anche a terreni estranei allo specifico della contesa politica, e non ricorrano all'uso di espressioni linguistiche oggettivamente offensive ed estranee al metodo e allo stile di una civile contrapposizione di idee, oltre che - si mette in chiaro nelle motivazioni della sentenza - non necessarie per la rappresentazione delle posizioni sostenute e non funzionali al pubblico interesse''.

La sezione feriale della Cassazione presieduta da Giuseppe Pizzuti sente ancora il bisogno di fissare altri paletti sottolineando come ''un limite di continenza'' sia ''necessariamente ancor più rigoroso ove esso venga riguardato, non nella prospettiva di una contesa fra gruppi politici contrapposti'', ma quando si inserisca ''in una polemica unilateralmente promossa attraverso l'arbitrario inserimento di magistrati all'interno di un supposto schieramento politico antagonista''.

Per altro verso, annotano ancora i supremi giudici, ''l'esercizio del diritto di critica, pur assumendo necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili, specie quando lo stesso abbia ad oggetto l'esercizio di pubbliche funzioni, richiede - accanto al rispetto del limite della rilevanza sociale e della correttezza delle espressioni usate - che, comunque, le critiche trovino riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale e che, pertanto, esse non si risolvano in una ricostruzione volontariamente distorta della realtà, preordinata esclusivamente ad attirare l'attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata''.