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Secondo potere

di Orazio Fergnani - 04/09/2006

Fonte: Orazio Fergnani

SECONDO POTERE

 

Tratto parzialmente da “Miseria umana della pubblicità”.

A cura del Gruppo MARCUSE. Con alcune aggiunte e considerazioni.

 

LA PUBBLICITA E LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE

Siamo sottoposti a un bombardamento quotidiano di migliaia di messaggi pubblicitari che hanno ridotto lo spazio pubblico a un catalogo pubblicitario. Il budget mondiale del settore supera ormai i 500 miliardi di euro.

Motivo : la crescita infinita è essenziale per l’economia capitalista (il che teoricamente sarebbe un bene ….., il guaio è che siamo immersi in un sistema che è finito). Compito strategico della pubblicità è trasformare la propaganda industriale in voglia di consumare e così consentire l’attuale bulimia di merci. Fino a invadere - e stravolgere - alcune sfere vitali della società come i media, la salute e la stessa democrazia, («l’atto elettorale è un atto di consumo come un altro», affermano i pubblicitari). Fino a quella devastazione della società e della natura che è sotto gli occhi di tutti.

Il sistema pubblicitario nella società industriale.

 La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende conseguentemente quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione, contro il sistema capitalistico nel suo insieme : questi flagelli compongono tutti insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro attuale stile di vita sta uccidendo il mondo.

L’effetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento vieppiù crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse disponibili (la Terra è un sistema finito) e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono, l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.

La miseria umana della pubblicità è, dunque questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente. «La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi». I pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. quindi tollerabile questa manipolazione : «Rilanciare i consumi e far funzionare l’economia, il che, a priori, non è condannabile».

Fintanto che la materia consumata può essere riciclata o meglio reintegrata. Le tre leggi della termodinamica dicono che in un sistema (o nell’universo) nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si modifica, con guadagno o perdita di energia. Vero, ma non vorrei che tutto si modificasse in biossido di carbonio, ossido di ferro, in definitiva merda (a qualunque elemento chimico la vogliamo associare), anche a vantaggio di guadagno di energia. Non ci sarebbe più vita per nessuno nella merda (in senso metaforico).

Se si accetta il dogma fondante dell’economicismo, pregiudizio che quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite, allora la pubblicità è effettivamente indispensabile, tanto che diventa difficile metterla in discussione. Se invece la volontà di produrre si giustifica con il fatto che ne dipende la sopravvivenza materiale, in società come le nostre, dove regnano spreco e sovrapproduzione (perché distruggere il surplus agricolo per mantenere i prezzi, non si potrebbe regalarli alle onlus assistenziali?, perché pagare gli agricoltori per lasciare i raccolti sui campi?), si tratta di un presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso.

Dobbiamo iniziare a renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri reali bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza.

 

 

Ormai siamo al punto evidente che se guadagno qualcosa di più io rispetto al necessario è perché lo sto togliendo dalla catasta dove dovrebbe andarlo a prelevare un altro che non ne avrà più l’opportunità.

Non è un’affermazione post-comunista ma una drammatica constatazione della realtà.

La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo (non esagero), di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale (perché comprare una nuova automobile ogni due anni?,anche se avesse percorso trecentomila Km basterebbe cambiare o revisionare il motore e qualche altro elemento della catena cinematica, paradossalmente proprio la pubblicità di molte industrie automobilistiche garantisce ed assicura la durata del veicolo fino a cinque anni!!), favorisce lo sviluppo di un’economia devastatrice (i consumatori oramai trascorrono le domeniche negli ipercentri commerciali invece di fare una bella passeggiata nel bosco a cogliere i frutti selvatici, miracolosamente ce ne sono ancora); e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio; ed il peggio è purtroppo molto vicino e molto grave.

LE RELAZIONI PERICOLOSE

La storia insegna che ciò che può spezzare vecchie catene spesso forgia nuove schiavitù. L’industria avrebbe potuto risparmiarci i lavori più penosi, evidenti miglioramento obiettivamente ci sono stati, ma di fatto ci ha asservito a un lavoro senza tregua (quanto ore a settimana lavorate voi?). La pubblicità ha giocato un ruolo di catalizzatore in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia di consumare, ci ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva fosse al nostro servizio. Conosco gente che si è comprata una nuova macchina fotografica digitale perché è uscito un nuovo modello da 5000 megapixel, quando la vecchia ne aveva 3600 ma una foto sopra i 2000 megapixel è perfetta come definizione ed indistinguibile da una da 5000.

La propaganda industriale avrebbe potuto legittimamente limitarsi alle merci classiche (con qualche limitazione) e rispettare l’indipendenza di almeno tre delle sfere fondamentali e vitali che simboleggiano ciò che di positivo si è inventata la modernità: il giornalismo, la democrazia, la medicina. Non meraviglia che essa ne abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale. Grazie alla sua azione, i media sono diventati macchine per far spendere, invece di diffondere il libero pensiero. Con l’avvento del mondo della comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica e svuotato la democrazia della sua sostanza. Infine, impadronendosi della farmacopea, ha trasformato la medicina in ……. un sistema patogeno.

Piccolo flash ecco può fare la comunicazione al servizio delle multinazionali  …….. ricordate ultimamente :

a)     la mucca pazza? (in Italia 3 morti in circa dieci anni, in Europa stesso periodo 85) in compenso fattorie ed aziende agricole andate in malora a migliaia, disoccupati, centinaia di migliaia di mucche abbattute, contributi ancora da vedere per gran parte degli agricoltori);

b)     la pecora dalla lingua blu? (nessun morto ma per il resto come sopra);

c)      il maiale appestato? (nessun morto ufficiale, ma per il resto come sopra);

d)     le cicogne vampiro, e la gallina killer? (in Italia nessun morto, nel mondo meno di un centinaio in circa un anno;

e)     Etc., etc..

Per un rapido confronto sulla reale dimensione del fenomeno bastino questi dati riguardanti l’Italia:

1)     35.000 morti l’anno di media per conseguenze di abuso d’alcool;

2)     80.000 morti l’anno per conseguenze dirette o indirette dovute al fumo;

3)     85.000 morti l’anno a causa di tumori, anche a causa del fumo;

4)     11.000 morti l’anno a causa di incidenti stradali.

5)     Tralascio le tante altre cause di decesso che riguarderebbero argomentazioni più complesse.

Due considerazioni.

Prima considerazione

A)     Perché creare panico fra la gente (sempre i Consumatori) per delle idiozie come la mucca pazza e similaria, che pure se fondata su motivazioni scientifiche in ogni caso ha peso assolutamente irrilevante nei confronti della Salute Pubblica?;

B)     A chi conviene una simile campagna pubblicitaria – informativa - intimidatoria sulle potenziali catastrofiche conseguenze di una pandemia?.

 

Seconda considerazione

Al contrario perché mai nessuna campagna informativa – pubblicitaria – giornalistica, serena e divulgativa,  è mai stata fatta a tamburbattente inerenti le patologie di massa come quelle appena sopra citate???

E qui ce ne sarebbe davvero bisogno perché il costo economico e sociale di queste vere piaghe d’Egitto è enorme e diminuirne la dimensione e la quantità sarebbe un gran sollievo per i malcapitati, i malati ed un gran guadagno per tutti noi cittadini – consumatori – contribuenti dello Stato .

La risposta ci riporta sempre al PRIMO POTERE (il potere finanziario) di cui vi ho inviato ampia documentazione nella precedente newsletter.

L’indipendenza illusoria dei media

Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano finanziati dai loro lettori e redattori, in quanto non si trattava di ricavarne un profitto, ma di formare un contropotere di fronte all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di attrarre più pubblicità e così via iperbolicamente. Questa pratica si è generalizzata e oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre alcuni vivono esclusivamente di pubblicità, come i giornali «gratuiti» (Metro – Leggo – City) la cui funzione è esclusivamente di diffonderla presso un pubblico più vasto.

 

Riflessione

 

Ma non esistono nel Codice Penale gli articoli di associazione a delinquere; di falsa comunicazione a mezzo stampa; di abuso della credulità popolare?, ed altre tipologie di reato previste dal Codice penale, che cosa fanno le varie cosiddette Authority create a difesa del cittadino – consumatore??

Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per questa «associazione a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner dominante », in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitizzare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di supporti pubblicitari. La simbiosi è ancora più marcata nelle riviste, trasformate in negozi virtuali.

La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari mantengono la confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli articoli giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina (stretto equivalente della propaganda nera che opera falsificando le fonti), la legge ha imposto che le pubblicità vengano presentate come tali; tuttavia esse continuano a camuffarsi nella forma di «dossier pubblicitari», di «supplementi omaggio», di «tavole rotonde», ecc..

Il giornalismo diviene così un business come tutti gli altri, tanto che alcune redazioni si rivolgono ai consulenti di marketing per determinare le aspettative dei «consumatori d’informazione». Inevitabilmente la politica viene considerata come meno fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo e su altri «temi sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment, l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in inglese entertainment, da non confondere con infottement alla napoletana [che sarebbe più afferente]) piuttosto che istruire. Queste tendenze sono particolarmente marcate nella televisione.Gli inserzionisti influenzano anche i contenuti, rifiutando che i loro spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni negative, nel timore che queste ultime facciano impallidire i loro prodotti, ricordate quante volte alcuni spot televisivi sono stati ritirati dalla programmazione quando l’attore – immagine è rimasto coinvolto in affari giudiziari?.

Quanto alla carta stampata, i protagonisti sono i consulenti pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e redazioni) e, ancor più, le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai «piani mediatici» (con i quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati per raggiungere l’obiettivo prefissato, organizzando poi il bombardamento), sono infatti loro che possono influenzare e ricattare le redazioni, minacciando di tagliare i viveri.

Fieri di ricevere finanziamenti per la loro missione, che è quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi giornalisti rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La pubblicità, strombazza il direttore di Le Monde’, è garante dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri politici. Ma tale finanziamento comporta un’altra dipendenza: quella dalle potenze finanziario – economiche.                 E se parrebbe logico, nel caso di un giornale finanziato dallo Stato, che il giornalista si trattenesse dallo sputare nel piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero andare diversamente quando il piatto lo fornisce il capitale?

 

 

Circa mezzo secolo fa, il fondatore di «Le Monde» faceva questa dichiarazione: «Mi sembra pericoloso che la vita del giornale sia assicurata per una porzione eccessiva dalla pubblicità, perché ciò lo pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento da parte dei soli lettori è infatti l’unica garanzia di una completa indipendenza redazionale. È appunto per questa ragione che un giornale come «Le Canard enchaîné» rifiuta la manna pubblicitaria; non meraviglia dunque che sia uno dei rarissimi giornali che informa il pubblico sull’influenza nociva di quest’ultima all’interno dei media.

 

Rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato, giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche essere corretti o direttamente cestinati queste ed altre tecniche più dolci e sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni privilegiate con i vertici. Insieme al bastone, quelli che vogliono crearsi un «terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la carota della «lubrificazione pubblicitaria»; una volta interiorizzate, queste pressioni portano anche all’autocensura.

 

La dipendenza della maggior parte dei giornali nei confronti degli inserzionisti è ancora più problematica per il fatto che sono le marche, e non i politici, a essere oggi giuridicamente intoccabili. Le grandi imprese (vedi PRIMO POTERE) sono infatti le potenze politiche più nocive in assoluto, nel senso che sono loro a trasformare il mondo. Le decisioni che modificano o rischiano di modificare in profondità la vita quotidiana (OGM, nanotecnologie, flessibilità, ecc.) non vengono prese in seno ad assemblee nazionali, ma a monte, vale a dire nei consigli di amministrazione e nei laboratori tecnico-scientifici; le istanze politiche tradizionali avranno tutt’al più il compito di far ingoiare la pillola.

Beninteso, ci sono notevoli differenze tra i media e perciò diversi gradi di vassallaggio, ma guardiamoci bene dal credere che la pubblicità sopraggiunga a pervertirli dall’esterno. L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle masse. Ma soprattutto c’è una profonda analogia nel loro modo, pur problematico, di trasmettere i propri messaggi a masse di destinatari anonimi e atomizzati. E in effetti, più siamo connessi ai media in modo verticale e impersonale, meno siamo legati tra noi in modo orizzontale e personale (ESPANDERE LA COMUNICAZIONE ORIZZONTALE, PIAZZE REALI O VIRTUALI  [INTERNET]). Un’atomizzazione che accresce la nostra dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass media, che sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più favoriscono la concentrazione oligarchica della parola pubblica, conferendo un immenso potere di disinformazione a coloro che la detengono.

Offrendo «pane e giochi circensi», gli imperi mediatico – industriali  come minimo alterano i poteri democratici. Il verme è nella mela. Se la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire, le insufficienze dell’informazione stessa: Ciò che la democrazia esige, è un dibattito pubblico vigoroso primariamente orizzontale, non pubblicità. Certo, essa ha anche bisogno di informazione, ma il tipo di informazione di cui ha bisogno può essere prodotto solo attraverso il dibattito. Non sappiamo quali cose abbiamo bisogno di sapere finché non abbiamo posto le domande giuste. Quando ci impegniamo in discussioni che catturano interamente la nostra attenzione e la focalizzano, ci trasformiamo in avidi ricercatori d’informazione pertinente. Altrimenti assorbiamo indiscriminatamente l’informazione, ammesso che lo facciamo.

La comunicazione all’assalto della democrazia.

Siamo giunti alla questione politica, e qui anche la pubblicità ha aperto dei varchi. La distinzione che, malgrado l’identità dei loro metodi, sussisteva tra pubblicità e propaganda si è andata sbiadendo. Due cose le differenziavano: innanzi tutto il loro ambito di applicazione (commercio/politica); poi il fatto che la pubblicità costituiva una professione autonoma (in quanto le imprese affidavano la loro pubblicità ad agenzie esterne), mentre la propaganda veniva fatta dai politici e dai militanti stessi. Al giorno d’oggi, i pubblicitari fanno «marketing politico» o «elettorale» e s’incaricano della propaganda dei partiti. La confusione delle categorie è giunta a un punto tale che i messaggi di propaganda politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla menzione «pubblicità», mentre quelli della propaganda commerciale lo sono dall’indicazione «comunicato», normalmente riservata alle istituzioni pubbliche.

Negli anni Ottanta i pubblicitari si compiacevano nel constatare che «la politica è entrata in pubblicità e viceversa». Le prospettive di arricchimento per la vita civica appaiono esaltanti: «In una società fondata sul consumo di massa quasi obbligatorio …. tutto si vende, e quasi sempre per ragioni molto lontane da quelle che sono le qualità intrinseche: dall’uomo politico alla saponetta...». Per i nostri strilloni della democrazia adulterata, «l’atto elettorale è un atto di consumo come un altro».La comunicazione è discreta, ma si tratta sempre di «influenzare le attitudini e i comportamenti dei diversi tipi di pubblico». Jean-Pierre Raffarin, ex pubblicitario divenuto primo ministro, incarna questa convinzione: tutto sarà sistemato d’ora in avanti a colpi di comunicazione, modalità in grado di «gestire» i conflitti sociali, di render possibile il «management» dell’opinione pubblica ricorrendo alle regole pubblicitarie: per «vendere un’idea» bisogna a) esprimere una

 

promessa e una soltanto, che sia b) confacente al target, c) semplice, d) credibile, e) durevole, declinabile, f) opportunista. I comunicatori di Bush padre cominciarono anche ad applicare la neolingua, così gli «interventi chirurgici» rendevano i bombardamenti più accettabili, anche se in realtà non erano molto meno mortiferi. Sottili strategie di marketing politico per vendere la guerra a un’opinione pubblica reticente.

La prima cosa di cui ci si deve riappropriare è il senso delle parole. I governi hanno sempre fatto propaganda: in Francia ed in Italia, prima della seconda guerra mondiale, c’era un ministero che portava questo nome. Il termine è in seguito divenuto peggiorativo, e non casualmente i propagandisti si sono acconciati con il grazioso nome di «comunicatori» (o «esperti in relazioni pubbliche»), ponendo un’aureola di onestà sul carattere manipolatore di un lavoro difficilmente controllabile.

Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano prese nei segreti arcani del potere: ciò che veniva concesso al popolo erano sfilate e feste in cui i potenti davano spettacolo di sé per accrescere il proprio prestigio (anche adesso). Con l’età dei Lumi, si costituisce una sfera pubblica che non si accontenta di acclamare passivamente il potere, ma lo contesta e lo discute: sta qui l’origine delle moderne rivoluzioni politiche. Tuttavia, con la crescente concentrazione economica e con l’emergere di un nuovo potere politico, quello delle grandi imprese, lo spazio pubblico ha velocemente ripreso il suo aspetto di scena ludica dove i potenti si pavoneggiano per ottenere un consenso plebiscitario. I grandi orientamenti politici non sono più discussi, bensì imposti con tattiche di comunicazione che ne dissimulano le poste in gioco: è la fabbricazione del consenso, the manufacturing of consent. Ricordate la fretta per far approvare l’indulto prima di andare in vacanza? Non sarebbe stato più onesto e democratico indire un referendum popolare sull’argomento?.

Ci si può indignare del «passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia consumista», ma questo stravolgimento si limita a esacerbare fino al parossismo quelle insufficienze intrinseche alla democrazia rappresentativa, la quale non esige affatto l’impegno di ciascuno nella sfera politica, ma il suo esatto contrario. Poiché il concetto di partecipazione si è ormai ridotto ad andare a votare ogni cinque anni, non ci si può meravigliare che il potere sia stato confiscato da professionisti della politica, esperti e altre figure chiave del mondo della comunicazione. Lo spirito «progressista» ha la sua parte di responsabilità in questa deriva: ha disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non ha dato prova di alcuna chiaroveggenza di fronte allo sviluppo industriale e mediatico, assimilandolo al Progresso e trascurando i suoi effetti nefasti sulle condizioni concrete del dibattito pubblico e della sovranità popolare. È quindi logico, purtroppo, che la politica si sia ridotta sempre più a uno spettacolo (vedi Porta a Porta). La via per manipolare l’opinione pubblica, mascherando qualsiasi politica, statale o industriale, dietro il velo dell’interesse generale, è ormai libera.

La creazione industriale di nuove malattie. (vedi pagina 2)

Nel Medio Evo, ciarlatani e cavadenti promettevano già bellezza e salute, per non dire dell’eterna giovinezza, grazie a pozioni miracolose e a elisir di lunga vita. Non è cambiato nulla. Tralasciando l’esempio caricaturale dei cosmetici, ben altra attenzione merita il modo, misconosciuto, con cui l’industria farmaceutica utilizza il sistema pubblicitario per pervertire la medicina. In Francia ed in Italia, la vendita e la pubblicità diretta dei medicinali sono teoricamente limitate: in realtà lo sono sempre meno. Gli industriali del settore stanno cercando di raggiungere il grande pubblico e lo fanno, «a suon di sotterfugi per raggirare una regolamentazione restrittiva». Sarebbero tutti soddisfatti se si raggiungesse il livello degli USA, dove in dieci anni i budget pubblicitari si sono decuplicati e il giro d’affari dei medicinali coinvolti si è triplicato.

Non siamo ancora a questo punto, ma il sistema pubblicitario non è meno attivo in Francia ed in Italia, dove mira al target che la legge gli consente: il medico fa le ricette. una legione di rappresentanti dei laboratori farmaceutici tampinano i medici, c’è un rappresentante ogni nove medici! I laboratori destinano soltanto dal 9 al 18% del loro budget alla ricerca, ovvero tre volte meno di ciò che viene destinato al marketing. Ecco come si svolge il lavaggio del cervello dei medici di base. All’inizio dei suoi studi, il futuro medico scopre con piacere tutto un mondo di regali, e di sponsor generosi che sovvenzionano serate e settimane bianche. La contropartita sembra minima, basta far finta di ascoltare una graziosa «verità scientifica» su un dato prodotto, lo studente comincia a conoscere davvero le patologie. I libri su cui studia raccomandano certi medicinali in grassetto, gli stessi di cui si ritrova la scintillante pubblicità nella sovraccoperta o inserita tra le pagine. Libri scritti dal «fior fiore della medicina», che ha acquisito notorietà grazie alle sovvenzioni di “laboratori farmaceutici”. Ma per lo studente quel testo è il riferimento indispensabile. Durante l’internato, volente o nolente, frequenta i laboratori più volte a settimana (in occasione di «visite di cortesia», di uscite organizzate, di «riunioni d’informazione», ecc.). Lungo tutta la sua vita lavorativa, il medico sarà corteggiato per il suo stesso bene: riunioni, pranzi, «soggiorni di formazione» lo arricchiranno di un sapere preconfezionato, abilmente truccato alla bisogna nelle riviste di riferimento o nei dépliant che vantano le proprietà del medicinale (che talvolta «dimenticano» di menzionare taluni effetti secondari).

Quindi, anche se i medici hanno appreso (molto di recente) ad avere uno sguardo critico, i trucchi del mestiere funzionano sempre. Allorché i rappresentanti cessano di incentivare i medici, il volume dei medicinali prescritti nella zona geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei farmacisti e delle mutue) precipita.

 

Sono dunque i rappresentanti ad acuire il senso critico dei medici? Sì, nei confronti di malattie che non esistono e che vengono create a colpi di convegni e articoli «scientifici» ratificati da rinomati professori. Una creazione particolarmente facile quando la frontiera tra il normale e il patologico è così sottile. A partire da quali soglie bisogna prendere in considerazione il tasso di colesterolo o la tensione arteriosa? La minima flessione può creare un mercato immenso.

L’industria farmaceutica costituisce il «gioiello della corona del capitalismo». I suoi tassi di profitto sono più alti di quelli di qualsiasi altro settore, banche comprese. Ma per mantenerli, tenendo conto della scadenza dei brevetti, bisogna innovare di continuo e spingere con urgenza, a dispetto di ogni prudenza, al consumo di nuovi prodotti. Ecco in dettaglio le strategie impiegate: si pubblica uno stesso articolo, sotto firme diverse, per aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi sono stati davvero confermati; poi la si può addirittura commercializzare sotto due nomi diversi per imporla più rapidamente (strategia detta di co-marketing); infine si fa pressione per farla prescrivere in prima battuta, ecc. Quando le molecole divengono di pubblico dominio, si procede alla «cosmesi» dei medicinali, scommettendo sulla celebrità del nome di marca; ad esempio, si fa di tutto per far dimenticare che la Tachipirina non è altro che paracetamolo o l’Aspirina acido acetilsalicilico. C’è anche la «strategia di nicchia »: i laboratori propongono il loro medicinale nel sottodominio limitato di una patologia e in seguito «lavorano per allargare questa nicchia, preparando i medici al depistaggio e sensibilizzando sia la stampa che il grande pubblico. Si sono così visti nascere alcune ‘nuove’ turbe psichiatriche», come certe forme di depressione breve o di schizofrenia precoce. (vedi pagina 2)

Davanti alla difficoltà di trovare nuovi medicinali, i laboratori si accingono dunque a inventare nuovi pazienti per vendere i loro vecchi prodotti. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse per il tramite dei media. Negli Stati Uniti è così improvvisamente comparsa una nuova malattia: «la turba da fobia sociale». Tra il 1997 e il 1998 ristagna, vi si fa riferimento, nei media, una cinquantina di volte, ma nel 1999 l’epidemia sembra dilagare tanto che vi si fa riferimento più di un miliardo di volte. Cosa è successo? ………..Niente, se non lo sviluppo di una vivace strategia di relazioni pubbliche per conto di un laboratorio che cerca nuovi sbocchi per un antidepressivo, il Paxil, le cui vendite aumentano del 18% nell’anno 2002.

Queste strategie sono pericolose, perché i medicinali possono innestare una caterva di effetti indesiderabili, che vanno dagli effetti collaterali benigni a quelli mortali. Un farmaco tagliafame ha ottenuto nel 1985 l’autorizzazione alla distribuzione sui mercati (AMM): trombe e tamburi, congressi sul prodotto miracoloso che migliorerà l’alimentazione di milioni di persone, malate per aver troppo consumato o più spesso schiave di un conformismo fisico propagandato proprio dalla pubblicità.

In pochi anni viene quindi consumato da sette milioni di persone e qui ci si accorge della sua pericolosità: 200 persone moriranno o subiranno gravi conseguenze. L’ingegnosità dispiegata per massimizzare la redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è terrificante. Il predominio dell’immagine sulla verità è un tratto indiscutibile della pubblicità, ma nel campo della salute è criminale, perché i medicinali sono potenzialmente delle vere e proprie mine antiuomo. Il principio di precauzione va a farsi fottere grazie a un’ondata di pubblicità che stimola l’iperconsumo dei medicinali, il quale a sua volta comporta 1.300.000 ricoveri (cioè il 10% del totale!) e 18.000 decessi all’anno solo in Francia. Coccolando l’illusione ossessiva della salute perfetta, della bellezza e della gioventù eterne, “Big Farma” ha creato di fatto delle nuove malattie.

Il cinismo dei laboratori trova l’eguale solo presso i loro marketers (Case farmaceutiche, dimostratori scientifici, medici di base e farmacisti (quelli che fanno le campagne contro la liberalizzazione della vendita dei farmaceutici, così li vendono tutti loro), che sacrificano coscientemente la nostra indipendenza, e anche la nostra vita, al Dio Profitto. Eppure sarebbe sbagliato e ingiusto imputare al solo sistema pubblicitario questa deriva del mondo della medicina. Di nuovo, essa non fa che svelare, aggravandole, le insufficienze di una concezione della medicina come assistenza focalizzata sulla prescrizione di composti chimici la cui aggressività è causa di patologie e dipendenze. Ora, le statistiche provano che i progressi della salute pubblica non sono legati in modo decisivo ai medicinali moderni, ma molto più al miglioramento delle condizioni di vita e specialmente dell’alimentazione, vale a dire a cose che gli individui possono controllare da sé. Un’altra concezione della salute si profila a questo punto, una concezione fondata sull’autonomia personale e garantita da una sana igiene di vita che prevede il ricorso all’assistenza medica solo in certi casi particolari.

Gli «spettacolari progressi» della tecnica medica non solo non hanno contribuito granché all’aumento della speranza di vita, ma hanno avuto effetti nefasti non voluti o previsti dai medici. Da un lato questi effetti, invece di spingere gli individui a prendere in mano la loro salute per costruire un modo di vivere più sano, hanno rinforzato l’idea che la salute è assicurata al meglio tramite il consumo quotidiano di cure prodigate da istanze specializzate. Dall’altro lato, sono stati sistematicamente usati per giustificare le condizioni di vita moderne: condizioni che sono sempre più patogene! Il cancro, causa di morte primaria, è un’epidemia legata all’industria, più precisamente a quella chimica, che è anche