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Qual è il paese europeo che cresce più di tutti? Ebbene sì, l’impresentabile Ungheria di Orban

di Rodolfo Casadei - 07/07/2015

Fonte: Tempi


L’Orbanomics funziona. A forza di misure non ortodosse a vantaggio delle imprese nazionali, Budapest, osteggiata da Bruxelles, sta sconfiggendo la crisi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

A Bruxelles masticano amaro e cercano il pelo nell’uovo. A New York si rimangiano le critiche e si arrendono all’evidenza. In tutta l’Europa meridionale leader dei partiti populisti di destra e di sinistra prendono appunti e sperano di potere un giorno copiare la ricetta. Perché tutti i numeri dicono che il miracolo economico dell’Unione Europea è la sciovinista, semi-autoritaria, impresentabile Ungheria di Viktor Orban. E lo è grazie alle sue misure non ortodosse, cioè alle imposte maggiorate sui profitti delle banche, agli attentati all’indipendenza della banca centrale, a politiche discriminatorie a vantaggio delle imprese nazionali.

L’anno scorso il Pil ungherese è cresciuto del 3,6 per cento, il valore più alto in tutta l’Unione Europea. Il tasso di disoccupazione è sceso dall’11 per cento del 2011, quando è stata inaugurata quella che i critici hanno beffardamente definito la “Orbanomics”, al 7,7 per cento alla fine dello scorso anno. Il consumo privato così come la produzione industriale hanno ripreso a crescere. Le grandi marche tedesche di auto aprono nuovi impianti in territorio ungherese o allungano i turni di lavoro di quelle esistenti.
Standard & Poor’s ha rialzato il rating dell’Ungheria portandolo da BB a BB+. E tutto questo è stato realizzato senza aumentare il debito pubblico, che anzi è diminuito da un valore pari all’80,9 per cento del Pil nel 2010 al 77,3 per cento attuale (i governi socialisti lo avevano fatto impennare dal 55,1 per cento del 2002 all’80,9), e senza sfondare il limite del 3 per cento di deficit annuo del bilancio fissato da Bruxelles: tutti lo indicano al 2,5 per cento nel triennio compreso fra l’anno scorso e il prossimo.

Eppure i giornali non parlano di questo, ma delle periodiche sparate di Viktor Orban: il muro da costruire al confine con la Serbia per impedire agli immigrati clandestini di entrare nel paese, l’ipotesi di reintrodurre la pena di morte nel codice penale, le sue dichiarazioni a favore di una «democrazia illiberale». E di certi passi falsi come il tentativo di introdurre una tassa su internet (prima e unica al mondo), abortito dopo grandi manifestazioni di protesta nell’ottobre scorso. Le provocazioni più recenti del primo ministro hanno motivazioni di politica interna: nelle ultime elezioni parziali e nei sondaggi di opinione Fidesz, il principale partito di governo, ha mostrato una significativa flessione a vantaggio non della sinistra (ancora snobbata dagli ungheresi dopo i disastri e le ruberie nel periodo 2002-2010), ma dell’estrema destra antisemita di Jobbik.

Orban ha lasciato perdere la tassa su internet perché stava diventando il cavallo di battaglia di una rinnovata coalizione di sinistra, e ha ripreso le sue provocazioni populiste nell’intento di limitare l’erosione di voti sulla destra. Che è dovuta principalmente al fatto che le profonde riforme costituzionali ed economiche del governo Fidesz-Kdnp (democristiani) hanno sì rilanciato l’economia, ma anche creato una nuova nomenklatura di personalità ammanicate col potere che hanno beneficiato dei nuovi assetti e che sono già detestate da un numero crescente di ungheresi per la loro condizione privilegiata. Eppure con questi chiari di luna di tassi di crescita penosi dell’eurozona e di malessere dell’opinione pubblica dei paesi Ue di fronte agli scarsi o perversi risultati delle politiche di austerità un’occhiata non prevenuta la Orbanomics la meriterebbe. Com’è riuscita l’Ungheria a risalire da dove l’avevano sprofondata i governi socialisti euroentusiasti? E le basi della ripresa sono durevoli o effimere?

Il controllo delle banche
Quando nel 2011 il governo di coalizione di centrodestra avvia le sue riforme, la Commissione europea comincia una procedura accelerata d’infrazione contro l’Ungheria perché la nuova legge sulle nomine nella Banca centrale sarebbe contraria alla legislazione Ue; quindi seguono altre procedure d’infrazione sui regimi di tassazione nel settore del commercio al dettaglio e delle telecomunicazioni. Standard & Poor’s declassa l’Ungheria per gli stessi motivi. Ma Orban va avanti per la sua strada. Prende il controllo della Banca centrale, che in quattro anni abbassa i tassi d’interesse dal 7 all’1,5 per cento.

Aumenta l’Iva sui consumi portandola al 27 per cento (la più alta in Europa) ma contemporaneamente attiva politiche che mirano a trasferire risorse dal settore privato ai consumatori e al settore pubblico: costringe le aziende fornitrici di servizi a ridurre l’importo delle bollette di acqua ed elettricità, impone le più alte tasse d’Europa sulle transazioni finanziarie, nazionalizza fondi pensione per un valore di 10 miliardi di euro (nonostante le critiche di Bruxelles), introduce “imposte di crisi”, cioè in linea di principio temporanee nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e dei supermercati: tutte attività dove la presenza di investitori stranieri è predominante.

Introduce pure una flat tax del 16 per cento sui redditi sia delle persone fisiche sia delle imprese. Per avere le mani ancor più libere, nell’estate del 2013 restituisce in anticipo i 15 miliardi di dollari di prestito che il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva concesso all’Ungheria nel 2008, quando il paese era sull’orlo della bancarotta. Il suo ministro dell’Economia nazionale, György Matolcsy, invita senza tante cerimonie il Fmi a chiudere il suo ufficio a Budapest, perché il paese non ha più bisogno di quell’ingombrante presenza. Ma il colpo più fortunato è senz’altro quello del novembre scorso, quando dopo lunghi negoziati con gli istituti finanziari il governo decreta la conversione obbligatoria dei mutui contratti in valute forti (euro e franchi svizzeri principalmente) in valuta locale, cioè fiorini.

In Ungheria il 60 per cento di tutti i mutui per l’acquisto di case e di auto era denominato in valute estere prima della crisi finanziaria del 2008: i tassi di interesse erano più convenienti. Con la crisi e la conseguente svalutazione del fiorino la situazione si era capovolta e il governo era intervenuto nel 2011 con un primo schema che aveva permesso di estinguere i mutui con valuta straniera ottenuta a tassi artificialmente bassi, ma la soluzione era stata poco dopo abbandonata per gli effetti negativi sul fiorino; poi ci avevano pensato le corti ungheresi a condannare le banche a pagare indennizzi ai loro debitori raggirati (secondo i giudici). In novembre il governo è riuscito a far convertire in fiorini mutui per 9 miliardi di euro. Appena due mesi prima della rivalutazione del franco svizzero, che ha fatto schizzare in alto del 20 per cento le rate dei mutui attraverso tutti i paesi dell’Est Europa. Tutti, tranne l’Ungheria.

Un paese senza troppi debiti
Durerà il miracolo economico ungherese? Secondo gli enti internazionali, quest’anno e l’anno prossimo la crescita continuerà a essere significativa, anche se non così forte come nel 2014. Secondo l’Fmi il Pil crescerà quest’anno del 2,7 per cento e nel 2016 del 2,3 per cento. Secondo l’Ocse la crescita sarà del 3 per cento quest’anno e del 2,2 l’anno prossimo. La previsione meno lusinghiera – ma probabilmente più lontana dalla realtà – è quella della Commissione europea, che nel suo rapporto paese per il 2015 a malincuore riconosce i successi ungheresi però scommette che la crescita non supererà il 2,5 per cento quest’anno e il 2 per cento l’anno prossimo. E questo perché la crescita sarebbe «sostenuta da fattori e provvedimenti di stimolo di natura temporanea, come l’accresciuto assorbimento dei fondi europei di coesione, programmi di prestiti sovvenzionati e tagli alle bollette dei servizi. (…) Complessivamente l’Ungheria ha fatto pochi progressi nel realizzare le raccomandazioni che abbiamo formulato nel 2014. In particolare, nonostante il forte aumento percentuale dei prestiti sovvenzionati, il credito ordinario non ha avuto una ripresa, in parte per l’ulteriore aumento del carico normativo relativo al settore finanziario». Con questo tono la Commissione europea si rivolge al paese numero uno per tasso di crescita l’anno scorso nella Ue, tanta è ormai l’abitudine a incrociare le lame fra Budapest e Bruxelles. 

In realtà qualcosa per rendere duratura la crescita il governo ungherese lo sta già facendo senza aspettare le raccomandazioni di Bruxelles. Dopo tanti anni di braccio di ferro con le banche straniere operanti nel paese, nel febbraio scorso è stato firmato un patto tripartito che si potrebbe chiamare “pax bancaria”. L’austriaca Erste, la prima banca straniera in Ungheria, si è impegnata a erogare prestiti per 550 milioni di euro nei prossimi tre anni alle imprese ungheresi in cambio dell’impegno del governo a ridurre l’imposta sulle transazioni finanziarie al valore medio europeo entro il 2019. A fare da garante è stata chiamata la multilaterale Bers, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che è diventata azionista al 15 per cento della filiale ungherese della Erste.

È di pochi giorni fa un nuovo pacchetto di misure fiscali decise dal governo per stabilizzare la crescita. Prevedono un ulteriore abbassamento della flat tax dal 16 al 15 per cento, la riduzione dell’Iva dal 27 al 5 per cento su alcuni prodotti alimentari, un altro taglio alle bollette dei servizi per 10 miliardi di fiorini e un primo taglio dello scaglione più alto della tassa straordinaria sulle banche. Le banche che hanno aumentato l’importo dei loro prestiti al pubblico di una certa misura in una scala che comincia dal 2009 avranno diritto a rimborsi fiscali per 10 miliardi di fiorini. Inoltre il governo ha comunicato alla Ue che manterrà il programma di lavori pubblici finanziati dal governo (che ha permesso di abbassare il tasso di disoccupazione) e i prestiti a tassi agevolati alle piccole e medie imprese. Cose, queste ultime, che a Bruxelles non piacciono (violerebbero le normative sulla competizione). Ma devono farsene una ragione: l’Ungheria rientra in tutti i parametri contabili e non ha debiti come la Grecia. Non è ricattabile.


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