La peste. Riflessione sulla violenza
di Roberto Pecchioli - 18/09/2025
Fonte: Ereticamente
È in uscita un libro della giornalista di Repubblica Tonia Mastrobuoni dal titolo pesante come un macigno, “La peste”. Si tratta di un saggio sulla politica tedesca e la peste di cui tratta la firma del giornalone progressista è l’avanzata del partito AfD, Alternativa per la Germania, a cui è stata appiccicata l’etichetta di nazismo e lo stigma di ultradestra. Il programma di AfD è liberista in economia e occidentalista in politica estera. È il rigetto dell’immigrazione massiva a produrre il marchio d’infamia, l’identificazione terrorifica con un’epidemia mortale, contagiosa. Giocano con il fuoco: la violenza schiacciante del linguaggio non può che indurre alla violenza fisica. Al Male assoluto si deve reagire stroncandolo senza pietà.
“La peste” è il titolo del capolavoro narrativo di Albert Camus. Tra i tanti significati attribuiti al romanzo, che parla di una pestilenza vera, uno è l’allegoria del male che costringe alla scelta, che fa diventare ciò che si è senza chiaroscuri: codardi, cinici, egoisti o virtuosi, come il protagonista Bernard Rieux. Una sua riflessione, in cui Camus esprime sé stesso, è: la strada maestra è combattere contro l’assurdo e la mancanza di senso dell’esistere. La violenza – verbale, morale o materiale – è oggi un alibi, una scorciatoia per sopportare una condizione esistenziale priva di orizzonte. Chi trova un nemico trova un tesoro, una ragione (negativa) per vivere.
Cronaca e storia ci sospingono al buio e una luce occorre trovarla. L’omicidio di Charlie Kirk marca un punto di inflessione per le reazioni che ha suscitato. Come nella peste di Camus, ciascuno ha rivelato ciò che è davvero, si è mostrato senza ipocrisie, senza mediazione dei toni e dei contenuti. Lungo e inutile l’elenco di chi si è distinto nella giustificazione o nell’esaltazione di un crimine. Esemplare la saggezza di Cacciari: le parole non sono atti ma restano fatti. Evitiamo Roberto Saviano e Odifreddi, scontati nell’affermazione che non tutte le vite valgono allo stesso modo, un concetto assai di destra, a ben pensare. Citiamo un duo rap, Bob Vylan (basta una V al posto della D per degradare un’epoca!) che ha concluso un concerto – un parolone per strilli cadenzati e autotune – con l’elegante auspicio, rivolto a Kirk, “rest in piss”, giocata sull’assonanza con “rest in peace”, riposi in pace. Superflua la traduzione della poetica variante dei gentiluomini Vylan. Prestazione intellettuale inferiore, peraltro, ad Andrea Scanzi, acuminata penna progressista, a cui il cordoglio per Kirk “fa vomitare il glande e il prepuzio, oltre a parti significative del duodeno”. Si conferma per ammissione dell’interessato il sospetto che gli organi citati siano la sede del pensiero del gazzettiere.
Il punto non sono le dichiarazioni, la volgarità, l’implicita violenza, la soddisfazione per un omicidio, ma il perché siamo arrivati a tanto in una società che afferma di respingere la violenza. E non si dica che la furia verbale è una specie di antidoto, metadone contro la droga della violenza diretta, fisica, una proiezione psicanalitica. Hanno una parte di responsabilità i social media, il cui punto di forza è la possibilità offerta a chiunque – specie a ignoranti, stupidi, non pensanti e fanatici – di dire la propria senza filtri. I leoni da tastiera sono l’interfaccia, gli imitatori degli intellettuali (?) e degli influencer, protetti dall’anonimato del nickname e dall’impersonalità del branco, capaci di sfogare ogni frustrazione nel turpiloquio e nell’ostentazione dei sentimenti peggiori. Ma le reti sociali sono l’effetto, non la causa. La violenza è connaturata all’uomo e negarlo come hanno fatto per decenni filoni importanti della cultura dominante conduce all’esito opposto. Tutte le ideologie novecentesche sono state violente, furibonde, aggressive. Sarebbe falso attribuire l’esclusiva della violenza a questa o quella. Ciascuna ha nell’album di famiglia tratti oscuri e chi afferma – come il liberalismo – di essere immune dal contagio, dimentica Hiroshima, lo schiavismo colonialista franco-inglese, il genocidio delle popolazioni amerinde degli Usa, lo sfruttamento del lavoro che fu alla base della reazione marxista. Nessuno si chiami fuori, a partire da chi scrive, i cui sentimenti sono spesso tutt’altro che pacifici.
Tuttavia, non possiamo tacere che, accanto a forme di esaltazione della violenza “di destra” (tra le quali l’estremismo parolaio e un po’ vile di chi invoca la mano dura delle istituzioni contro tutto ciò che disapprova) a dilagare è soprattutto la forma mentis della sinistra, divenuta individualista dopo aver abbandonato il socialismo e il comunismo come forme di organizzazione economico-sociale. Sua è l’ossessione per il nemico: non più di classe, ma di valori. Charlie Kirk racchiudeva in sé tutte le mitologie negative progressiste. Bianco, dunque razzista; cristiano, perciò alfiere di una visione non materialista dell’esistenza; antiabortista, inviso al femminismo che dell’aborto ha fatto una religione; patriota, pertanto avversario del globalismo cosmopolita senza identità a cui si è convertito l’homo progressivus occidentalis ex socialista o comunista; avversario dell’immigrazione, ossessione del paradiso multietnico dei dannati della terra. Devoto alla famiglia naturale al tempo dell’ideologia LGBT per cui felice, fin dalla denominazione imposta, è la condizione gay, gaia. Ovvio, nel pensiero capovolto sinistrato, gioire per la sorte di Charlie esaltando la mira perfetta dell’assassino, convivente con un uomo in transizione di genere, l’eroe perfetto, un pilastro della nuova società.
Ribadito che il richiamo della foresta della violenza non è patrimonio di un’unica visione della vita, possiamo almeno ricordare che per Marx – sulle tracce di Hegel, il vero fondatore della modernità – la violenza è levatrice della Storia con la maiuscola, necessaria al percorso di liberazione il cui esito doveva essere il comunismo? E Lenin, che su quel principio organizzò il partito del proletariato nella sua forma novecentesca. E Gramsci, il più coerente, che distinse tra violenza regressiva – quella delle classi nemiche e dei loro scherani – e progressiva, giusta in quanto volta all’edificazione dell’ordine nuovo. Il pensatore sardo aveva ragione – con la fretta del rivoluzionario – a evocare la fase in cui il vecchio non è ancora morto e il nuovo stenta a imporsi definitivamente.
La postmodernità ha sostituito la modernità, i diritti individuali hanno scacciato la giustizia sociale, il tempo dello scontro finale sembra arrivato. Con alcune variabili non del tutto previste dal pensiero negativo occidentale (che definisce così stesso, nel lessico di un suo padrino, Theodor W. Adorno). È cambiata, ad esempio, la topologia della violenza, come ha intuito un lucido osservatore della postmodernità, Byung Chul Han. La sua natura si è fatta proteiforme, cambia aspetto, si adatta al contesto sociopolitico e agisce anche laddove sembra essere sparita. Assistiamo al trasferimento della violenza sul piano psichico, all’interno del soggetto, vittima delle pulsioni che ha introiettato. La conclusione di Han lascia senza fiato: “la storia della violenza giunge a compimento nella coincidenza tra carnefice e vittima, tra signore e servo, tra libertà e violenza”. Tesi ardita, non priva di elementi di verità: il carnefice resta tale con le sue responsabilità, ma che cos’è l’assassino di Kirk, se non la vittima di un groviglio di teorie malsane, non capite, oltreché, probabilmente, l’esecutore di piani che lo eccedono e che non è in grado di comprendere? Molti odiatori seriali – non gli intellettuali, non i terminali mediatici e culturali – sono soggetti a cui è stato sottratto il criterio che prevede di valutare tutte le idee per formarsi un giudizio.
Il pensiero unico diventa unico pensiero, pronto a manifestare con violenza, con autentico odio, la disapprovazione o, meglio, lo stupore ostile, furioso, verso idee inattese, irricevibili, inaudite (cioè, mai ascoltate!) che contraddicono la sola narrazione conosciuta: un cortocircuito drammatico. Nasce di qui la pretesa di chiamare odio – punibile legge alla mano – ogni idea difforme dall’Unico, diventato il Giusto, il Bene. Reclamano pene contro l’odio perché odiano, e odiano per assenza di alternativa, perfino per paura delle tesi altrui, diventate incomprensibili. Le reazioni all’omicidio di Charlie Kirk ricordano, nella modalità, il rancore in epoca pandemica contro i renitenti al siero, gli avversari del green pass o chi osasse deambulare senza mascherina. Entrambe sono figlie della paura: del contagio e dell’Altro, diventato la Peste.
Il di più, sul versante progressista, è la credenza magica, sciamanica, nell’assolutezza della coppia oppositiva sfruttato-sfruttatore di ascendenza marxista, adattata al nuovo che avanza. Il nemico non è più di classe, è il non credente: se mi si passa l’espressione, l’ateo dei nuovi diritti individuali, del progressismo, del gender, della demonizzazione del passato, di tutti gli a priori a cui è stato indottrinato il progressista collettivo, reliquie di una Verità che solo gli empi possono rifiutare. La posizione progressista si rovescia nel suo opposto, una regressione fideista che fa paura. Unico elemento positivo è che la regressione alla violenza è venuta allo scoperto. Prima era custodita in fondo al cuore: in fondo chi la provava ne aveva timore e persino vergogna. Un residuo di senso morale frenava le pulsioni peggiori.
Oggi tutto è saltato in ogni ambito della vita individuale e collettiva. Nessuna vergogna, anzi la barbara forza di sentirsi parte dello sciame che si sposta all’unisono obbedendo a impulsi misteriosi con movimenti quasi epilettici. La società di massa induce sentimenti massificati. L’ondata di odio, la voluttà di violenza avrà esiti catastrofici se il potere riuscirà a canalizzarla contro un nemico, esterno o interno. A parole di guerra succederanno azioni di guerra. Dio non voglia.