Esportazione della democrazia e flussi migratori
di Gabriele Repaci - 14/09/2015
Fonte: L'intellettuale dissidente
L’attuale dibattito politico in corso nel nostro paese sulle cause dell’immigrazione dimostra che ci troviamo di fronte ad un’atmosfera di pochezza intellettuale e mancanza di capacità critica di notevoli dimensioni. A «destra» si punta il dito contro l’immigrato invece che sull’immigrazione, fenomeno che è un diretto risultato della globalizzazione dei mercati. La responsabilità del fenomeno migratorio infatti spetta in primo luogo non ai migranti bensì alla logica del Capitale che, dopo aver imposto la divisione internazionale del lavoro ha ridotto l’uomo a merce delocalizzabile. D’altra parte «a sinistra», in nome di un’astratta fratellanza dei popoli, si pensa che i problemi del Terzo Mondo possano essere risolti semplicemente facendo sì che esso si trasferisca in massa sul continente europeo. In realtà l’immigrazione non è auspicabile né per gli immigrati stessi i quali sono costretti ad abbandonare i propri paesi natii – insieme ai loro costumi e le loro tradizioni – per altri in cui sono accolti nel migliore dei casi come suppletivi di bisogni economici, né per i popoli che li accolgono, che si trovano – senza averlo richiesto – dinnanzi a modificazioni anche brutali dell’ambiente umano e urbano in cui vivono. Sembra proprio che gli autoproclamatisi eredi del movimento operaio si siano dimenticati di ciò che diceva Karl Marx nel suo celebre Discorso sul libero scambio ovvero che: «chiamare fraternità universale lo sfruttamento cosmopolitico è una idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia». Queste enormi masse di lavoratori che giungono da noi sono disponibili infatti – per necessità e condizione, non certo per naturale propensione – a tramutarsi in manodopera a basso costo per il Capitale.
E’ quello che un tempo veniva definito «esercito industriale di riserva» volto alla riduzione dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori locali. In genere a tale argomentazione si risponde «a sinistra» – quella che fa ancora un’analisi dei rapporti fra le classi non quella immersa nella «pappa del cuore» (Hegel) dell’amore per il «diverso» – che la soluzione consisterebbe nel regolarizzare tutti i clandestini in modo che questi non possano essere più sfruttati dal ceto padronale. Si tratta di un’idea alquanto insostenibile: risulta evidente infatti che tale provvedimento avrebbe solo l’effetto di fare affluire altre masse di disperati. Si creerebbe un circolo vizioso da cui sarebbe impossibile uscirne. L’unica maniera per far fronte al dramma dell’immigrazione è comprendere le cause che spingono migliaia di esseri umani a tentare il tutto e per tutto al fine di raggiungere i paesi dell’Europa Occidentale. Benché le migrazioni siano determinate da crisi socio-politiche, spesso amplificate da tragedie naturali e crisi alimentari, è vero anche che queste sono riconducibili al tentativo rivelatosi fallimentare di imporre dall’alto modelli politici democratici. Il percorso spontaneo verso determinate forme di organizzazione sociale sembra sia stato alterato dalla sforzo di imporre a culture estranee a quella europea istituzioni proprie di quest’ultima. L’imposizione da parte dell’Occidente di esportare in maniera coatta il proprio modello di democrazia rappresentativa ha comportato una degenerazione della gestione della «cosa pubblica» sfociata in colpi di stato militari (come in Egitto) o all’anarchia e nella disgregazione dello stato (come in Somalia e in Libia).
I recenti avvenimenti nel mondo arabo hanno infatti scatenato un flusso di profughi e rifugiati dall’Asia, dall’Africa e dal Medio Oriente confermando la tesi secondo la quale l’instabilità politica, abbia spinto molte persone ad abbandonare i paesi natii per accrescere la grande massa dei migranti. Emblematico è il caso della Siria. Sebbene in precedenza il paese sia stato meta di diverse ondate migratorie, le rotte verso l’estero non sembrano essere mai state di così grande portata. Come fatto notare dal Migration Policy Center in un rapporto del giugno 2013, fino ai disordini del 2011, il territorio siriano era considerato prevalentemente un paese di destinazione dei flussi migratori. Il paese infatti dava ai suoi cittadini la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa. Non solo, i rifugiati palestinesi presenti sul territorio vivevano in condizioni migliori rispetto a quelle dei loro connazionali rifugiatisi in altri paesi arabi. Per fare un esempio, fino allo scoppio della guerra civile, i palestinesi erano ben inseriti all’interno del mercato del lavoro, incluso quello relativo al settore pubblico dove rappresentavano il 36% della forza lavoro. L’attuale ondata migratoria proveniente dalla Siria è la diretta conseguenza delle condizioni di precarietà politica che si è venuta a determinare a seguito del conflitto che ormai da quattro anni sta insanguinando il paese. Stessa cosa si potrebbe dire per la Libia la quale, fino all’intervento della NATO, lungi dall’essere un paese da cui scappare, ospitava circa un milione e mezzo di immigrati. Gheddafi, ispirato dalla sua politica panafricana, iniziò ad accogliere lavoratori provenienti dall’Africa sub-sahariana. L’inserimento di tali immigrati faceva parte di un più ambizioso programma di ristrutturazione del mercato del lavoro che intendeva impiegare tali popolazioni in settori come l’agricoltura e l’edilizia. La Libia, fino alla caduta del Rais, era la meta di molti migranti provenienti dall’Africa nera, occidentale e dal Corno d’Africa.
Tuttavia il fallimento del tentativo di esportare in maniera coatta il nostro modello di democrazia rappresentativa – in particolare nel mondo arabo e islamico – non deve farci cadere nell’idea dal sapore vagamente razzista che gli altri popoli della Terra non possano essere governati bene che da un despota. Si tratta di una teoria sbagliata perché parte dal presupposto che la nostra forma di democrazia sia l’unica esistente. Le radici della convinzione che il principio democratico sia esclusivamente occidentale risiedono nella constatazione che esso è nato ad Atene nel v sec. a.C. e che lo stesso termine democrazia deriva da due parole greche. Sostenere una tesi su argomentazioni di tipo geografico (oltre che etimologico) non ha basi storiche né scientifiche. Come ha mostrato Amartya Sen nel suo libro La democrazia degli altri vi è un’ampia storia di pluralismo e partecipazione pubblica anche in altre società diverse da quelle occidentali. Già i primi concili buddisti, dopo la morte di Gautama Buddha, si occupavano di redimere controversie religiose e di espandere la comunicazione pubblica. In Cina il principe Shotoku introdusse nel 604 d.C. una costituzione relativamente liberale nota come «La Costituzione dei diciassette articoli». Nell’Islam il concetto di Shūrā, principio che statuisce direttamente dal Corano, afferma che è la comunità dei credenti che, attraverso un’assemblea di persone qualificate, deve designare la propria guida, il capo della Umma, il quale ha il compito di esercitare il potere decisionale consultandosi con tale assemblea, pena la destituzione. Potremmo dire in estrema sintesi che la democrazia è certamente un valore universale comune a tutti i popoli della terra ma come tale deve essere veicolata attraverso una cultura particolare.