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Pastori: le sentinelle dei monti

di Edoardo Castagna - 11/09/2006

La transumanza, un mestiere fuori dal tempo che oggi rischia l’estinzione. Latte, carne e lana non rendono più e gli allevatori vaganti sopravvivono solograzie ai sussidi europei. Eppure servono ancora: il viavai delle greggi garantisce l’equilibrio della montagna

E' un mestiere che sa di mito, di Pan e di Arcadia. Poesia: la realtà è molto più prosaica. Pioggia, freddo, neve; lunghe, lunghissime marce dalla pianura alla montagna, dalla montagna alla pianura. Ogni anno, su percorsi mai uguali eppure sempre i medesimi da secoli: quelli della pastorizia nomade, di una transumanza che in Italia continua, tenace, a trovare un suo spazio. Sempre più ridotto, economicamente precario, spesso malvisto da chi si ritrova un gregge che attraversa la «sua» strada. I pastori nomadi esistono ancora, in questo scorcio di nuovo secolo; capita di incrociarli con le loro greggi sulle strade fuori mani delle Prealpi, dalla Liguria al Friuli, o più giù, in Abruzzo. Magari fanno tenerezza, con quel loro essere fuori dal tempo, con gli agnellini stipati nelle sacche sulla groppa degli asini; magari spaventano un po’, per una secolare diffidenza per quei senza casa che torna a riaffiorare. In effetti, è difficile immaginare un ragazzo che oggi si metta a fare il pastore. Transumante, per di più: cioè sempre in movimento, su verso la montagna in primavera, da un pascolo all’altro d’estate, verso la pianura in autunno. E ancora d’inverno, tra le stoppie dei campi in riposo. Per farlo, bisogna essere bizzarri, un po’ matti – ecco la diffidenza –, malati: ed è proprio così che ne parlano loro, i pastori, «malattia». Malattia per le pecore, per le feje, come le chiamano i piemontesi protagonisti del bel volume Dove vai pastore? (Priuli & Verlucca, pagine 252), dove una giovane ricercatrice, Marzia Verona, ha raccolto le voci degli uomini che ancora conducono le greggi. Contro ogni logica economica: fare il pastore, nel 2006, non rende nulla. Anche a fare la tara alle prevedibili lamentazioni del protagonisti, è chiaro che da mordere, alla fine, resta poco. D’altra parte, a che cosa potranno mai servire, quelle quattro pecore, in un’Italia ricca e pienamente inserita nei circuiti del commercio internazionale? Non serve la lana, un tempo fondamento del p rimo settore industriale del nostro Paese. Le pecore vanno tosate, il vello cresce senza preoccuparsi della congiuntura economica. Ma il costo della tosatura supera il guadagno della lana: difficile da vendere, richiesta – in quantità limitatissime – solo da qualche artigiano che lavora il feltro, oppure come sostituto dell’isolante minerale detto «lana di roccia». Non serve il latte, non quello delle greggi transumanti, almeno: non si munge nemmeno più, troppi i limiti igienici per continuare a produrre formaggi artigianali. Un po’ di spese le copre ancora la carne, venduta su piccola, piccolissima scala locale: qualche agnello e qualche capretto sotto Pasqua, una manciata di capi ai grossisti per soddisfare la scarsa domanda della grande distribuzione.

Una mano, insperata, arriva dagli immigrati musulmani: i sacrifici rituali comportano un’imprevista domanda di ovini, acquistati attraverso le macellerie islamiche o direttamente alla fonte – i pastori nomadi. Ma ormai l’apertura internazionale è frequente, nell’allevamento italiano. Se celebri sono i mungitori sikh della Valpadana, nemmeno negli alpeggi – tra garzoni marocchini, aiuto-pastori romeni e tosatori neozelandesi – manca l’apporto extracomunitario. Perché di italiani disposti a fare questo lavoro, duro e avaro, se ne trovano sempre meno. Anche se oggi i pastori sfoggiano piercing e collanine etniche e si appoggiano a cellulari e microchip per identificare le bestie, quelli che ci sono sembrano proprio gli ultimi epigoni di una plurimillenaria tradizione in via d’estinzione. Di transumanza, ormai si parla quasi solo più al passato. Tolta la lana, tolto il latte, tolta quasi la carne, per campare in pratica non resta che una risorsa: le sovvenzioni dell’Unione europea. Un tanto a pecora: il che non aiuta i pastori seri, rispettosi dei loro animali e dell’ambiente, e favorisce speculatori impreparati, capaci di perdersi le pecore, di non rispettare i divieti e le norme che regolano la transumanza, di «r ubare» l’erba. Certo, senza i contributi la pastorizia vagante sarebbe già definitivamente scomparsa, come tanti altri mestieri legati a un passato rurale che non c’è più. Eppure i pastori, anche quei pochi che rimangono a vagare tra monti e piano, servono ancora. Non per l’economia, evidentemente: ma per l’ambiente. Il pascolo, la presenza umana, sono un tassello fondamentale per la tutela del paesaggio; boschi e campagne vengono «ripuliti» dalle pecore, senza i costi e l’inquinamento dei mezzi meccanici. Il che significa prevenzione degli incendi, limitazione del rinselvatichimento che minaccia le aree montane e pedemontane, conservazione della biodiversità vegetale. E anche, perché no, bellezza del paesaggio. È bello incontrare, in una passeggiata in montagna, un gregge. Ed è bello conservare quell’armonica alternanza di bosco e di prato che segna i versanti dei nostri monti. Per farlo, abbiamo ancora bisogno dei pastori vaganti. Anche musealizzati – ma di quel grande museo a cielo aperto che è la natura italiana. Pastori, una specie protetta proprio come i loro secolari nemici, i lupi: che da qualche anno stanno ampliando la loro area di diffusione, tanto sulle Alpi quanto sugli Appennini. Tornando ad attaccare le pecore in transumanza.