Il Burundi é vicino: se l'Unione Africana aggredisce un Paese Sovrano
di Claudio Moffa - 04/01/2016
Fonte: strateghia
In Siria, alle Nazioni Unite, negli incontri bilaterali e multilaterali, continua in mezzo a successi militari e difficoltà diplomatiche l’offensiva di Putin; nel Burundi l’Unione Africana minaccia un intervento per ‘pacificare’ i conflitti interni, sorti - secondo una ben orchestrata campagna di stampa internazionale - dalla ‘pretesa’ del presidente Nkurinziza di scendere in campo per un “terzo mandato”. Come stanno veramente le cose nel Burundi? E che rapporto c’è tra la crisi del Burundi, e quella della Siria in via di soluzione grazie al legittimo intervento militare di Putin a fianco di Assad?
Nel Burundi, la vulgata mediatica recita che l’Unione Africana ha deciso di inviare 5000 uomini nel paese per ‘pacificarlo’; che il Presidente Nkurunziza avrebbe violato la costituzione pretendendo di presentarsi per un terzo mandato, e che il paese versa sull’orlo della guerra civile a causa della dilagante protesta. É falso: alcune cronache di svelavano “centinaia di persone in piazza”, in un paese di 11 milioni di abitanti; non è poi l’Unione Africana, ma il Consiglio per la pace e la Sicurezza dell’UA – sua sezione - ad aver deciso l’intervento militare di cui sopra; quanto a Nkurunziza, allo stato attuale dei fatti, il Presidente burundese sta esercitando il suo terzo mandato sulla base di dispositivi giuridici e decisioni ufficiali che rendono legittimo il suo incarico. Tre in particolare: il primo riguarda la prima elezione di Nkurunziza nel 2005, eletto non a suffragio universale, ma dal parlamento del Burundi, misura eccezionale di transizione dalla fase della guerra civile alla pace tra Tutsi e Hutu; il secondo è l’articolo 96 della Costituzione che risale sempre al 2005, che recita ”The President of the Republic is elected by universal direct suffrage for a mandate of five years renewable one time”, il che vuol dire che quello attuale è il secondo mandato presidenziale secondo dettame costituzionale; il terzo dispositivo è la presa di posizione della Corte costituzionale del Burundi, che il 5 maggio del 2005 ha stabilito – ovviamente prima dello svolgimento delle elezioni - l’ammissibilità della ricandidatura di Nkurunziza alla Presidenza della Repubblica. Passo compiuto l’8 maggio successivo, e premiato – dopo un colpo di stato fallito, il 15 maggio, mentre Nkurunziza si trovava all’estero - con il voto favorevole, il 21 luglio dello scorso anno, del 69, 41% degli elettori contro il 18,99% di un altro candidato, Agathon Rwasa. Tra l’altro il partito del presidente, il CNDD-FDD, aveva ottenuto il 60,3 dei voti nelle elezioni per il nuovo Parlamento, il 29 giugno precedente.
Questi dunque i fatti sulla situazione nel Burundi, a meno di un mese dalla scadenza del mandato annuale del Presidente dell’UA Robert Mugabe, già alleato di ferro di Gheddafi. Cosa c’entra a questo punto l’altra crisi internazionale, quella cruciale della Siria? E’ semplice: come già ho scritto più volte dall’autunno scorso ad oggi (Limes online, Rivista della Cooperazione giuridica internazionale, numero di imminente pubblicazione; Agenzia Stampa Italiana, Italia Sociale, etc) quello della Russia in Siria è stato ed è il primo (sic) intervento legittimo in un paese straniero dalla fine del bipolarismo ad oggi. La cosiddetta comunità internazionale – leggi gli anglo-americani e i loro fedeli alleati – è sempre intervenuta infatti contro i governi centrali e a favore di minoranze etniche o religiose più o meno secessioniste, favorendo la strategia del caos in tutto il Vicino Oriente, oggi accentuatasi grazie all’ISIS.
Putin no: con grande senso di responsabilità il Presidente russo ha deciso di entrare in guerra contro il Daesh – un’organizzazione terroristica le cui milizie pochi giorni fa lo stesso Gran Mufti dell’Arabia saudita ha definito “soldati israeliani”: Riad, come noto è il principale sponsor arabo del califfo Al Baghdadi - e dalla parte del governo siriano, legittimo ai sensi dello Statuto delle Nazioni Unite, perché rappresentante ufficiale di uno Stato la cui sovranità e integrità territoriale è difesa dall’art. 2 della carta di San Francisco. Putin sta insomma promuovendo, anche attraverso l’ONU, una linea di ampliamento multilaterale della gestione delle crisi e dei conflitti del nuovo secolo, vedi la sua alleanza con l’Iran e con lo stesso Iraq post baathista in funzione antiterroristica .
Ecco dunque il pericolo della crisi burundese: esso non sta tanto o solo nella situazione interna al paese, dove è soprattutto l’infima minoranza dei Tutsi (10-15% della popolazione, con il loro partito UPRONA che ha avuto appena il 6,25% dei voti nelle elezioni del 2015) ad opporsi con la violenza e le proteste di piazza a Nkurunziza. Il pericolo sta nell’effetto domino di una abusiva ingerenza dell’UA nella crisi. Non sarebbe legittima: come ha spiegato correttamente Nkurinziza (vedi l’Avvenire del 31 dicembre), l’intervento della cosiddetta forza di pace nel Burundi – potenzialmente possibile quando a fine mese Mugabe dovrà passare la staffetta al suo successore – costituirebbe “un’aggressione”, una misura assolutamente illegittima, visto che “il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non l’ha deliberato” e che l’invio di una missione di pace si potrebbe giustificare – ha detto ancora il Presidente del Burundi - “quando ci sono due forze belligeranti che si accordano su una forza di interposizione. Questo non è il caso del Burundi, perché noi stiamo affrontando un problema di sicurezza”.
La connection tra crisi siriana e crisi burundese, tra scacchiere mediorientale e scacchiere dei Grandi Laghi, sta dunque qui: mentre Putin contatta i vertici delle grandi potenze e investe con la sua linea d’azione il massimo organo (di fatto, e al di là delle legittime critiche per la sua riforma) del diritto internazionale, cioè il Consiglio di Sicurezza, l’oltranzismo bellicista fa leva sulle organizzazioni regionali (vedi anche l’alleanza antiterrorismo messa su da Riad, che tende ad salvare i cosiddetti ribelli moderati anti Assad) per scardinare e minare alle spalle la linea di “guerra per la pace” di Vladimir Putin. La periferia e le organizzazioni di settore accerchiano il centro, depositario ultimo – nel bene e nel male – del diritto internazionale. Se l’UA dovesse marciare oltre i confini inviolabili del Burundi, violerebbe chiaramente sia la Carta delle Nazioni Unite, sia la sua stessa ‘prassi consuetudinaria”: la missione militare in Somalia dell’Unione africana fu resa operativa infatti, nel 2007, solo dopo il sì del Consiglio di Sicurezza.