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La religione, le ideologie, la povertà: cosa c’è alla base delle guerre contemporanee?

di Danilo Breschi - 02/08/2016

La religione, le ideologie, la povertà: cosa c’è alla base delle guerre contemporanee?

Fonte: istitutodipolitica

Papa Francesco sull’aereo che lo portava in Polonia, precisamente a Cracovia, per la Giornata Mondiale della Gioventù 2016, ha dichiarato: “Il mondo è in guerra. E quando dico così parlo di guerra sul serio: non di guerra di religione. C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. Qualcuno può pensare: ‘Sta parlando di guerra di religione’: no. Tutte le religioni vogliono la pace. La guerra, la vogliono gli altri. Capito?”.

E ha proseguito, aggiungendo: “Una parola che si ripete tanto è ‘insicurezza’. Ma la vera parola è ‘guerra’. Da tempo diciamo: ‘Il mondo è in guerra a pezzi’. Questa è guerra. C’era quella del ’14, con i suoi metodi, poi quella del ’39–’45, un’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica, forse, organizzata, sì, non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote che è morto proprio nel momento in cui offriva le preghiera per tutta la Chiesa, è ‘uno’, ma quanti cristiani, quanti innocenti, quanti bambini … Pensiamo alla Nigeria, per esempio: ‘Ma, quella è l’Africa!’. Quella è guerra! Non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra, perché ha perso la pace”.

Lasciando da parte quest’ultima affermazione, a dir poco tautologica, è interessante soffermarsi sul tipo di ragionamento reiterato per l’ennesima volta in questi giorni dal papa e circolante a iosa da decenni, impiegato con particolare riferimento alle cause del terrorismo islamista. È convinzione diffusa che la povertà e la mancanza di istruzione siano i fattori scatenanti tanto le guerre quanto gli atti terroristici.

George W. Bush jr. dichiarava il 22 marzo 2002, in un discorso ufficiale a Monterrey, in Messico: “Lottiamo contro la povertà perché la speranza è una risposta al terrorismo”. La first lady di allora, sua moglie Laura, aggiungeva: “Per ottenere una vittoria duratura nella guerra al terrorismo bisogna assicurare che i bambini del mondo ricevano un’istruzione, perché i bambini istruiti sono molto più propensi ad abbracciare i valori che sconfiggono il terrorismo”.

Dichiarazioni analoghe sono state rilasciate da molti leader mondiali all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Tra questi, Bill Clinton, Al Gore, Tony Blair e James Wolfensohn, allora presidente della Banca Mondiale, il quale disse: “Non vinceremo la guerra contro il terrorismo finché non affronteremo il problema della povertà e quindi le fonti del malcontento”. Dopo l’assassinio jihadista di padre Hamel, l’ottuagenario prete francese che stava celebrando la messa nella chiesa di Saint-étienne-du-Rouvray, stessi concetti ribadiva in un’intervista Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa musulmana, docente presso la Pontificia Università Gregoriana e la Sapienza di Roma: “il terreno fertile delle guerre è sempre lo stesso: povertà e ignoranza”.

Eppure il dubbio resta: siamo proprio sicuri che le guerre e la violenza endemica, sistematica e politicamente finalizzata (perché il terrorismo è anche questo) nascano sempre e solo, o prevalentemente, dalla povertà? Siamo sicuri che un alto livello di istruzione inibisca rispetto al fascino esercitato dalla violenza e dalla guerra?

Digiuni e ignari di storia, del nostro passato, prossimo e remoto, potremmo pure rispondere affermativamente. Guardandoci un poco indietro, scrutando da dove veniamo, la prospettiva invece cambia. Eccome. E le risposte si farebbero negative. Senza, con questo, negare che le nostre democrazie hanno favorito il diffondersi di mentalità pacifiste e comunque refrattarie alla guerra proprio in virtù di un relativo benessere esteso a fasce molto ampie della popolazione. Il metodo liberale in uso nelle nostre democrazie ha indubbiamente abituato, generazione dopo generazione, ad una risoluzione pacifica dei conflitti, nonché alla tendenziale rimozione dell’idea di nemico, sostituita da quella di avversario. Conquista epocale, e troppo spessa sottovalutata.

Non si intende negare parte di verità alla tesi di chi sostiene che povertà e ignoranza favoriscono umiliazioni, risentimenti, e altri stati psicologici disponibili all’uso facile della violenza. L’affermazione perentoria che unica causa delle guerre sia la povertà e che le religioni vogliono solo e soltanto la pace ci spinge però a questa modesta replica. Perché ci pare un segno della grande e pericolosa confusione intellettuale nella quale annaspa la cultura pubblica europea di questi ultimi anni, se non decenni. Una cultura a dir poco smemorata, nonostante si siano meritoriamente istituzionalizzate, in Italia come altrove, giornate dedicate alla “Memoria”, al “Ricordo”, ecc. ecc. Ed invece, di ignoranza storica stiamo morendo, oltreché di cecità cronachistica. Anche all’indomani dell’attentato terroristico a Dacca, nel ristorante in cui hanno trovato orrenda morte anche 9 italiani, “in molti hanno indicato nell’estrema povertà di un Paese fondamentalmente ancora contadino l’humus che nutre la radicalizzazione, per spiegare la permeabilità al messaggio del Califfato di indirizzare l’odio contro gli occidentali. E invece no”, si legge su “la Repubblica” del 3 luglio scorso, “i sette uomini del commando, sei uccisi, uno ferito e catturato, non erano menti semplici e facilmente corruttibili. Erano ragazzi di buona famiglia, educati presso le scuole migliori del Paese, ricchi e non certo reclutati tra gli ultimi della società. Tutti rampolli, nei loro vent’anni, provenienti da famiglie benestanti, tutti bengalesi”. Come dimenticare che Mohamed Atta, il leader del commando suicida di 19 dirottatori coinvolti negli attentati dell’11 settembre, aveva conseguito ben due lauree? Altri terroristi hanno curriculum diversi, talora storie di marginalità e microcriminalità, ma è evidente come il quadro sia più complicato, e sfugga ad ogni facile riduzionismo, compreso quello pauperistico.

Quanto poi alla tesi secondo cui a causare le guerre siano sempre e solo gli interessi economici, materiali, bisognerebbe divulgare nelle scuole italiane la lezione di un grande economista che fu pure presidente della nostra Repubblica: Luigi Einaudi. Nel dicembre del 1914, pochi mesi dopo lo scoppio di quella che passerà alla storia come la prima guerra mondiale, egli notava come l’aspra concorrenza economica avesse fatto prosperare nei due decenni precedenti tanto l’Inghilterra quanto la Germania. Eppure nel 1914 si preferì l’azzardo di una distruzione reciproca. E così Einaudi ne traeva la seguente conclusione: “la guerra odierna ancora una volta ha dimostrato che gli uomini sono mossi ad agire da idee, da sentimenti, da passioni, non certo da ragionamenti economici puri”.

Quanto all’affermazione secondo cui tutte le religioni vogliono la pace, soltanto un universo culturale eurocentrico, schiacciato sul presente e conoscitore della sola religione cristiano-cattolica così come predicata e praticata negli ultimi cent’anni, può ritenerla valida e condivisibile. Rispondente alla realtà. Sorvoliamo, per amor di misericordia, sulla storia millenaria delle persecuzioni e uccisioni in massa perpetrate, dentro e fuori l’Europa, in nome del Dio cristiano. Non ricordiamo neppure l’Inquisizione. “Che rispondere a un uomo che vi dice che preferisce obbedire a Dio anziché agli uomini e che quindi è sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?”. A chiederselo era Voltaire, a metà Settecento. Suo principale riferimento l’intolleranza cristiana. Non accenniamo poi alla genesi e modalità di diffusione dell’islamismo nella penisola arabica e oltre. D’altronde, viviamo nel mondo del virtuale, dell’eterno presente, del politicamente corretto e pure dello storicamente edulcorato o amputato.

Eppure basterebbe rifare mente locale alle effettive cause che hanno prodotto quel campo di sterminio impiantato ad Auschwitz, dove proprio papa Francesco si è recato ieri, per capire che non sono solo gli interessi, i soldi, le risorse materiali a scatenare guerre e ad alimentare violenze di massa tra le più orribili della storia umana. Il nazismo non si spiega con la sola crisi economica seguita alla prima guerra mondiale e fortemente aggravata dalle sanzioni e poi dagli effetti del crollo di Wall Street nel 1929. Ne può, in parte, spiegare il successo elettorale, ma non certo la mobilitazione di un intero popolo, quello tedesco, impegnato per anni e anni a perseguitare e massacrare ebrei e chiunque fosse “non ariano”, e a sostenere una guerra totale contro quasi tutto il resto del mondo; a scegliere di dirottare truppe e risorse materiali per completare la “soluzione finale” nel mentre lo svolgimento della guerra, tra fine ’44 e inizio ’45, stava spostandosi a proprio sfavore. Ancora un esempio storico di come le idee fanno aggio sugli interessi e il proprio tornaconto.

Già nel 2007 l’economista Alan B. Krueger, docente a Princeton, affermava nel suo libro What Makes a Terrorist: Economics and the Roots of Terrorism (trad. it., Laterza 2009) che esistono scarsi dati empirici a sostegno di una relazione tra povertà, bassi livelli di istruzione e terrorismo. Piuttosto, si evince come un innalzamento del livello di istruzione non crei necessariamente tolleranza e rispetto tra le culture. Krueger segnala un’ovvietà, però da ribadire: se i contenuti dei programmi scolastici sono violenti e razzisti, più istruzione significa semmai più intolleranza e maggiori pregiudizi.

Nel libro sono riportati i risultati dei sondaggi di opinione effettuati dal Pew Research Center nel 2004 in Giordania, Marocco, Pakistan e Turchia. In ciascuno di questi paesi sono state interpellate circa mille persone. Una delle domande era: “Che cosa pensa degli attentati suicidi contro gli americani e altri occidentali in Iraq? Personalmente, ritiene che siano giustificati o no?”. I grafici rivelano che le persone con un livello di istruzione più elevato sono più propense a giustificare gli attentati suicidi contro gli americani e gli occidentali in Iraq. I dati non confermano che le persone poco istruite siano più favorevoli agli attentati rispetto a quelle colte. Un’istruzione sovente ad orientamento antisemita e antioccidentale fa il resto. A motivare una strage di innocenti facendo di sé una bomba umana non pare essere dunque una condizione di miseria sociale o di scarsa istruzione. Certamente non si tratta né di fattori unici ed esclusivi, né tanto meno prevalenti.

Come mostrano gli studi di Krueger e di molti altri esperti del settore, appare suffragata dai fatti una tesi opposta a quella che da parte pontificia, e non solo, si vorrebbe oggi avallare. I terroristi non uccidono per modificare il loro status socio-economico, migliorandolo perché poveri, conservandolo perché ricchi o al servizio dei ricchi. Essi sono disposti a uccidere e a morire perché sono convinti di avere avuto accesso alla verità ultima sul significato della vita e della storia e intendono imporre la loro visione del mondo con la violenza. Oppure, come per i tanti, troppi foreign fighters, si tratta di dare un senso esaltato alla propria esistenza che né il benessere materiale né l’uso di stupefacenti (pur abbondante in molti “kamikaze”) risultano capaci di appagare.

Ruolo decisivo svolgono le ideologie, a cui spesso religioni rivelate e monoteistiche forniscono forma mentis e codici linguistici facilitanti. Ideologie vissute come dogmi che pretendono da sé stessi e dagli altri assoluta intransigenza. E se c’è un fenomeno che storicamente ha accompagnato il manifestarsi e il diffondersi delle religioni, soprattutto di quelle monoteistiche, è stato il fanatismo. Ha detto una volta Elie Wiesel, divenuto un grande scrittore e attivista dei diritti umani dopo essere sopravvissuto alla Shoah, noto per aver conseguito il premio Nobel per la pace nel 1986: “La religione può avere un ruolo di straordinaria efficacia, persino risolutiva, ma può essere anche causa di conflitti più accesi: il fanatismo è un fenomeno di ogni religione”. Dimenticarlo, da parte tanto delle maggiori autorità pubbliche quanto degli osservatori e commentatori contemporanei, è solo un ulteriore segno dei tempi di questa nostra Europa. Segno che non sappiamo più leggere la realtà, filtrata ora dallo schermo di un iPhone ora da griglie ideologiche desuete e fuorvianti. Schemi interpretativi forse morti, persino, ma resta sempre valido il monito di Leonardo Sciascia: “Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte”.