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Il mio lungo viaggio nella grande bugia

di Pasquale Chessa - 05/10/2006

 


Gianpaolo Pansa.
 
Scritto nel fuoco delle polemiche che, a partire dal Sangue dei vinti di tre anni fa, hanno accompagnato i libri di Giampaolo Pansa, La grande bugia. Le sinistre italiane e il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) racconta in presa diretta come ancora funzioni quel meccanismo di rimozione politica della storia che Renzo De Felice ha identificato nel concetto di «vulgata».

Lo scandalo forsennato che ha accompagnato lo straordinario successo editoriale trova una ragione obiettiva nella stessa figura professionale di Pansa: giornalista, prima di tutto grande cronista, poi saggista e narratore profondamente ancorato alla cultura di sinistra.
Proprio alla storia della Resistenza fra Genova e il Po ha dedicato i suoi primi studi sotto la guida di due miti della storiografia resistenziale come Alessandro Galante e Guido Quazza. Perché è proprio dalla cultura di sinistra che la cronaca storica di Pansa è stata sottoposta a una sorta di linciaggio morale.

E i sacerdoti del linciaggio, in questo libro, sono affrontati a uno a uno a viso aperto. Ci sono gli «esorcisti» della vulgata, storici cattedratici perlopiù, da Angelo D'Orsi a Giovanni De Luna, da Nicola Tranfaglia a Sergio Luzzatto, icasticamente rappresentato come il «signor ghigliottina».
Poi ci sono i depositari della memoria politica, da Aldo Aniasi ad Armando Cossutta; gli opinionisti, da Mario Pirani a Furio Colombo, da Riccardo Chiaberge a Bruno Gravagnuolo… Ma è soprattutto contro le polemiche di Giorgio Bocca, «l'uomo di Cuneo», e del «Compagno Kojak», Sandro Curzi che Pansa esercita il suo diritto alla difesa, contrattaccando senza quartiere.

Pansa, cosa è «La grande bugia»?
Perché La grande bugia? Un amico mi ha detto: accidenti, scrivi ancora un libro su una storia vecchia di sessant'anni. La mia risposta è che la Resistenza è ancora il bastione evocativo più forte delle tante storie di sinistra, l'unica che li tiene insieme. Oggi, nel Duemila e passa, la Resistenza viene evocata di continuo contro il centrodestra, contro la revisione costituzionale, contro chi non vuole la pace senza se e senza ma. Insomma, non siamo di fronte a un residuato bellico.
E le sinistre che lamentano sempre l'uso politico della storia sono le prime a commettere quell'abuso che attribuiscono agli avversari. Ma se è così, se la Resistenza vive nei nostri giorni, allora raccontiamola giusta senza la crosta bugiarda che l'avvolge.

All'inizio del suo libro si legge che «in Italia la sinistra non esiste più», tante sono ormai le sinistre, spesso in conflitto. Ora dopo il viaggio all'interno della «Grande bugia», con quale sinistra si sente a suo agio?
Con nessuna di quelle esistenti. Il 9 aprile ho ancora votato per una di loro. Ma mi scopro, sempre di più, un italiano insoddisfatto di tutti i partiti. Una specie di anarchico individualista.


Due foto dell'aprile 1945: partigiani davanti ai corpi fascisti uccisi a Carpanedo (Padova); ausiliarie Rsi alle quali avevano rasato il capo
Perché raccontare fino in fondo l'Italia uscita malridotta e moralmente ferita dalla guerra civile viene automaticamente interpretato come una mala azione per riabilitare il fascismo?
La pensa così una minoranza che si va riducendo anno dopo anno. Essa pretende di rappresentare l'antifascismo, ma è una pretesa senza fondamento. Essere antifascisti significa soprattutto amare la verità, non truccare le carte della storia, rifiutare le bugie grandi e piccole. E accettare che non tutti la vedano come la vedi tu. È possibile questa revisione, oggi in Italia? Sono pessimista. E questo libro spiega il perché.

Cossiga, in polemica con lei, ha sostenuto che non si può ricostruire il tessuto morale di un paese senza ricorrere al «mito», all'uso politico della storia.
In questo ha torto. C'è un solo mito di cui tutte le nazioni hanno bisogno: la libertà. La tua e quella degli altri.