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Una chirurgia estetica alle morti in Iraq

di Norman Solomon - 17/10/2006


Le news della stampa Usa si caratterizzano per la curiosa tendenza di non considerare le sofferenze che i missili, le bombe e i proiettili del Pentagono infliggono. Improvvisamente, fonti documentate diventano speculazioni infondate. Di fatto, questo è un giornalismo che pratica alla morte una chirurgia estetica

Nessuno sa esattamente quanti civili iracheni siano morti dall’inizio dell’invasione del loro paese. Un nuovo studio a cura di alcuni ricercatori della John Hopkins University ha stimato che sarebbero 601mila, ma in generale i decessi potrebbero essere compresi tra le 426.369 e le 793.663 unità.

Sebbene tali resoconti di guerra non possano essere più precisi, il significato è chiaro: la campagna irachena ha portato a un progressivo tragico massacro su larga scala.

Mentre ci soffermiamo su numeri che, in realtà, non rendono l’idea delle sofferenze e dell’angoscia che contraddistinguono l’attuale guerra in Iraq, ci dovremmo chiedere: che rapporto esiste tra queste raccapriccianti realtà e i continui resoconti evasivi che ne hanno dato e continuano a darne i media Usa?

A metà novembre 2002 – quattro mesi prima che l’invasione iniziasse – venne alla luce un rapporto medico ufficiale a cura di Medact Organization e dell’International Physicians for the Prevention of Nuclear War, in cui si leggeva: “Lo scopo dichiarato statunitense del cambio di regime sottintende che ogni nuovo conflitto sarà molto più intensivo e distruttivo di quanto sia stata la Guerra del Golfo del 1991, in quanto includerà l’impiego di nuove letali armi ”.

Al tempo, la stampa diede scarso rilievo al rapporto in questione, giudicandolo eccessivamente allarmista e non degno di una particolare attenzione.

Lo studio aggiunse: “Una stima credibile del numero dei morti di tutte le parti in causa nel conflitto può variare dalle 48mila alle oltre 260mila unità. La guerra civile interna al paese potrebbe causarne altre 20mila. Considerando i decessi da cause post-belliche la cifra può arrivare a 200mila. In ogni scenario, la maggioranza delle vittime saranno civili”.

Nel corso di un dibattito televisivo tenutosi il 3 dicembre del 2002, ho prima citato questi dati spaventosi e poi chiesto: “Alla luce di queste cifre, che razza di messaggio di lotta al terrorismo e alla violenza per scopi politici l’amministrazione Bush potrà mai far passare?”

L’ anchorman della CNN Wolf Blitzer passò all’altro ospite: “Jonah Goldberg, lei ritiene attendibili le ipotesi di un tale macabro scenario, inclusivo di così tante morti di bambini, nel caso si decidesse per un’azione rispetto al cosiddetto ‘cambio di regime’ a Baghdad?”

Goldberg, un analista vicino alla statunitense National Review Online [organo dei conservatori americani, NdT] rispose: “Francamente, non lo ritengo. Nel senso, non ho avuto modo di controllare il rapporto citato, ma ciò che credo è che esistono vasti gruppi che enfatizzano le cifre unicamente per la loro contrarietà assoluta ad ogni intervento armato.

Non è una novità. Prima della Guerra del Golfo, gli stessi ci avevano detto che ci sarebbero state decine di migliaia di vittime”.

Goldberg si era accodato alla nota simulazione secondo la quale il bombardamento dell’Iraq all’inizio del 1991 avrebbe portato con sé conseguenze minime. Associated Press il 22 marzo del 1991 riportò che sei settimane di guerra avevano ucciso qualcosa come 100.000 iracheni – un dato che peraltro proviene da fonti ufficiali delle forze armate Usa.

Le news della stampa Usa si caratterizzano per la curiosa tendenza di non considerare le sofferenze che i missili, le bombe e i proiettili del Pentagono infliggono.

Ed esiste quest’altra singolare abitudine di ritenere fonti documentate speculazioni infondate – un vizio che guarda caso si sposa alla perfezione con i desideri dei nostri [degli americani, NdT] presidenti guerrafondai.

Nel suo celebre discorso del 17 marzo 2003, proprio prima dell’invasione, George Bush fece diede il meglio di sé: “Stasera molti iracheni potranno sentire la traduzione di questo mio intervento. Ho un messaggio per loro: se dobbiamo scendere in guerra, questa sarà contro gli spietati autocrati che governano il vostro paese, non contro di voi”.

Il giorno seguente, Christopher Hitchens [noto giornalista britannico, NdT], se ne uscì con un editoriale piuttosto accomodante. Scrisse: “Il Dipartimento della Difesa Usa ha provveduto a far sviluppare nuove e accurate munizioni in grado di ridurre significativamente il numero delle vittime. Se le previsioni di lesioni e uccisioni diffuse nel caso della prima Guerra del Golfo, quando si combatteva con armi senz’altro molto meno sofisticate di quelle di oggi, si rivelarono false…”.

Proseguendo, Hitchens concluse: “Ora può considerarsi un dato di fatto riuscire a combattere un regime e non la popolazione che sottomette o il paese in cui risiede”.

Un altro dato di fatto è che un giornalismo di questo tipo pratica alla morte una chirurgia estetica.

 

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo “MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra”. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
Norman Solomon è inoltre autore dell'
introduzione a 'Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate'.

Sull'Iraq vedi Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (Prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh – Prefazione all'edizione italiana di Gino Strada), di Scott Ritter.

 

Fonte: AlterNet
Traduzione a cura di Nuovi Mondi Media