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Una truffa chiamata debito pubblico

di Umberto Bianchi - 06/11/2018

Una truffa chiamata debito pubblico

Fonte: Ereticamente



E’ da un po’ troppo tempo che ci sentiamo ripetere, a mò di ossessivo “mantra”, che il debito pubblico è eccessivo, o che il suo sforamento può portare a gravi conseguenze per l’economia del nostro paese o che, ancor peggio, in virtù di tale debito siamo obbligati ad adottare delle politiche all’insegna dell’ “austerity” e della stagnazione economica, attraverso odiosi taglia alle spese sociali ed ai salari. L’immagine di un’Italia quale “sorvegliata speciale”, non rende giustizia ad uno stato di cose conseguente ad un’ altra e ben più scomoda, verità. Ma vediamo di procedere per gradi.

Cerchiamo, anzitutto, di dare una definizione di debito pubblico. Per debito pubblico “strictu sensu”, in scienza economica si intende il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti sia nazionali che esteri – quali individui, imprese, banche o addirittura Stati che, attraverso l’acquisto di obbligazioni o titoli di stato (in Italia BOT, BTP, CCT, CTZ e altri) hanno sottoscritto un credito a quello stesso Stato, destinato a coprirne il fabbisogno monetario di cassa, ovvero l’eventuale deficit pubblico cumulato nel proprio bilancio e la copertura dei relativi interessi. A questo punto, però, al di là di una rigorosa, ma arida definizione, sorgono, immediate, due considerazioni strettamente interrelate.

La prima ci pone dinanzi alla riflessione di ordine statistico per cui, a fronte di un progressivo indebitamento pubblico, si ha una maggior crescita di reddito e ricchezza tra i privati. Ed il fatto che l’Italia, con il suo tanto deprecato debito pubblico, sia uno tra i maggiori paesi al mondo detentori di ricchezza privata ce la dovrebbe dir lunga. Da questa prima considerazione ne deriva una seconda, per la quale, le politiche di bilancio ed indebitamento ben coordinate dallo Stato, hanno sempre finito con il creare occupazione, spinta al consumo e, di conseguenza, benessere generalizzato. E siamo arrivati alla teoria keynesiana ed alle sue più eclatanti applicazioni, dal New Deal di Roosvelt, alla organizzazione delle economie degli Stati Totalitari presenti prima dell’ultimo conflitto mondiale, quali Germania ed Italia e via discorrendo con altri similari esempi.

La qual cosa potrebbe ingenerare un certo mal di pancia nei vari apologeti di uno sterile politically correct che, in preda ad un mistico furore, ci risponderebbero che quegli sciagurati esempi non dovrebbero far testo e che, comunque, a lungo andare, tutte quelle economie successive al secondo conflitto mondiale che hanno continuato a cullarsi in un ozioso keynesismo o, comunque, in un rilevante interventismo pubblico, son finite male assai, Grecia, Spagna ed Italia, con il suo abnorme debito, in primis. Per non parlare di quelle economie di Paesi emergenti del Terzo Mondo, ove il pubblico intervento, (sempre a detta di costoro…), ha ingenerato spirali debitorie ed un susseguirsi di fallimenti a non finire.

La prima e più spontanea risposta sta proprio nel “come” il debito viene gestito ed emesso. E veniamo ad un esempio di stretta attualità. Il Brasile sta vivendo una tra le più pesanti crisi economiche della sua pluridecennale storia di alternanze tra momenti di subitanea ascesa ed di altrettanto subitaneo ripiombare in ambasce ed esiziali difficoltà economiche. I precedenti governi a guida PT (Partido dos Trabalhadores, Sinistra-quasi-radicale…) a guida Lula da Silva e, successivamente Dilma Roussef, avevano fatto leva su un indebitamento pubblico che nell’attingere direttamente dalla Caixa Economica Federal (Istituto di Credito Pubblico) attraverso una sconsiderata ed incontrollata elargizione di credito alle fasce più povere di popolazione che ne andava ad aumentare, momentaneamente, il livello di benessere individuale ,senza però, arrivare a creare nuove opportunità di quel lavoro, i cui proventi, invece, avrebbero potuto determinare quel salto di qualità necessario a determinare una duratura stabilizzazione economica.

Il tutto, accompagnato ad un regime di elevata pressione fiscale (la prima in America Latina…) che non ha di certo contribuito alla riuscita delle politiche “petiste”. Quell’elargizione ha determinato un debito mai rientrato nelle casse statali e comunque non foriero di crescita nel medio termine. Ed alla fine, come abbiamo potuto vedere, il conto si è presentato. La mala gestione del debito, può costituire una sicura aggravante e pesare in modo determinante sui destini di un paese ma, a ben vedere, non ne rappresenta certo il motivo principale.

Quello del debito pubblico è un problema che ha la propria scaturigine in motivi diversi da quelli legati al suo semplice palesarsi in quanto tale. E tanto per fare un esempio sulla sua inanità e sulla sua assoluta solvibilità, senza tante tragedie, riportiamo un rapporto della McKinsey Global Institute (MGI) a firma di Richard Dobbs, Susan Lund, Jonathan Woetzel e Mina Mutafchieva ed intitolato “Debt and (not much) deleveraging”, che afferma che ”il debito di Stato detenuto dalle Banche Centrali (o qualunque altro ente governativo) in un certo senso è solo un’entrata contabile, che rappresenta la rivendicazione di una parte del governo verso un’altra. Inoltre, tutti i pagamenti dell’interesse su questo debito sono tipicamente inviati alla tesoreria nazionale, quindi il governo sta effettivamente pagando sé stesso”. Stiamo parlando, praticamente, di una cosiddetta “partita di giro”: lo Stato, deve dei soldi a sé stesso e pertanto non bisogna dare niente a nessuno.

Ipotesi questa, tranquillamente palesata negli anni passati su molti ed influenti media internazionali. Tanto per citare un altro esempio. Nell’Ottobre 2012, Ambrose Evans-Pritchard del Telegraph cita il rapporto di due ricercatori del Fondo Monetario uscito l’agosto di quello stesso anno, dimostrante con dati matematici che, se lo stato stampa moneta in misura sufficiente, può eliminare sia il debito pubblico che il credito bancario con risultati ampiamente satisfattori per PIL, reddito e via discorrendo.

Un altro studio, a firma degli esperti di Pictet Asset Management, Steve Donzè e Hiroshi Matsumoto, “Helicopter money: credible irresponsibility in Japan?” ci suggerisce che, anche in casi come quello dell’Eurozona, in cui la Banca Centrale non è sotto il controllo del governo, si potrebbe “rimpiazzare il debito governativo sul bilancio della Banca Centrale con una obbligazione perpetua a tasso zero”, tramite l’acquisto di bond “zero-coupon” a scadenza illimitata, cioè titoli del debito governativo che non generano interessi e che non devono essere mai pagati in quanto non scadranno mai. L’ipotesi allo studio dalla stessa BoJ (Bank of japan) prevederebbe inoltre la graduale sostituzione dei titoli di stato con questi “perpetual zero-coupon”.

Con questa soluzione, a detta degli studi che abbiamo citato, il debito verrebbe azzerato e cancellato dal bilancio statale. Anche se tecnicamente, un fatto del genere comporterebbe un disavanzo di bilancio, dato che le passività sarebbero superiori alle attività, essendo (teoricamente…) le Banche Centrali non soggette a quei test di solvibilità previsti per le banche del settore privato e non dovendo avere gli stessi requisiti patrimoniali in quanto titolate della esclusiva potestà di creare denaro, non potranno mai trovarsi prive di solvibilità. Sempre secondo lo stesso studio, quella di banche centrali con un patrimonio negativo non è certo una novità: secondo quanto riferito dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), quelle di Cile, Repubblica Ceca e Israele hanno operato per anni con capitale negativo.

Venendo alle cause all’origine del debito pubblico; a detta degli studi compiuti da autori come Ferrero e Bersani, in Italia, il problema del debito, causato da una sua ipertrofica e sproporzionata crescita, comincia a prender forma nel 1981 attraverso la scissione Tesoro-Banca d’Italia.L’indipendenza della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro ha avuto implicazioni più che evidenti sulle casse statali. Sino a quel momento, difatti, i titoli pubblici invenduti erano comunque soggetti ad una garanzia da parte della Banca d’Italia che, in tal modo, limitava le speculazioni. A seguito di questa scissione si sarebbe delineata la truffa del debito pubblico: lo Stato tramite il rialzo dei tassi di rendimento degli stessi, avrebbe pagato così interessi superiori rispetto al tasso d’inflazione, al fine di vendere tutti i titoli non più coperti dalla Banca d’Italia.

È da questo momento che il debito pubblico avrebbe iniziato una crescita spropositata, lasciando il campo libero alla speculazione finanziaria italiana. Secondo quanto riportato dall’analisi del Bersani, dal 1990 al 2015, gli italiani avrebbero versato 700 miliardi in più allo Stato rispetto ai servizi effettivamente ricevuti, contestualmente ad un aumento del debito causato dagli interessi, praticati da quei mercati da cui lo Stato ha cominciato a farsi finanziare. Così il nostro debito è passato dal 60% al 120% in pochi anni, dando così il “la” all’introduzione delle prime misure di rigore e dei famigerati ed indiscriminati tagli alla spesa pubblica.

Quanto sin qui detto, però, è frutto di una visione molto parziale e “tecnicistica” di un problema che, a nostro parere, ha bisogno di esser inquadrato in una più ampia prospettiva. L’emissione di bond a tasso zero, al pari della scissione di Bankitalia dal Tesoro, rappresentano solo degli interessanti spunti di riflessione di cui bisogna, però, ricercare la causa prima ab origine, cioè analizzando il fenomeno Globalizzazione nel suo complesso.

Le ragioni che presiedevano allo sganciamento del 1971 da parte del Dollaro Usa dal riferimento al valore dell’oro e, quindi, dal dettato- principe degli accordi di Bretton Woods, troverà un suo decisivo ed ulteriore sviluppo nella clintoniana abrogazione della Legge Steagall che separava l’attivita delle banche di Investimento da quelle di Risparmio, nella completa deregulation per quanto attiene l’emissione e la gestione dei cosiddetti “junk bonds”/titoli-spazzatura, nei vari accordi sul commercio internazionale WTO successivamente siglati e nella progressiva perdita di sovranità monetaria da parte delle varie banche nazionali dell’Eurozona in favore della BCE.

Tutti fatti questi, che amplificheranno e daranno maggior incisività alla pratica del signoraggio bancario, ovverosia ad un aumento del costo di emissione del circolante che, oramai emesso da istituti di credito privati sotto la copertura di banche nazionali (o direttamente di una sola, come nel caso della BCE, sic!), determinerà l’aggravamento e lo spostamento del nostro famoso debito pubblico dalle casse dello Stato, direttamente alle tasche dei cittadini che, nel ruolo di primi fruitori e portatori della valuta circolante, si troveranno, pertanto, a dover pagare senza poter batter ciglio, oltre agli interessi del debito pubblico, anche il costo del denaro posseduto.

Un problema non nuovo questo, ma ora amplificato ed esasperato da uno scenario economico di tipo neoliberista, per il quale le soluzioni non possono essere identificate se non in un decisivo cambio di rotta delle attuali politiche nazionali e comunitarie, sia in ambito strettamente europeo, che in ambito mondiale. La riconquista di una sovranità economica e politica completa, deve avvenire per gradi, smantellando pezzo per pezzo tutti gli elementi che, ad oggi, costituiscono il grande edificio istituzionale globale.

E questo proprio iniziando dalla dismissione del circo equestre di Bruxelles, a favore di una Comunità di Stati Indipendenti, che lasci ai vari soggetti nazionali, le mani libere nel gestire le proprie economie, a cominciare dalla nazionalizzazione delle Banche Centrali a cui verrebbe restituita la possibilità di creare moneta senza finanziamenti da parte di istituzioni privati (e quindi la fine “de facto” del cappio del signoraggio, sic!), o quella di svolgere politiche di bilancio libere da vincoli e catene comunitari, per favorire lo sviluppo economico di un paese.

Premesso l’irrinunciabile abbandono della moneta unica (Euro…) in modo graduale, attraverso un periodo caratterizzati da un regime di doppia circolazione monetaria, per quanto riguarda il nostro paese, proprio a detta di certi studi “fuori dalle righe”, vi sarebbero alcune mosse fondamentali da realizzare per iniziare a smontare l’edificio globale. Anzitutto, andrebbe nazionalizzata Bankitalia che, in tal modo, potrebbe fornire liquidità al sistema bancario se necessario, (non senza rinunciare, da parte del Tesoro, alla possibilità di nazionalizzare quegli istituti in “default”, sic!) assumendo, inoltre, la funzione di prestatore di ultima istanza a supporto del fabbisogno pubblico e agendo sul cambio,con l’obbligo di intervento in asta. Per ultimo, la rimessa in campo dell’Iri, nel pieno delle sue funzioni di controllo e supporto.

Il secondo gruppo di iniziative necessarie, dovrebbe consistere in una totale cancellazione e rinegoziazione degli accordi economici internazionali Gatt (Uruguay Round e Doha…) , al fine di ritornare ad una sana forma di protezionismo a favore delle singole economie nazionali, anche per evitare la scandalosa svendita e cessione delle nostre migliori firme commerciali in mani straniere. Il tutto, accompagnato da una radicale rivisitazione di tutti quegli accordi di matrice politica, alle varie istituzioni sovranazionali.

A conclusione di quanto abbiamo detto, appare chiaro che quello del debito pubblico è, in verità, un vero e proprio “non problema”, perché alle sue origini sta un concetto distorto della gestione dell’economia pubblica, causato da una codina subordinazione ai “desiderata” dei centri del potere finanziario globale. Eppure, proprio in virtù del suo essere un “non problema”, quello del debito pubblico è il primo, fondamentale tassello, per poter iniziare un autentico percorso di ricerca e riconquista di quella tanto agognata “sovranità perduta”, di cui, oggidì, tutti noi sempre più, sentiamo l’impellente necessità.