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L'America celebra la guerra

di Bianca Cerri - 17/11/2006

 

A pochi giorni dalla sconfitta di George Bush, gli Stati Uniti hanno festeggiato nella stessa data la Giornata Nazionale dei Reduci di Guerra e il 24° anniversario dell’edificazione del muro dedicato ai caduti del Vietnam. Eretto nel 1982 progetto di una giovane laureanda in architettura, il muro è lungo 75 metri e si trova a poca distanza dal Lincoln Memorial, dove sono collocati i due gruppi bronzei dedicati ai caduti. Nel 2004, è stata aggiunta una targa in memoria dei reduci morti in patria a causa delle ferite riportate al fronte. Anche fra i pacifisti, il mito dell’eroe di guerra pronto a sacrificarsi per il suo paese è duro a morire. E’ vero che ci furono migliaia di soldati che vennero spediti al fronte con la minaccia della corte marziale, molti dei quali vennero prelevati con la forza nelle loro case ma è anche vero che molti degli orrori del Vietnam non sono ancora stati rivelati.

Gli americani non vogliono avere nulla a che fare con il ricordo dell’aggressione al popolo vietnamita iniziata da John Kennedy nel 1961 con l’invio dello squadrone aereo "Farmgate". In molti casi, i responsabili degli eccidi hanno avuto il tempo di fuggire prima di essere consegnati alla giustizia.

I fascicoli con i resoconti delle strage di civili avvenute nel sud-est asiatico sono stati aperti solo nel 1994, ma i giornalisti hanno avuto accesso a solo un terzo del contenuto e, prima ancora che potessero studiarlo a fondo, le autorità militari avevano già provveduto a far sparire tutto dagli scaffali degli archivi militari. Per fortuna ci sono ancora alcuni ex-reduci, pronti a testimoniare sul comportamento crudele di alcuni superiori. Jamie Henry aveva 19 anni nel marzo del 1967, quando l’addetto al reclutamento gli tagliò la lunga chioma e gli ordinò di prepararsi alla partenza. Poche ore dopo era su un aereo militare diretto verso il Vietnam assieme agli altri soldati del 35° fanteria, dodici dei quali non avevano ancora compiuto 18 anni. L’otto ottobre del 1967, il plotone di Henry intercettò un ragazzino vietnamita di 12 anni che venne portato in un campo e giustiziato sotto gli occhi impassibili del comandante.

Pochi giorni dopo vide i compagni trascinare un vecchio che non riusciva a tenere il passo dei soldati. Quasi senza che l’uomo se ne rendesse conto, gli americani lo lanciarono giù dalla montagna. Poi toccò ad una ragazza poco più che adolescente e fu allora che Henry decise che non avrebbe più potuto restare a guardare. I suoi tentativi di convincere i capi a mettere fine alla violenza si rivelarono inutili e poco dopo arrivò l’ordine di rimpatrio accompagnato da una reprimenda per aver disonorato l’esercito degli Stati Uniti d’America. Nel 1971, Jamie Henry convocò una conferenza stampa denunciando gli omicidi ai quali aveva assistito. Nella sala erano presenti confusi tra i giornalisti uomini di Nixon che tentarono di screditarlo e ridicolizzarlo davanti a tutti, senza però riuscire ad imporgli il silenzio.

Il 1971 fu anche l’anno in cui ebbe inizio la guerra personale del colonnello Anthony Herbert contro l’esercito americano. Herbert, arruolatosi a 17 anni, raccontava di essere stato un bambino molto stupido e uno studente mediocre, il che non gli aveva lasciato altra scelta che cercarsi un lavoro nell’esercito. Dopo venti anni di carriera, la sua passione per la vita militare era diventata odio puro e semplice. Durante il servizio in Vietnam aveva visto i colleghi torturare giovane donne asiatiche con micidiali strumenti di tortura. Quando aveva chiesto spiegazioni ai superiori, gli era stato risposto che in guerra non si offrivano caramelle ai prigionieri. Nel febbraio del 1973, una trasmissione televisiva cercò di mettere in ridicolo le dichiarazioni fatte da Herbert sulle torture imposte ai prigionieri vietnamiti e i superiori lo costrinsero a dimettersi ma anche in questo caso alcune realtà dolorose riuscirono ad affiorare.

L’opinione pubblica americana, compresa quella che inizialmente aveva appoggiato la guerra era rimasta sconvolta dalle denunce dei militari e virò verso il dissenso, ma sul Vietnam continuarono a cadere tonnellate del bestiale napalm, una miscela in grado di causare ustioni alla pelle ed alle ossa fino al quinto grado. La Casa Bianca continuò a ripetere che l’arte della guerra non poteva permettersi rimorsi, soprattutto quando si trattava di sbarrare il passo ai comunisti. Anche con l’accordo di pace firmato nel 1973 le azioni belliche andarono avanti fino a quando non fu chiaro che gli Stati Uniti avrebbero pagato a caro prezzo il lungo intervento nel sud-est asiatico.

Il 30 aprile del 1975, la bandiera a stelle e strisce venne ammainata e gli elicotteri militari presero il volo uno dopo l’altro. Per l’America fu una brutta sconfitta, ma il prezzo più alto lo pagarono i vietnamiti con quattro milioni di morti. L’esercito USA si lasciò dietro centinaia di dispersi e le famiglie continuarono ad illudersi per anni che potessero essere ancora vivi. Gli esseri umani fanno i conti con il dolore ciascuno a suo modo e Laverne Ransbottom, una donna ormai anziana che vive in Oklahoma, che mai aveva voluto prendere in considerazione l’ipotesi della morte del figlio Fred al fronte, ha dovuto arrendersi all’evidenza quando le autorità militari le hanno riconsegnato nel giugno scorso quel poco che restava di lui. Lo stesso è accaduto per la famiglia Hull, che ha riavuto solo pochi giorni fa le ossa di James, i cui funerali sono stati celebrati proprio oggi, a 39 anni dalla morte.

La guerra del Vietnam resterà uno degli argomenti più dibattuti di tutti i tempi in senso giornalistico ma i lati oscuri rimarranno. Documentari straordinari hanno rivelato l’incredibile crudeltà di quello scontro, ma probabilmente nessuna televisione ufficiale vorrà mai trasmetterli. In particolare, esiste uno struggente filmato sui quasi diecimila cani che persero la vita in Vietnam, sacrificati alle ambizioni di vittoria degli strateghi USA. I 209 che non morirono furono abbandonati dall’esercito USA il giorno della smobilitazione. Al massacro sistematico degli umani seguì la negazione dei diritti per gli animali. Un orrore che continua ancora oggi in Iraq e Afghanistan dove sono dislocati 3.000 soldati a quattro zampe ai quali il Pentagono ha imposto persino l’uso del giubbotto antiproiettile che gli animali sopportano malvolentieri. Costretti a restare sotto il solo con quasi quaranta gradi di calore, rischiano la vita ogni volta che vengono messi di guardia ai varchi, ma per comprare loro dei collari refrigeranti si è fatto ricorso a una colletta. I soldati cui sono stati affidati speculano spesso sull’assonanza tra la parola “dog”, cane, e il termine dispregiativo “underdog”, che indica un perdente.

Quando la tragedia della guerra finirà, come accadde per il Vietnam, non ci sarà più molta differenza. Sia i reduci che i loro compagni a quattro zampe scopriranno di essere un peso per il loro paese. Ai cani toccherà il veleno di un’iniezione letale, gli umani dovranno vedersela con l’indigenza, il razzismo e i fantasmi della loro mente. Il governo che li aveva spediti in guerra con promesse grandiose e grandi discorsi sulla democrazia e la libertà, al loro ritorno li condannerà a restare per sempre degli “underdogs”.