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Petrolio: dal punto di vista (e dalla parte) di chi vive con 1 $ al giorno

di Lucia Venturi - 24/11/2006

Nigeria: l´altra faccia dei profitti del petrolio e dei consumi opulenti. Dove la sostenibilità non è neanche sostentamento

La Repubblica federale di Nigeria è uno dei paesi più poveri al mondo. Il 63% della popolazione vive al di sotto della soglia di estrema povertà, e i due terzi sono donne. E’ al secondo posto nella graduatoria mondiale della mortalità infantile, e al penultimo in quella dello sviluppo umano. Ma nell’area del delta del Niger, che è il primo produttore d´oro nero del continente africano, le compagnie petrolifere tra cui Shell, Chevron, Agip, Total beneficiano, come tutte le società estere, di un utile sui loro investimenti tra i più vantaggiosi del pianeta. Le piattaforme che sorgono a fianco delle baraccopoli estraggono petrolio che porta alle casse dello stato il 95% della valuta estera, ma che lascia in cambio a una popolazione di venti milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno un territorio devastato dall’inquinamento.

Secondo i rapporti pubblicati in occasione del 10° anniversario dell´impiccagione di Ken Saro Wiwa, scrittore militante che venne condannato nel novembre 1995 perché aveva denunciato la Shell (che dal 1958 estrae petrolio nel territorio del delta del fiume Niger) di aver avvelenato la popolazione Ogoni che vi abita, e di averla costretta all´emigrazione e alla miseria, la situazione nel delta del Niger è peggiorata rispetto a dieci anni fa. Più violenza delle bande e delle milizie sempre meglio armate, più corruzione nella gestione e commercializzazione del petrolio e del gas. Nella regione si contano vittime dirette (in media mille morti violente l´anno) e indirette: a Bayelsa, lo stato del delta, il cocktail tossico emesso dalle estrazioni del greggio - dichiarate illegali anche dalla giustizia nigeriana - ha provocato 5.000 casi di malattie respiratorie e più di 120.000 crisi di asma.

E per sfuggire alla situazione assai degradata, sono migliaia le persone che abbandonano le terre del delta per trasferirsi nei ghetti delle vicine metropoli di Port Harcourt o di Warri.

In una situazione del genere è facile che prendano piede azioni di rivolta e che si moltiplichino gli attacchi di ribelli a metà strada tra l´attivismo politico e il banditismo economico, contro queste compagnie. E le tensioni non potranno che acuirsi con l´approssimarsi delle elezioni presidenziali del 2007, mentre il Paese si prepara a sfruttare nuovi pozzi petroliferi per far fronte alle perdite che proprio in conseguenza di questi ripetuti attacchi rappresentano ormai un terzo della produzione nazionale.

L’ultimo di questi assalti è stato rivolto verso una piattaforma off-shore gestita dalla società Saipem, una società del gruppo Eni, con il sequestro di sette tecnici e come, già era successo in passato, il blitz per liberare gli ostaggi è finito tragicamente con quattro vittime tra cui anche uno degli ostaggi.

Già in passato il Mend (Movimento per l´emancipazione del delta del Niger), che potrebbe essere anche in questo caso autore dell’assalto, ha rapito dirigenti stranieri delle compagnie petrolifere e sabotato le piattaforme e si è dichiarato intenzionato a intensificare gli attacchi, se non ci saranno garanzie da parte del governo di rivedere le quote dei guadagni ottenuti dall’estrazione del petrolio, attualmente pari al 13%, che il movimento per la emancipazione del delta del Niger vorrebbe almeno al 50%. Ma le rivendicazioni si spingono sino alla richiesta dell’abbandono da parte delle multinazionali del territorio del delta.

L’esercito nigeriano attacca regolarmente le bande con brutali operazioni di rappresaglia, che finiscono regolarmente nel sangue e anche le compagnie, che per proteggere i loro giacimenti ricorrono a società di sicurezza private, non esitano ad appoggiare questi interventi. E nonostante le difficoltà che fanno minacciare a molte delle compagnie di lasciare il campo, è evidente che il “mondo del petrolio” preme più che mai verso un paese affacciato su un golfo, quello di Guinea, e che galleggia sul petrolio e sul gas. Entro il 2010 il nuovo giacimento offshore di Bonga dovrebbe permettere alla Nigeria di produrre 4 milioni di barili di greggio al giorno e garantire quindi al resto del mondo di spostare di qualche anno il picco di Hubbert, ovvero il massimo delle riserve e della produzione di fonti fossili.

Ma dai recenti rapporti sul clima emersi prima e durante la conferenza di Nairobi, la situazione che ne risulta pone un altro interrogativo rispetto a quando e se questo picco avverrà, ovvero se i cambiamenti in atto non porteranno il pianeta ad una destabilizzazione prima ancora che si esauriscano le fonti fossili e quindi prima ancora di stabilire se quella di Hubbert era una profezia o una realtà.

«A metà di questo secolo avremo 200 milioni di profughi ambientali: uomini e donne costretti ad abbandonare per sempre la loro terra per colpa del livello del mare, delle alluvioni, della siccità» ha dichiarato Barrister Hyder Ali, ministro dell’ambiente del Bangladesh a cui fanno riscontro le parole del collega britannico David Milliband che dice che «è il cambiamento climatico a minacciare la crescita economica, non le azioni necessarie a fermarlo. Più aspettiamo e più costoso sarà. E i costi saranno ancora più pesanti per i Paesi in via di sviluppo».

Ma già i paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, pagano un prezzo elevato per mantenere l’attuale standard di consumi energetici dei paesi ricchi: in termini di povertà, di malattie, di fame, di ingiustizie sociali, e potremmo continuare con una lista purtroppo assai lunga. Viene da chiedersi allora, come le conseguenze potrebbero addirittura essere più pesanti di così. Ma preferiremmo di gran lunga non doverlo mai verificare, e anzi poter assistere almeno ad un cambiamento di rotta.