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Sir Howard: l'umiltà di un colonizzatore che volle imparare

di Slow Food Editore - 07/11/2005

Fonte: Slow Food Editore

 

Slow Food Editore manda in libreria “I diritti della terra” del padre dell'agricoltura biologica.

 
Era il 1940 quando l’opera di Albert Howard “An agricultural testament” fu pubblicata per la prima volta a Oxford. Botanico e agronomo, Sir Albert Howard nel suo campo fu un autentico precursore, capace di intuire con chiarezza i problemi dell’agricoltura così come si sarebbero presentati ai nostri giorni, a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua esperienza.

Inviato in India dal governo inglese nel 1905 allo scopo di insegnare agli indiani nuovi metodi per migliorare le coltivazioni locali, lo studioso si rese conto molto presto che dal nuovo paese in cui si trovava aveva, più che altro, molto da imparare.
“Non vi erano né malattie nei campi, né problemi di fertilità del suolo” e decise così, come lui stesso scrive, di fare dei contadini e delle malattie i suoi insegnanti.
Con risultati straordinari. Tant’è che oggi l’eredità che ci ha lasciato nel suo “testamento” può a buon diritto essere considerata molto più moderna di tanta parte del pensiero contemporaneo in materia di agricoltura.

Voglio approfittare della pubblicazione del libro in italiano, curata da Slow Food Editore e in uscita in questi giorni (con il titolo “I diritti della terra. Alle radici dell’agricoltura naturale”), per provare a raccontare la grande attualità di questa figura che ha ispirato l’agricoltura biologica dei giorni nostri.

La constatazione da cui parte Sir Albert è che per mantenere un buon sistema agricolo è necessario non recare danno alla fertilità del terreno.
Se il concetto è di facile comprensione, tradurlo in pratica è altra cosa. In ogni ecosistema, dalle foreste ai mari, esiste un equilibrio capace di autoregolarsi.
L’elemento di cui si fa forza l’ambiente è la varietà e in natura non si hanno notizie di monoculture, bizzarra invenzione dell’uomo. Una grande biodiversità, invece, garantisce l’utilizzo efficiente di tutte le risorse.
Lo spreco, assunto a regola di vita nella società consumistica, non è contemplato perché ogni elemento non utilizzato da una specie è nutrimento per altre e tutto, fino all’ultima foglia, ritorna al terreno.

Lo stesso equilibrio manca nei campi coltivati con metodi intensivi, dove l’uomo sottrae risorse senza offrire un’adeguata contropartita ai terreni. L’avvento della civiltà dell’industria ha precipitato le cose. In passato sui campi pesava l’onere di sfamare i contadini e i loro animali, poi si è aggiunta una seconda fame da soddisfare, quella delle aree urbane in espansione.

Per la terra, però, calmare la fame delle macchine, in vorace attesa di materie prime da trasformare, si è rivelato ancora più impegnativo. A questo terzo, irrefrenabile, appetito portato dall’industrializzazione si è cercato di rimediare attraverso il ricorso (massiccio) ai concimi chimici.
Oltretutto disponibili in abbondanza: con la fine della Grande Guerra, la necessità di riconvertire l’industria bellica ha spinto alla ricerca di nuovi mercati e le fabbriche che durante il conflitto erano impegnate a fissare azoto per produrre esplosivo iniziarono a vendere fertilizzanti azotati agli agricoltori di tutto il mondo.

È quella che Howard definisce la “mentalità NPK”, mutuata dai simboli chimici di azoto, fosforo e potassio. L’intuizione geniale dell’agronomo di Sua Maestà britannica fu di comprendere che si trattava di un vero e proprio atto di guerra mosso contro la natura.

Se i fertilizzanti potevano dare l’illusione immediata di alleviare il lavoro dei contadini facendo crescere, con meno sforzo, piante più rigogliose, sul lungo periodo la pratica sarebbe diventata insostenibile. I processi di crescita non sarebbero mai più stati in equilibrio con quelli di decomposizione, portando alla depauperizzazione delle riserve naturali di humus contenute nei terreni.

L’attualità del pensiero di Howard risiede nell’aver svelato l’esistenza di un legame di causa-effetto tra la diffusione delle nuove tecniche di concimazione, l’indebolimento delle piante, divenute poco resistenti agli assalti dei parassiti, e l’inaridimento del suolo.
Nel disporsi all’ascolto dei saperi della tradizione indigena, Howard mostrò doti di umiltà non comuni per la sua epoca, quando gli imperi coloniali, pur prossimi al tracollo, esistevano ancora e la fede nel mito positivista del progresso era piuttosto radicata.

A 65 anni dalla prima pubblicazione, sta a noi raccogliere l’insegnamento contenuto in “An agricultural testament”, provando a coniugare saperi tradizionali e conoscenze scientifiche per fare in modo che il suolo che l’uomo coltiva continui a essere il “capitale reale delle nazioni”.

 
Slow food, 3 novembre 2005