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Cesare Pavese: il meriggio e il sacro

di Pierpaolo Pracca e Francesca Lagomarsini - 12/12/2006

Fonte: nova scripta


Pierpaolo Pracca e Francesca Lagomarsini

Cesare Pavese: il meriggio e il sacro


Ed. Nova Scripta, Genova. 2006





Mi è spesso accaduto di assaporare il meriggio nelle lunghe giornate estive in quella stessa campagna di Pavese allorquando, nella quasi irreale sospensione del tempo, ci si sente come avvolti dalle forze oscure della natura e i pensieri si perdono, indistinti, dietro ombre vaghe, nella rarefazione suprema dell’ora.
Molte delle sensazioni inconsce provate in quei momenti ritornano ora, chiarificate, grazie al brillante saggio di Pierpaolo Pracca e Francesca Lagomarsini che indaga il meriggio come via di accesso al sacro nell’opera di Cesare Pavese.
Mancava nella vasta bibliografia critica una ricerca di questo spessore a gettare luce su un aspetto indubbiamente cruciale e non ancora sufficientemente studiato dello scrittore di S.Stefano Belbo.
Come è gia fin troppo noto, il retroterra della campagna langhigiana rappresentò per Pavese la dimensione arcaica e primitiva da opporre alla modernità della città in cui viveva, sempre accompagnato, secondo la testimonianza di Franco Ferrarotti, da “un sottile disagio nel rapporto con i cittadini, con la loro facilità, la loro indifferenza ai luoghi, al paesaggio.”
Pavese indifferente al paesaggio, sia di città che di campagna, non lo fu mai. Se la città rappresentava la razionalità collegata al mondo della tecnica e della produzione, la campagna restò sempre il paese dei verdi misteri per il ragazzo che veniva d’estate, anche quando quel ragazzo, ormai diventato adulto, portava a compimento le intuizioni pre-razionali dell’infanzia. Sono i due volti del Piemonte:  Santo Stefano Belbo e Torino, la campagna ancestrale e la città aperta al mondo moderno.
Il dio-caprone è la divinità pagana che incarna lo spirito del selvaggio e la potenza degli istinti belluini. A poca distanza dalla città dove il sole dell’avvenire illumina l’avanzante progresso industriale, le rive e i rittani delle colline, impregnate del forte odore del caprone, custodiscono ancora la forza primordiale dell’istinto allo stato puro.
Per Pavese era indispensabile sapere che oltre l’orizzonte della modernità cittadina esisteva quest’altro mondo.
Dal suo laboratorio intellettuale, macinando e ruminando idee e pensieri, non solo lo pensava come sfondo naturale delle sue poesie, racconti, romanzi ma, appena poteva, ci faceva, secondo una sua espressione, una scappata.  Scappava cioè dalla modernità per tuffarsi nell’altra faccia del Piemonte, nel cuore di una rusticità per niente bucolica o idillica, del tutto fuori da ogni spirito arcadico.
Grande camminatore, amava percorrere le colline alla ricerca dello spirito dei luoghi anche se la lente con cui osservava era deformata dalle  riflessioni sul mito come teoria onnicomprensiva per interpretare la realtà.
Come immaginare uno scenario migliore per ricreare la mitologia classica facendo scendere dall’Olimpo gli dei per collocarli tra vigne e boschi, in un angolo appartato di campagna di una delle regioni più industrializzate d’Italia? L’amico Nuto cercava di fargli capire le problematiche sociali del mondo contadino, ma lo scrittore era più interessato alle credenze della luna, che gli aprivano insospettabili spiragli verso il mondo magico.
Estraneo alle speranze di palingenesi sociale adombrate dal Nuto, vedeva l’impegno politico come un tributo da pagare ai tempi ma di cui, appena possibile, era necessario liberarsi.
I suoi interessi, specie negli ultimi anni di lavoro editoriale, andavano nella direzione esattamente opposta: la sfera dell’irrazionale, del pensiero mitico, religioso, etnologico a cui consacrava ormai tutte le sue energie con la direzione della collana viola, vista come il fumo negli occhi dai custodi dell’ortodossia marxista.
In questa ottica la campagna delle Langhe diventava il luogo ideale dove trasporre le suggestioni di un uomo che da una parte guardava indietro, alla classicità, dall’altra guardava avanti, all’America e, oscillando tra questi due poli, accendeva la scintilla della sua arte.
Emblematico in questo senso il caso del suo primo romanzo Paesi tuoi che, mentre ricalca la lingua e le situazioni barbariche degli americani da lui tradotti, sottende già la dimensione tragico-mitica della campagna dove scorre il sangue di Gisella e in cui i falò non solo propiziano i raccolti, ma inceneriscono per purificare (l’incendio del Valino, il corpo bruciato di Santina) come nei sacrifici rituali dell’antica Grecia.
La sfera ritualistica, mitica, sacrale percorre in lungo e in largo l’opera di Pavese sovrapponendo alle sue campagne una ricca tramatura di simboli, epifanie, visioni magiche.
Questa dimensione lo ha salvato dalla contingenza storica e nel contempo lo ha isolato nel coevo panorama letterario, facendone un caso unico e ben distinto dalle correnti predominanti nella sua epoca.
Senza mai cadere nei tranelli di una visione puramente naturalistica o peggio ancora neo-realista dei luoghi e dei personaggi, gli autori di questo saggio riescono a coagulare intorno alle tematiche dell’ora meridiana tutta la ricchezza di un’opera letteraria che resiste, perché le sue prospettive vanno oltre il tempo lineare della storia.
Come le stagioni guidano il passo dei contadini così il calendario ciclico dell’eterno ritorno sostanzia i testi letti e analizzati con acribia da Pierpaolo Pracca e Francesca Lagomarsini.
Questa è l’altra lezione che impariamo dal loro lavoro: mai discostarsi dal testo dove si può leggere, in filigrana, anche la vita dell’autore. Per Pavese si è spesso fatto il contrario e così, mentre nasceva il mito della sua vita, si dimenticava il mito nella sua opera.
Dopo aver letto queste pagine possiamo tornare a rileggere Pavese con un nuovo spirito e a ripercorrere i suoi sentieri di campagna con idee più chiare, inseguendo una originale pista interpretativa.
Sono quindi lieto di aver potuto condividere con i due autori il gusto di questa ricerca che apre inedite prospettive e che, d’ora in avanti, appartiene a tutti i cultori e lettori dell’opera pavesiana.


Franco Vaccaneo
Direttore del Centro studi
Cesare Pavese di
S. Stefano Belbo