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Come il mezzo cinematografico ha cambiato il '900

di Pietro Montani - 13/12/2006

LA LINGUA IMMAGINARIA CHE NOI PARLIAMO

Nei bazar c'erano macchine automatiche in cui il flusso delle immagini era ottenuto mediante il movimento di una manovella
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Il cinema stesso è la creazione di un mondo, da cui il creatore ha enormi difficoltà a distaccarsi, e lo spettatore ammirato anche
Svolte. L'esperienza cinematografica ha mostrato di disporre fin dall'inizio di una potenza paragonabile all'invenzione della stampa
Intrecci. La capacità di far dialogare media diversi e diversi regimi di rappresentazione appartiene alla nuova cultura cinematografica

La forza del cinema, quella che gli ha permesso di cambiare molte cose nella nostra cultura e nella nostra esperienza quotidiana, sta tutta nella sua natura ibrida: a mezza strada tra una tecnica di riproduzione del mondo visibile e una forma evoluta dell´espressione figurativa, tra la registrazione dei fatti e la libera invenzione narrativa, tra l´industria e l´arte. Ciò gli valse, all´origine, numerosi sforzi di legittimazione estetica, ma anche, e per converso, la rivendicazione di un potere dissacrante capace di portare lo scompiglio nel sistema delle arti rovesciandone una volta per tutte i rituali della fruizione raccolta e contemplativa. È nell´ambito di questo spazio ibrido, tuttavia, che il cinema è cresciuto, ha brillantemente superato i "traumi" tecnici (il sonoro, il colore, il digitale) che hanno rischiato di pervertirne la natura e, soprattutto, ha saputo attivare la sua forza di penetrazione culturale realizzando un po´ dovunque profondi effetti di "cinematizzazione", come li definirono, usando la stessa parola, due cineasti e teorici degli anni Venti che la pensavano in modo diametralmente opposto: Ejzenstejn, l´artista di genio, attento al prestigio dell´invenzione formale e alla potenza del coinvolgimento emotivo e Vertov, il modesto artigiano, attento alla veridicità testimoniale dell´immagine e al distanziamento critico di chi la riceve.
Osserviamo la cosa dal primo punto di vista. Il cinema, forma evoluta della comunicazione per immagini (il montaggio fu - e resta - la sua arma più efficace), ha avuto l´effetto di "cinematizzare" le arti figurative e la letteratura, ma anche la nostra percezione comune e l´organizzazione della nostra memoria. Se noi guardiamo all´intera tradizione figurativa e narrativa a partire dal cinema possiamo infatti interpretarla come un interminabile tentativo di dar corso, con mezzi tecnici inadeguati, a un desiderio di complessità che il cinema ha a portata di mano: l´introduzione del tempo e della discontinuità nelle immagini fisse della pittura, la pluralità delle prospettive e delle voci narranti in letteratura. Così, la pittura e il romanzo moderni scoprirono questo desiderio inespresso e dovettero elaborarlo in proprio, confrontandosi, spesso in modo diretto e dichiarato, col cinema. Ma c´è di più: l´immagine cinematografica ha mostrato di disporre fin dall´inizio di una potenza mediale paragonabile solo all´invenzione della stampa: la nostra percezione (fu Benjamin a farlo notare) si è modificata sensibilmente dopo la comparsa del cinema (e della vita metropolitana), orientandosi verso una decifrazione sequenziale e discontinua del caotico mondo visibile. Un fatto davvero epocale, questo, che solo le nuove tecnologie dell´immagine, fluide e ipertestuali, stanno oggi mettendo in discussione. Il cinema insomma ci ha coinvolto nel profondo perché fin da sempre, senza saperlo, eravamo predisposti a prolungare la nostra percezione e la nostra memoria, la nostra immaginazione e le nostre emozioni in un artefatto tecnico capace di dispiegarle al meglio. Il cinema come arte si è nutrito precisamente di questa attitudine, e l´ha a sua volta nutrita.
Ma se ora ci volgiamo all´altro senso della "cinematizzazione", quello pensato da Vertov, scopriamo qualcosa di ancor più attuale e inquietante. Cinematizzazione, infatti, è da intendere come il corrispettivo di "alfabetizzazione", come l´istruzione di uno spettatore competente, in grado non solo di ricevere immagini tecniche ma anche di produrle in proprio e di metterle in circolazione. Quando parlava di una "cinematizzazione delle masse", dunque, Vertov stava anticipando un fenomeno che solo oggi è divenuto accessibile e che è sempre più massicciamente praticato grazie all´uso di videocamere digitali, webcam e telefonini palmari collegabili in Rete e aperti a diverse forme di interattività: dal controllo politico e testimoniale (è il caso delle violazioni di diritti perpetrate al G8 di Genova e dei cento occhi elettronici che le hanno restituite alla giustizia) alla vuota chiacchiera esistenziale dei Blog fino al degrado voyeristico (è il caso del materiale pornografico accessibile in rete) e all´espressione inelaborata della pura e semplice barbarie (è il caso delle torture inflitte a un ragazzo autistico in una scuola torinese e poi messe in Rete).
Si dirà che questa cinematizzazione, di cui non riusciamo ancora a valutare la portata antropologica e le conseguenze giuridiche, non ha più niente a che fare col cinema. Ma non è così. Si direbbe, piuttosto, che è proprio in questo inedito - e inquietante - spazio di contaminazione tra la fluidità e l´immediatezza della registrazione digitale e la disciplina di un severo controllo formale che il cinema è oggi tenuto a mettere alla prova, e a far valere, la sua capacità di inventare nuove modalità di esperienza comunicativa e di elaborazione del senso. Gli esempi non mancano: da Abbas Kiarostami a Michael Moore, dall´ultimo Spike Lee all´ultimo Bellocchio. In tutti questi casi, pur nella grande differenza nel trattamento dell´immagine, sembra che l´aspetto comune sia da vedere nella natura intermediale della nuova cultura cinematografica, nella sua capacità, cioè, di far dialogare media diversi e diversi regimi della rappresentazione: la testimonianza e l´invenzione visionaria, la presa diretta sulle cose e la fatica del distanziamento critico. È di questo che la civiltà del cinema, se vuole continuare a espandersi, sembra oggi avere più bisogno.