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Quel Gesù ridotto all'utopia

di Eugenio Corsini - 13/12/2006

Il volume di Augias e Pesce vede Cristo come un profeta «apocalittico» dell’imminente Regno di Dio

 

Secondo i due autori il Messia attendeva la rivelazione di un nuovo ordine di pace,
giustizia e armonia cosmica.Ma questa idea contrasta con le fonti neotestamentarieCaduta l’accusa di «deicidio» verso gli ebrei, nel libro si vede in Pilato l’unico responsabile: che sia uno spunto sibillino per alimentare un odio verso i successori di Roma?

 

Vorrei esporre alcune considerazioni a proposito della recensione del padre Raniero Cantalamessa relativa al saggio Inchiesta su Gesù, di Corrado Augias e Mauro Pesce (Mondadori), pubblicata su Avvenire sabato 18 novembre. Di quello scritto mi sono occupato brevemente sul settimanale cattolico torinese Il nostro tempo (8 ottobre), vedendovi un'espressione di quel processo di «de-ellenizzazione del cristianesimo» che, nella sua lectio di Ratisbona, Benedetto XVI aveva denunciato essere in atto negli studi relativi al Nuovo Testamento elaborati nell'Europa occidentale a partire dal secolo XVII e culminati nella cosiddetta scuola protestante liberale del secolo XIX, con robuste propaggini in quello successivo, fino ai nostri giorni.

Frutto di questo processo di de-ellenizzazione delle fonti neotestamentarie era l'emergere della figura di un Gesù radicalmente diverso da quello proposto dalla tradizione cristiana successiva. Secondo questa ricostruzione egli fu un ebreo di stretta osservanza, che non pensò minimamente all'abolizione della legge e del culto mosaici, meno che mai intese fondare una nuova religione né concepì la sua morte violenta come un'espiazione per i peccati dell'umanità, anche perché era convinto che la sua missione fosse assolutamente circoscritta "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15,24), ragione per cui sia l'evangelizzazione stessa (annunzio della "buona notizia", cioè della redenzione dell'umanità e della sua riconciliazione con Dio) sia la sua diffusione fra tutte le genti sarebbero da attribuire alle convinzioni e alle interpretazioni degli autori degli scritti neotestamentari, segnatamente dei vangeli. Dai quali tuttavia, in mancanza di altri documenti più attendibili, il professor Pesce, stimolato dal suo interlocutore, è costretto a partire per la ricostruzione del suo "Gesù ebreo e non cristiano", sceverando tra i dati che risalirebbero, in maniera autentica, al Gesù "storico" e quelli che dipenderebbero dall'interpretazion e dello scriba.
Questo atteggiamento mentale da parte di uno studioso che opera su quel tipo di fonti mi aveva piuttosto sorpreso, ma, non essendo io versato in questo tipo di esegesi a carattere storico, mi sono limitato, in quell'intervento sul settimanale torinese, a occuparmi di un aspetto della ricostruzione di questo Gesù "storico": quella relativa alla sua prospettiva circa il futuro. Ecco quanto si dice nell'Inchiesta (p. 68): «Gesù attendeva l'avvento imminente del regno di Dio che avrebbe dato inizio a un periodo di giustizia, di uguaglianza, di benessere e di pace non solo fra gli uomini, ma con la stessa natura, con gli animali». L'attesa (o forse meglio sarebbe dire l'annunzio) del regno di Dio da parte di Gesù si può dedurre da molti passi dei vangeli (soprattutto sinottici). Quanto all'imminenza di questo avvento, essa è affermata talora in maniera esplicita (Mc 9,1 e par; cfr. anche Lc 10,10; Mt 10,7). Da altre espressioni dei sinottici il regno di Dio sembra già presente e operante. Il vangelo di Luca, infatti, mette in bocca a Gesù queste parole: "La Legge e i Profeti sono fino a Giovanni, da allora il regno di Dio è evengelizzato" (Lc 16,16); in maniera ancora più esplicita, sempre in Luca, rispondendo a una domanda di Farisei, egli afferma: "Il regno di Dio non viene in modo che lo si possa osservare; né si dirà: eccolo qui o là, perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17, 20-21). Il discorso sull'avvento del regno diventa un rebus quasi indecifrabile se viene rapportato alla cronologia dei cosiddetti discorsi escatologici riferiti dai sinottici (Mc 13, 1-37; Mt 24, 1-35; Lc 21, 5-38), intesi comunemente come il preannuncio della parusia, cioè del ritorno di Gesù Cristo in terra, preludio alla fine del mondo. Tutto ciò però sembra dover essere preceduto da guerre, persecuzioni contro i seguaci di Gesù, diffusione del vangelo su tutta la terra, apostasie, sconvolgimenti cosmici, e quindi venuta del Figlio dell'uomo sulle nubi del ci elo, secondo la visione di Daniele, raduno degli eletti. Sembra un elenco di accadimenti che si sdipana in una serie temporale verosimilmente molto lunga. Eppure sia Marco sia Matteo mettono in bocca a Gesù la singolare affermazione che "tutte queste cose" accadranno nel corso di "questa generazione", di quella a lui contemporanea (Mc 13,30; Mt 24,34). Di più: in Matteo e in Marco Gesù dà ai suoi discepoli il "segno" al verificarsi del quale essi dovranno abbandonare Gerusalemme e la Giudea: quando vedranno "l'abominio della desolazione, predetto dal profeta Daniele (9,27), stare dove non deve (cioè, nel Tempio)", e in Luca, in maniera ancora più precisa, Gesù indica come segno per la fuga l'inizio dell'assedio di Gerusalemme a opera dei Romani (Lc 21,20).

Anche se gli autori dell'Inchiesta non lo dicono, è assai probabile che soprattutto sulla base dei discorsi escatologici dei sinottici essi abbiano attribuito a Gesù la convinzione dell'imminenza dell'avvento del regno di Dio (convinzione che egli condivideva con Giovanni Battista). E in effetti è nel corso di "questa generazione" che deve verificarsi il "segno" per eccellenza, cioè la profanazione del Tempio ("l'abominio della desolazione") che in Daniele rappresenta il culmine della persecuzione del re Antioco IV di Siria contro gli Ebrei, la loro religione e il loro culto, a cui sarebbe seguita la liberazione del popolo ebraico e la restaurazione definitiva del suo regno a opera di un inviato dall'alto che il profeta, in un'altra celebre visione, presenta come "uno simile a Figlio d'uomo veniente sulle nubi del cielo" (Dn 7,12), un'immagine, com'è noto, puntualmente ripresa nei discorsi escatologici. Quanto al modo con cui il regno si sarebbe instaurato, Gesù, secondo i due autori, avrebbe escluso sia la conquista militare sia quella politica. Su questo punto il suo messaggio "è sostanzialmente diverso dal cristianesimo successivo" (p.55).

Èun'affermazione, questa, che però non vale sicuramente per i pri mi secoli cristiani, in cui l'evangelizzazione non si è svolta né con i mezzi politici né con i mezzi militari. Quanto ai contenuti del regno di Dio, gli autori dell'Inchiesta, tenendo presente l'acuta sensibilità di Gesù verso le fasce degli oppressi, dei diseredati e degli umili di ogni specie, ritengono che egli attendesse a breve termine un ribaltamento della situazione esistente e l'instaurazione, qui e ora, di un nuovo ordine, all'insegna della giustizia, della pace e dell'armonia cosmica. Questa ricostruzione del pensiero di Gesù riguardo al regno di Dio prescinde sensibilmente da quelle che sono le fonti neotestamentarie, a cominciare dai vangeli. Nel vangelo di Luca, ad esempio, nel suo discorso escatologico Gesù, dopo aver parlato dei fenomeni cosmici che accompagnano la venuta del Figlio dell'uomo, aggiunge: "Quando queste cose avranno inizio, alzatevi e sollevate le vostre teste, perché la vostra liberazione (altri: redenzione) è vicina" (Lc 21, 28); in quello di Matteo alla venuta del Figlio dell'uomo segue il raduno degli eletti a opera degli angeli (Mt 24, 30-31); in Marco il discorso di Gesù si chiude con un invito alla vigilanza, perché il tempo della sua venuta è assolutamente incerto. Nessun annunzio di un regno di Dio sulla terra nei discorsi escatologici, comunque essi vengano intesi: annunzio del ritorno di Cristo e della fine del mondo, come vuole l'interpretazione tradizionale, o annuncio della drammatica e sconvolgente conclusione della vicenda terrena di Gesù, che però proprio nella sua morte rivela al centurione pagano la sua natura di Figlio di Dio (cfr. Mc 15,39).
Nonostante il silenzio o il comportamento contraddittorio delle fonti evangeliche su questo punto, gli autori dell'Inchiesta non mostrano dubbi sulla natura e il carattere del regno di Dio atteso da Gesù e, anzi, quasi a conclusione della ricerca il professor Pesce si sente in grado di precisare altri particolari a questo riguardo: «Gesù aspetta l'avvento del regno di Dio che avrà luogo in due modi diversi. Quando arriverà il regno di Dio, si avrà un giudizio universale, ma anche un periodo intermedio in cui il messia regnerà e la terra sarà rinnovata: una specie di sogno utopico in cui le forze della natura diventeranno benefiche, ogni contrasto avrà fine» (p. 220). Il "sogno utopico", che viene qui, un po' apoditticamente per la verità, attribuito a Gesù, oltre che in certi scritti "apocalittici" (IV Esdra, 2 Libro di Baruch), in quelli appartenenti al Nuovo Testamento trova un riscontro puntuale soltanto nel celeberrimo capitolo XX dell'Apocalisse di Giovanni, interpretato però all'insegna di un rigoroso millenarismo, quale oggi si ritrova soltanto in certe correnti e sette di carattere fondamentalista. Confesso di esser rimasto piuttosto scioccato da questa utilizzazione dell'Apocalisse, liquidata nella parte iniziale di questa ricerca come una "escatologia allucinata" (p. 39), e quindi, evidentemente, come un documento non idoneo per la ricostruzione "storica" del personaggio Gesù. E già questo rifiuto mi pare strano, trattandosi di un testo che, a prescindere dall'enorme influsso esercitato sulla cultura europea, particolarmente quella occidentale, è stato composto a non molta distanza di tempo dagli eventi riguardanti la vicenda terrena di Gesù, il cui autore si chiama Giovanni, che se non era il "discepolo amato da Gesù", era sicuramente qualcuno che ne aveva raccolto la "testimonianza".

Se poi a questa testimonianza non è stato dato e ancora dai più non si dà valore storico, è perché si è pensato che l'autore, dando per scontato che Gesù fosse riconosciuto da tutti come il Messia venuto ad adempiere le profezie che lo riguardavano, si piegasse commosso sul presente di tribolazione e persecuzione, in cui egli e i suoi "fratelli" si trovavano, e levasse il suo sguardo profetico verso un futuro in cui Gesù Cristo sarebbe tornato trionfante a distruggere i nemici e a instaurare il regno di Dio. Come ho tentato di dimostrare in altre sedi, lo scopo dell'autore dell'Apocalisse era di provare, alla luce delle visioni degli antichi profeti (soprattutto Daniele, Ezechiele, Isaia), che Gesù era il Messia da loro annunciato e aveva realizzato il contenuto delle loro profezie messianiche mediante la sua morte seguita dalla resurrezione. Autori della sua morte, gli esponenti di una triade malvagia : il "Dragone" (risalito per questo scopo dall'abisso, dove era stato incatenato da un "angelo forte"), la "Bestia" (il potere imperiale romano, rappresentato dal procuratore Pilato) e il "falso profeta" (Gerusalemme, indicata nel libro come «la prostituta, quella grande», «Babilonia, la grande», cioè gli esponenti religiosi e civili del popolo ebraico, venuti meno al loro compito di custodi della scrittura e delle promesse messianiche in essa contenute).

Se questo messaggio del libro di Giovanni fosse stato inteso nel suo senso squisitamente "cristologico" (ed "ecclesiologico"!) - come credo sia accaduto nei primi secoli cristiani - forse non avrebbe avuto il drammatico peso e le nefaste conseguenze che ha avuto, nel mondo cristiano, la ricerca dei responsabili della morte di Gesù. Per lunghi secoli di essa furono ritenuti responsabili i "giudei", e ciò ha sicuramente contribuito in maniera preponderante, anche se non esclusiva, alla diffusione dell'antisemitismo nel mondo cristiano, confluito nell'immane tragedia della Shoah. Dopo, le cose sono radicalmente cambiate all'interno sia delle Chiese cristiane (per quella cattolica, con il Concilio Vaticano II) sia della ricerca storica.
Nell'Inchiesta di Augias e Pesce il ribaltamento dell'accusa è totale, in quanto viene fatta ricadere esclusivamente sul governatore romano, Ponzio Pilato. In ordine a questa tesi, gli autori accusano le fonti evangeliche di avere calcato la mano sull'ostilità da parte dei "giudei", tentando, in qualche modo, di scagionare l'autorità romana, e ciò per ingraziarsene il favore in vista della diffusione del proprio movimen to religioso.
È questo il punto centrale a cui mira la critica del padre Cantalamessa nella sua elaboratissima recensione del saggio di Augias e Pesce. Egli parte dalla scelta dei testi che i due autori hanno messo alla base della loro ricerca, mostrando una certa propensione per i testi cristiani apocrifi recentemente scoperti, in quanto essi sarebbero in grado di fornirci su Gesù aspetti trascurati dai vangeli canonici. Cantalamessa ha buon gioco nel dimostrare: primo, che questi testi erano in gran parte già conosciuti; secondo, che tutti sono posteriori ai vangeli canonici. Quanto alla presunta esclusiva responsabilità di Pilato nella condanna di Gesù, non gli è difficile dimostrare che questa tesi è frutto di un partito preso, in quanto non soltanto la responsabilità dei giudei è affermata esplicitamente da Paolo (1 Ts 2,15), ma in tutti i vangeli è attestato, "si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sul puro e sull'impuro". Meno persuasivo, e addirittura possibile fonte di nuovi fraintendimenti e conflitti, mi pare il tentativo di dimostrare il carattere antiromano degli scritti neotestamentari, richiamando "l'invettiva feroce" dell'Apocalisse contro Roma, identificata con "Babilonia", "la prostituta". A parte il fatto che tale identificazione è stata messa in discussione già nel passato e sempre più oggi, e con solidi argomenti (si veda l'edizione di Edmondo Lupieri, Mondadori 1999), a preoccuparmi è il fatto che questo presunto odio fanatico dell'Apocalisse contro Roma, come centro di ogni nequizia, simbolo del potere oppressivo e crudele, è stato usato lungo i secoli, e ancora di recente, come spunto per l'odio contro i presunti successori o sostituti di Roma.