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Giovanni Pascoli spiega la metafora del Veltro dantesco

di Giovanni Pascoli - 14/12/2006

Fonte: Antonio Grego


IL CORTO ANDARE
La lonza impediva il cammino di Dante; ma egli già bene sperava. E allora
gli venne contra il leone, e, subito dopo, la lupa. A Virgilio Dante indica
la lupa, come la bestia per cui si volse: a Dante Virgilio parla di quella
fiera come di tale che gli tolse «il corto andar del bel monte». [140] Al
cenno di Dante che gliela mostrava, l’anima cortese mantovana aveva
esclamato, dopo averlo veduto lagrimare:

A te convien tenere altro viaggio. [141]

Dante era uscito dal profondo della selva; non era più nella notte; non era
più immerso nel sonno. Il suo animo vedeva ciò da cui doveva fuggire e ciò a
cui doveva cacciare: dalla selva, verso il colle. Era mattino: il sole
illuminava il bel monte. Dante aveva riacquistata la prudenza.

La lonza è l’incontinenza di concupiscibile e d’irascibile. Dante ha
speranza di vincerla. È dunque armato della virtù o delle virtù che ci
vogliono contro quella. In vero «aveva una corda intorno cinta». [142] Dice
altrove [143] che l’appetito, che concupiscibile e irascibile si chiama, è
guidato dalla ragione con freno e con isproni; e il freno si chiama
temperanza e lo sprone fortezza. In vero Dante era nel mezzo della vita e
nel bel mezzo della gioventù; nella qual gioventù la «nobile» natura si fa
«temperata e forte». Uscendo dalla selva, da vile era divenuto non vile,
cioè nobile. Egli aveva contro la lonza, che è concupiscenza e tristizia, il
freno e lo sprone, la temperanza e la fortezza. Dice infatti che bene
sperava di lei.

Ma ecco le altre due bestie: il leone e la lupa. Esse sono la violenza e la
frode, cioè la malizia. E della malizia ingiuria è il fine. Vale a dire,
ella è l’ingiustizia, come la chiama l’autore di Dante. Contro l’ingiustizia
che può essere raffigurata dalla sola lupa, perché questa comprende, se non
altro, anche il leone, qual virtù era necessaria? La giustizia.

Dall’ingiustizia Dante è ripinto verso la selva della tenebra e della
servitù. Dunque Dante non aveva questa virtù della giustizia, come aveva le
altre tre? Egli l’aveva. Egli piange e s’attrista arretrando avanti la lupa,
egli domanda aiuto contro lei, egli grida, egli lacrima. Anzi, nel vedere il
suo lacrimare, Virgilio gli propone «altro viaggio». [144] Questi sono segni
di orrore per la lupa, cioè per l’ingiustizia: dunque, segni della virtù di
giustizia.

Ma si dirà: l’essere prima ripinto e poi tanto impedito da essere ucciso
dalla bestia che simboleggia l’ingiustizia, significa simbolicamente essere
ingiusti. No. Dante esprime in un modo, come l’ingiustizia faccia proseliti,
in un altro, come faccia vittime. Fa proseliti ammogliandosi:

Molti son gli animali, a cui s’ammoglia,

e più saranno ancora. [145]

La lupa è altra volta una fuia, [146] e il veltro, per cui la lupa deve
discedere ed essere morta ed essere rimessa nell’inferno, è «un cinquecento
dieci e cinque». [147] Anche questa fuia è la frode, o più in genere, la
malizia o l’ingiustizia. Ebbene, il gigante «che con lei delinque» non è uno
a cui ella, lupa e fuia, s’ammoglia? Esso è ingiusto o malizioso o
frodolento; non quelli che la meretrice, con sue arti, diserti e derubi.
[148] E poi, ammogliarsi significa diventar donna ossia domina: dominare,
quindi. Ed è questa la parola che Dante accoppia a cupidità» altrove, per
significare appunto la lupa dell’inferno e del purgatorio, e la fuia che
bacia il gigante. [149] E qua e là della cupidigia egli fa una sirena o una
meretrice che ammalia. [150] Cupido dunque e perciò ingiusto sarà chi resta
ammaliato da lei. Quelli ch’essa impedisce e uccide sono le sue vittime. E
Dante dunque è o sarebbe sua vittima, non suo seguace.

Vero è che noi non possiamo figurarci come con la lupa il viatore avrebbe
potuto divenire ingiusto; mentre con la lonza possiamo imaginarci come
avrebbe potuto divenire incontinente. La lonza lo avrebbe assonnato. La
lupa? Lo avrebbe sedotto: sta bene: ma come? Nemmen Dante potrebbe
rispondere; perché in verità non vedeva in lei questa faccia, ora. Quando la
vide, ne fece una meretrice, la quale, come possa sedurre, si capisce bene:
è una lupa essa, ma non ha quattro gambe. E tuttavia anche qui col dire
«animali» fuor di rima, invece che bruti o fiere o belve o bestie, mostra
riguardo per questa faccia del suo simbolo.

Del resto tra lonza e le altre due bestie si deve attendere una differenza.
La lonza, se è, come è, incontinenza, fa sua preda di chi fa suo seguace: la
lupa, se è, come è, malizia, fa proseliti in un modo e vittime in un altro,
e quali ammalia e quali uccide. E anche le virtù opposte a quelle due
«disposizioni» operano diversamente: la temperanza e fortezza impediscono di
diventare seguace e nel tempo stesso preda dell’incontinenza; la giustizia,
virtù, impedisce che si diventi seguace d’ingiustizia, non impedisce, anzi
agevola, il divenirne vittima. È chiaro. Tuttavia ricordo che i filosofi
affermano che le virtù morali valgono contro due nostri impedimenti, tra
loro ben diversi, la veemenza delle passioni e i tumulti esterni: un
impedimento che è in noi e un altro che è fuori di noi; e che il primo
possono le virtù togliere, il secondo non possono se non diminuire. [151]

Dante è per vincere la lonza, è impaurito dal leone, è ripinto dalla lupa.
Contro esse, dopo che ebbe riacquistata la prudenza, esercitò le altre ire
virtù morali: temperanza, fortezza e giustizia.

Ciò nel «corto andare» verso il bel monte. Quell’esercizio è dunque l’uso
pratico dell’animo, il qual uso «si è operare per noi vertuosamcnte, cioè
onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia».
[152]Ché invero sono nella vita «due diversi cammini buoni e ottimi...»: l’uno
è della vita attiva. [153] E l’andar di Dante fu dunque questo cammino. E
per questo cammino si perviene «a buona felicità», sebbene di felicità ce ne
sia un’altra ottima. E il bel monte, dunque, a cui conduceva quel cammino,
sarà questa buona felicità: buona e non ottima. Ché «l’umana natura non pure
una beatitudine ha, ma due; siccome quella della vita civile, e quella della
contemplativa»; [154] e di questa beatitudine «della vita attiva, cioè
civile, nel governo del mondo» l’altra «è più eccellente e divina». E chi ha
l’una, cioè «la beatitudine del governare», non può «e l’altra avere».
Dunque Dante, con quel «corto andare» sarebbe pervenuto alla beatitudine
della vita attiva cioè civile. Impedito quello, «non c’era altra via» [155]
che il cammino della vita contemplativa; ché chi ha l’una beatitudine, non
può l’altra avere: si escludono: o l’una o l’altra. Perciò Virgilio, vedendo
l’ingiustizia, per la quale Dante gridava, pensa e dice, vedute le sue
lacrime:

A te convien tenere altro viaggio. [156]

Cioè, l’altro.

II
Dante era nel cammino della vita attiva o civile. Fuori del passo della
selva, aveva trovato una «piaggia diserta». [157] Nella «diserta piaggia» lo
afferma impedito Beatrice e già volto per paura e già caduto sì basso. [158]
Se la lonza gli apparisce al cominciar dell’erta, e forse più su il leone
(ché il poeta per l’erta continuò, contro la lonza, il suo cammino), e
perciò la lupa; all’ultimo, per altro, quando rovinava in basso loco e delle
altre bestie non ragiona più, all’ultimo, e perciò di nuovo «nella diserta
piaggia», egli vedeva innanzi sé la lupa. La selva e la lupa, avanti e
dietro sé. L’oscurità e la viltà e la nullità della vita, da una parte; l’ingiustizia
o malizia dall’altra. In tale condizione si trovò Dante per aver ripreso
«via per la piaggia diserta».

Nel purgatorio egli trova uno che dice di sé:

del mondo seppi, e quel valore amai

al quale ha or ciascun disteso l’arco. [159]

Il «mondo» è la vita attiva o civile. Invero due strade ha l’uomo, «e del
mondo e di Deo». [160] Quella di Deo è il cammino della vita contemplativa,
quella del mondo è quello della vita attiva o civile, la quale ci conduce
«nel governo del mondo», appunto. Il valore è il complesso delle virtù, il
cui uso è necessario per quella vita o per quel cammino. Salir su sarebbe
prova di valore. «Or va su tu, che sei valente» dice Belacqua. [161] A Dante
il suo valore non giovò, ed era ripinto, dalla bestia senza pace, là per la
piaggia diserta. Quella bestia gl’impediva la strada del mondo.

Ora a Marco Lombardo Dante parla, ripetendo e chiarendo le parole di lui,
quelle intorno al mondo e al valore. Dice:

Lo mondo è ben così tutto diserto

d’ogni virtute, come tu mi suone,

e di malizia gravido e coperto. [162]

La piaggia diserta, su cui si avanza a poco a poco la lupa, è dunque il
mondo coperto di malizia: malizia o ingiustizia o frode che è la stessa
cosa; malizia o eupidità, che tornano alla stessa cosa, come effetto a
causa, causa ad effetto. Chi avrebbe potuto sbrattare dal mondo, ossia dal
cammino della vita attiva, la malizia, e fare che rifiorissero nel deserto
le virtù, che ad essa vita attiva si convengono?

Sono esse le quattro virtù cardinali, tra cui una «ordina noi ad amare e
operare dirittura in tutte cose», un’altra è «conducitrice delle morali
virtù»: [163] la giustizia e la prudenza. Abbiamo veduto che la prudenza è
figurata nella luna tonda, che non nocque a Dante per la selva. La giustizia
è figurata in quello da cui la luna riceveva la luce di grazia; nel sole che
illuminava il colle, sul mattino di quella notte. Il pianeta

che mena dritto altrui per ogni calle [164]

è Dio giustificante, [165] Dio che infonde la giustizia, la quale ci ordina
«a operare dirittura in tutte cose», come a dire, ci mena dritti per ogni
calle. L’una e l’altra gli uomini hanno bisogno di trovare quasi
architectonice nel principe. [166] In loro hanno da essere, le due virtù, in
modo secondario e quasi amministrativo o esecutivo; ma se non c’è l’architetto,
le virtù dei mastri e de’ manovali, per quanto esperti e attenti, non
riescono a bene costruire l’edifizio sociale. Dante, nel suo poema e nelle
altre opere, esprime molte volte questo concetto, ora chiarendolo dal punto
della prudenza, ora da quello della giustizia, e riuscendo sempre al
medesimo. Quando egli dice che il mondo deve avere il suo sole, [167] che
gli faccia vedere la strada, ha di mira la superior prudenza, la prudenza
regnativa; quando fa dire a Beatrice che l’alto Enrico verrà «a drizzare
Italia», [168] ha di mira quella superior giustizia che si chiama legale; la
giustizia che mena dritto o drizza. Tutte e due ha nel pensiero quando fa
esporre da Marco Lombardo le vicende dell’anima semplicetta, [169] la quale

di picciol bene in pria sente sapore;

quivi s’inganna, e retro ad esso corre,

se guida o fren non torce suo amore.

La guida è la prudenza del principe; il freno, la giustizia legale, che fa
pure capo al principe. Il fieno è la giustizia legale:

onde convenne legge per fren porre;

la guida è la prudenza regnativa:

convenne rege aver che discernesse

della vera cittade almen la torre.

Questo freno e questa guida, nella strada del mondo, non può essere che l’imperatore.
Non può essere il papa;

però che il pastor che precede

ruminar può, ma non ha l’unghie fisse;

cioè può meditare le scritture e sanamente intenderle, ma non ha l’uffizio e
la virtù di discernere il bene dal male; cioè la prudenza, la prudenza che
appartiene all’uso pratico dell’animo: [170] ha quanti lumi si vogliano, per
la vita spirituale; non ha quello per la vita attiva o civile: tanto che pur
esso, difettando del lume, non ha il freno;

perché la gente, che sua guida vede

pure a quel ben ferire, ond’ella è ghiotta,

di quel si pasce, e più oltre non chiede.

La gente la quale vede che il suo pastore è dominato dalla cupidità e se ne
lascia condurre, lo imita. Ora la cupidità contrasta massimamente alla
giustizia. Dunque il pastore non ha prudenza regnativa né giustizia legale.

La cupidità contrasta massimamente alla giustizia. Così Dante afferma,
dietro Aristotile. [171] Togliendo al tutto quella, nulla resta di contrario
alla giustizia. [172] In verità la cupidità [173] è l’avarizia che germina
in malizia o ingiustizia. Tolto il mal principio, non ci sarà più il tristo
effetto: l’ingiustizia. E l’ingiustizia è la lupa. Ed essa è nella piaggia
diserta, nel mondo diserto d’ogni virtù.

Ma verrà un Veltro, che la farà morire. Che altro può essere se non un
imperatore? L’imperatore non può avere cupidità «poiché la sua giurisdizione
ha confine soltanto con l’oceano»; [174] e non può essere cupidità dove non
c’è che cosa desiderare. E così il Veltro che è l’opposto della lupa, non
ciba terra né peltro, cioè non cerca, come la cupidità, aliena, siano
provincie, siano ricchezze. E così l’imperatore può fare dominante la
giustizia, che solo sotto lui è potissima. Econ la giustizia la pace. Perché
tra i beni dell’uomo il principale è vivere in pace, e questo opera, più o
meglio, la giustizia. [175] Or la lupa è senza pace, come quella che è
ingiustizia, e opera, quindi, il contrario di giustizia: questa dà, quella
toglie la pace. Or non è il Veltro che può rimettere nell’inferno la bestia
nemica di pace? E dunque il Veltro è l’imperatore. E la pace egli la vorrà,
ché egli ha la virtù contraria alla cupidigia che cerca l’altrui: ha la
carità o amore che, spregiando le altre cose tutte, cerca Dio e l’uomo e per
conseguenza il ben dell’uomo: ha insomma quell’amore che drittamente spira,
cioè recta dilectio, che si liqua in volontà di bene; il contrario di quella
cupidità che si liqua in volontà d’ingiuria o di male. Ha quest’amore l’imperatore;
e non il Veltro? Egli ciberà, con sapienza e virtù, amore. E l’imperatore
solo può come la giustizia così avere il giudicio sopra gli altri. E il
giudicio è atto di sapienza, e la potestà giudiciaria si conviene al Cristo
che è la somma sapienza; [176] onde tanto è dire che l’imperatore può sol
esse avere il giudicio, quanto dire che può sol esso aver la sapienza. E non
ha la sapienza il Veltro? Egli, con amore e virtù, ciberà sapienza. E l’imperatore
solo può esercitare la giustizia, perché egli non ha contrarietà nel velle,
ché egli vuole, come niun altro, avendo la volontà libera da ogni cupidità;
ma non basta: egli non ha contrarietà nel posse, essendo egli il più potente
di tutti. E non ha anche il Veltro potenza? Sì; perché egli ciba sapienza e
amore e virtute; e questa virtute è come dire facoltà o potestà. [177]
Ancora: la lupa ripingeva Dante «là dove il sol tace»; [178] dove non è
libero arbitrio; nella selva della servitù. Chi avrebbe liberato Dante da
codesto ritorno al servaggio? Intendo, senza mutar cammino. Il Veltro.
Ebbene, l’imperatore è colui che guarda la libertà degli uomini; la libertà,
che è il maggior dono di Dio, la libertà cui avendo, il genere umano è
disposto al meglio. [179] E il genere umano solo sotto l’impero del Monarca
è libero, ché solo allora è per sé e non per altrui; solo allora si drizzano
le politiae iniquae. Infine come la lupa è bramosa dell’altrui e ciba terra
e metallo, mentre il profetato Veltro è senza cupidità; e come la lupa
significa il disordine nell’intelletto e nel volere e nell’appetito, mentre
il Veltro è sapiente e bene avvolontato e bene disposto delle potenze della
sua anima sensitiva; e come la lupa uccide mentre il Veltro salva; così al
modo che la lupa vien dall’inferno, il Veltro viene dal cielo. Non lo chiede
al cielo Dante?

O ciel, nel cui girar par che si creda

le condition di quaggiù trasmutarsi,

quando verrà per cui questa disceda? [180]

questa, cioè la lupa antica. E non è messo da Dio il «cinquecento diece e
cinque» [181] che deve ancidere la fuia, la quale è una lupa, è la lupa? E
stelle portano il tempo del dux, come è messo da Dio: vien dal cielo. Onde
si fa molto probabile l’antica spiegazione del verso

e sua nation sarà tra feltro e feltro, [182]

che il Lanco, per esempio, interpreta «tra cielo e cielo, ciò vuol dire per
constellazione».

Ora che da Dio sia l’autorità imperiale, e che «quel sommo ufficiale» che è
l’imperatore, sia eletto «da quel consiglio che per tutti provvede, cioè
Iddio», e che il Romano Imperio avesse da Dio «non solamente speziale
nascimento, ma speziale processo»; è concetto così noto di Dante, che basta
accennarlo. [183]

Tratto da: Giovanni Pascoli "SOTTO IL VELAME - SAGGIO DI UN’INTERPRETAZIONE
GENERALE DEL POEMA SACRO [1900]"