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Desertificazione, il 30% del territorio italiano a rischio

di Sabrina Lauricella - 15/12/2006

 


Acqua, risorsa ‘preziosa’ per il futuro

L’acqua è stata per lungo tempo considerata anche dagli economisti una risorsa abbondante e disponibile in modo illimitato. Ciò ha portato ad una gestione pubblica della risorsa, basata sulla continua espansione dell’offerta tramite una capillare (ma non sempre efficiente) diffusione delle infrastrutture necessarie sul territorio, in modo da garantire a tutti la possibilità di accesso a questa preziosa risorsa. Questa visione però, potrebbe essere rivista alla luce dell’aumento dell’inquinamento idrico e di fronte ai cambiamenti climatici degli ultimi anni che hanno portato ad una più accentuata stagionalizzazione delle piogge e all’aumento dei periodi di siccità, con la crescita delle zone a rischio desertificazione. Il problema del deficit idrico, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non riguarda solamente i paesi dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina, ma anche per i paesi più sviluppati, compresa l’Europa e il Nord America. A volte per motivi di reale carenza della risorsa altre, purtroppo, per cattiva gestione della stessa e per il prevalere degli interessi economici su quelli sociali.
Nel gennaio 1992, i governi dei principali Paesi del mondo e le organizzazioni internazionali, gli stessi che diedero vita poco tempo dopo ad un documento per la gestione sostenibile dell’ecosistema mondiale nel XXI secolo (l’Agenda 21), si riunirono a Dublino alla
International Conference on Water and the Environment (ICWE), dove affermarono per la prima volta il principio che l’acqua è una risorsa scarsa, riconoscendo così ad essa un valore economico. Come bene economico, insomma, l’acqua deve essere gestita ponendo fine agli sprechi e ai danni ambientali, mirando alla sua conservazione e alla protezione. Con questa affermazione, di fatto, il destino di questa fondamentale risorsa è cambiato per sempre. In teoria, dal punto di vista economico, l’acqua è una risorsa ‘rinnovabile’ capace cioè di autorigenerarsi regolarmente e, se gestita in modo corretto, disponibile in quantità infinita. Il guaio è che, se il consumo di questa risorsa è ‘superiore’ alla sua stessa capacità di rinnovarsi o se, a causa di fattori antropici o climatici, ne viene compromesso l’equilibrio rigenerativo, ad esempio causando l’inquinamento delle falde acquifere, l’acque diviene un ‘bene limitato’ e il suo valore economico cresce automaticamente. Tanto più che la quantità disponibile di una qualsiasi risorsa rinnovabile non è fissa ma dipende appunto del tasso di utilizzo o prelievo. Un uso non sostenibile delle risorse idriche può causale un deficit parziale o totale rispetto alla quantità potenzialmente disponibile o necessaria alla soddisfacimento dei fabbisogni della popolazione e degli usi produttivi.
Se a questo si aggiungono gli effetti causati dall’azione umana sul clima, con modifiche importanti sull’equilibrio delle precipitazioni nelle varie aree del globo e la conseguente desertificazione dei territori più a rischio, si capisce quanto gravi possano essere le conseguenze di una mancata presa di coscienza del problema. Un fenomeno che, peraltro, potrebbe (e in parte già lo è) diventare oggetto degli appetiti di speculatori e multinazionali, interessate a trasformare una risorsa così importante in un bene ‘privatizzare’. Tanto più che, in linea teorica, proprio dall’acqua si può produrre l’ormai noto idrogeno, risorsa energetica ‘pulita’ che risolverebbe molti problemi sul fronte dell’autonomia energetica e dell’inquinamento, magari ponendo fine alle numerose ‘guerre per le risorse’.

Un progetto contro
la desertificazione

Lunedì scorso l’Enea ha presentato a Roma i risultati del Progetto Riade, Ricerca Integrata per l’Applicazione di tecnologie e processi innovativi per la lotta alla Desertificazione, cofinanziato dal Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica nell’ambito del Programma Operativo nazionale di “Ricerca, Sviluppo Tecnologico ed Alta Formazione” (2000-2006), in collaborazione con il Nucleo di Ricerca sulla Desertificazione dell’Università di Sassari. Si tratta della prima iniziativa che, occupandosi di questo fenomeno nel nostro Paese, estende il quadro di analisi non solo alle tre principali componenti, sistema suolo, risorse idriche ed ecosistemi vegetali, ma anche all’agricoltura, la cui modalità di gestione incide sulla conservazione del suolo e del territorio. Obbiettivo dell’iniziativa integrare le tecnologie già note con nuovi metodi, con un approccio multidisciplinare delle conoscenze che integra diverse competenze: dal mondo accademico alla ricerca applicata, dalle imprese private e alle pubbliche amministrazioni incaricate di delineare il quadro normativo a protezione del suolo e delle risorse idriche nonché di pianificare e gestire le risorse del territorio, per mitigarne i processi di desertificazione e applicare strategie di sviluppo sostenibile degli ecosistemi.
L’effetto-Sahara, infatti, inutile nasconderselo, minaccia anche il nostro Paese e in particolare quattro regioni dello Stivale: Basilicata, Puglia, Sardegna e Sicilia. E proprio in queste aree del Mezzogiorno d’Italia, quindi, si è concentrata l’azione di monitoraggio e studio degli operatori coinvolti nel progetto dell’Enea, analizzandone i processi di desertificazione per contribuire a determinarne i rapporti di causa-effetto e promuovere i necessari interventi di salvaguardia del territorio. Al Workshop del lunedì scorso hanno partecipato, fra gli altri, l’onorevole Bruno Dettori, Sottosegretario con delega alla Desertificazione del Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, il Direttore Generale dell’ENEA Giovanni Lelli, Luigi Rossi Direttore del Dipartimento Biotecnologie, Agroindustrie e Protezione della Salute e il Commissario Straordinario dell’ENEA, Luigi Paganetto. “La lotta alla desertificazione - ha detto quest’ultimo - è uno strumento per la gestione sostenibile degli ecosistemi e del territorio. La ricerca realizzata, le tecnologie e i processi innovativi messi a punto con le imprese rappresentano un presupposto di sviluppo e competitività per il sistema Paese. L’obiettivo futuro sarà quello di portare il progetto sul mercato attraverso il trasferimento tecnologico”.
Che nell’ambito del nostro sistema economico non si potesse non prescindere da una impostazione ‘mercantilistica’ della questione e dalla ‘commercializzazione’ dei risultati del progetto stesso era prevedibile. Le tecnologie sviluppate dal progetto RIADE, per avere un impatto positivo sul territorio e sulle risorse naturali, dovranno necessariamente passare dalla fase di prototipo alla fase di commercializzazione, con conseguenti iniziative imprenditoriali. Basti pensare ad uno dei più importanti risultati del progetto, lo spettrometro laser CASPER, che consente di utilizzare una tecnologia innovativa per ottenere indagini istantanee sulla qualità delle acque, e in particolare, sulla presenza di sostanze naturali o inquinanti di origine antropica o industriale anche su vaste aree acquifere, facendo l’analisi dei campioni senza trattamenti particolari e anche in aree facilmente raggiungibili. Oppure ai modelli matematici che consentono, in uno specifico territorio, di valutare il grado di evoluzione dei processi di desertificazione e prevenirne l’andamento futuro.
L’importanza dell’iniziativa sta comunque soprattutto nella ricaduta che esso può avere a livello di presa di coscienza della gravità del problema nel nostro Paese, fornendo una visione a 360° del problema, dei rapporti che intercorrono tra la nostra economia e la gestione di questa risorsa e sull’importanza della prevenzione da parte dei vari ministeri competenti. L’interrelazione che intercorre tra l’erosione idrica, causata principalmente dalla forte aggressività di precipitazioni molto intense, la notevole erodibilità dei suoli e le particolari condizioni morfologiche dell’Italia, il fenomeno degli incendi, il pascolo brado che se incontrollato può causare l’alterazione della copertura vegetale e della sua struttura, la salinizzazione dei suoli, le conseguenze del forte impatto turistico sulle aree costiere e gli effetti legati all’antropizzazione del territorio e all’agricoltura intensiva e non ‘sostenibile’ che, se gestita in modo più sostenibile, potrebbe invece essere utile a ‘catturare’ carbonio dall’atmosfera nel rispetto degli impegni del Trattato di Kyoto.
In Italia, infatti, in particolare nella pianura e nelle piane costiere, si stanno manifestando preoccupanti segnali di degradazione per la crescente salinizzazione, processo per cui in un determinato suolo (ma anche nelle acque dolci) tendono ad accumularsi eccessive quantità di sali che ne compromettono la produttività biologica, con potenziali significative ripercussioni in campo ambientale ed economico, come la graduale perdita di produttività delle terre e della capacità di un territorio di fornire servizi a beneficio della collettività. In Europa, peraltro, sono già presenti circa il 6% delle regioni aride del pianeta, 1/3 delle quali per lo più in Spagna, la Turchia e Grecia, è già colpito da desertificazione a causa delle attività antropiche. In Italia, addirittura il 30% del territorio, soprattutto nelle regioni meridionali, è a rischio, e in alcuni casi il fenomeno rappresenta una vera e propria emergenza ambientale tale da influire sullo sviluppo socio-economico dell’area. Solo il 5% delle cause, secondo gli esperti, sono imputabili a fattori legati al clima, a idrologia, topografia e vegetazione particolarmente fragili, per il 25% dipende da attività dell’uomo come l’agricoltura, il turismo, l’industria, l’urbanizzazzione e le attività estrattive. “Una cosa è certa - ha detto il ricercatore Massimo Iannetta responsabile di RIADE - la desertificazione si combatte con una integrazione delle politiche ambientali, agricole e infrastrutturali nell’ambito della pianificazione del territorio”. La cosa è tanto più importante se si considera che il problema interessa anche in modo indiretto: è proprio dalle aree del sud del mondo a maggior desertificazione che provengono le ondate migratorie che stanno investendo lo Stivale, l’Europa e gli altri Paesi industrializzati. Inoltre sul fronte della gestione dell’acqua, in nome della cattiva gestione pubblica, del basso prezzo ‘politico’ di questa risorsa, i più estremisti arrivano ad ipotizzare la totale ‘privatizzazione’ di questa fondamentale risorsa, gestendo il prezzo dal lato della domanda e non più dell’offerta in un mercato che non affatto ‘perfettamente concorrenziale’ essendo l’acqua una risorsa indispensabile alla sopravvivenza e alle attività umane.
Al fine dichiarato di impedire l’ulteriore deterioramento degli ecosistemi acquatici proteggendone e migliorandone la qualità e la quantità, la Comunità Europea ha poi emanato una Direttiva, la 2000/60, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque che include nell’ecosistema acquatico non solo il sistema delle acque superficiali interne, di transizione e costiere, ma anche quelle sotterranee e marine, le zone umide e gli ecosistemi terrestri interagenti con quelli acquatici. Il fine della norma non è solo condurre ad un uso idrico sostenibile, basato su una gestione di lungo periodo oculata delle risorse idriche disponibili, ma anche proprio ‘invertire’ la politica del continuo incremento dell’offerta d’acqua attuata finora, a favore di quella del controllo della domanda di acqua. E per raggiungere lo scopo, la Direttiva ha previsto anche calendario attuativo per gli Stati Membri. Bruxelles mira poi ad attribuire la gestione di ogni distretto idrografico ad un’unica autorità, anche sovranazionale, che coordini e attui le misure necessarie. Un tesi che seppur teoricamente concepibile data la complessità del problema, rischia di sottrarre ai diretti interessati la gestione delle risorse idriche nazionali e metterli in mano alle multinazionali e agli interessi delle grandi lobby economiche. Di fronte a ciò, ben poco convincono le affermazioni - tutte teoriche - sulla necessità di gestire l’acqua sulla base di principi di equità sociale.