Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Tramonto di sangue per i Maya di Gibson

Tramonto di sangue per i Maya di Gibson

di Francesco Bolzoni - 04/01/2007

 

Più che la storia di un popolo, si raccontano le terribili avventure di un uomo sfuggito a un sacrificio che viene braccato nella foresta con la sua famiglia

 

Dove andrà adesso Mel Gibson? Se lo chiesero in molti dopo La Passione di Cristo, un'opera che portò al produttore mucchi di euro e di dollari, suscitò entusiasmo in parecchi, delusioni in altri e incertezze in altri ancora che erano dibattuti tra il sì e il no. L'attore Gibson è un astuto uomo di spettacolo (lo rivelò fin dal primo film da lui diretto, Braveheart), un cineasta che possiede a perfezione il senso del ritmo e del taglio degli episodi narrativi, sa quello che si aspetta il pubblico e come amalgamare tali attese, individua in una vicenda piena di figure i personaggi da descrivere con note appropriate, tratti precisi in modo da renderli familiari agli spettatori; insomma, un professionista che, a Hollywood, ha trovato il suo perfetto habitat. Stavolta, in Apocalypto, che domani uscirà in 300 sale italiane, è andato a chiedere lumi al popolo maya anche se, tutto sommato, più di una civiltà, dei suoi splendori e dei suoi errori, poi ha raccontato la storia di una famiglia soggetta e mille crudeltà. La vicenda scritta dal regista con la collaborazione di Farad Safinia, fotografata da Storaro, interpretata da persone che mai erano state davanti alla cinepresa, girata in Messico in uno dei pochi tratti residui di foresta tropicale, è ambientata tra un popolo di agricoltori e di sacerdoti apparso in America Latina alla fine del terzo secolo dopo Cristo nel Guatemala e nel Chiapas (più tardi si trasferì nello Yucatan, forse per l'inaridirsi dei terreni) e dissoltosi prima dell'arrivo nel nuovo mondo degli spagnoli (pare intorno al 1450). I contadini coltivavano il mais; i sacerdoti inventarono la scrittura ideografica mediante geroglifici, un sistema che numerazione che prevedeva lo zero, un calendario che si approssima alla realtà astronomica migliore del gregoriano. Il film, con un certo arbitrio, mostra nel finale le barche degli spagnoli che si avvicinano alla spiaggia.
Mel Gibson interroga i maya - i quali rispo ndono usando la loro lingua che ci viene tradotta nelle didascalie - per esorcizzare il senso della paura. La paura, prima di tutto, della morte, «quando non esisti più e non hai più nulla da dare», una morte che può raggiungerti nel tuo letto o combattendo o mentre assisti a un sacrificio rituale. La morte che la preghiera cerca di allontanare e che la maledizione (qui di una bambina che racconta della minaccia di un giaguaro, preannuncio della fine del popolo maya) pare avvicinare. La morte provocata dagli invasori che vogliono la tua terra. La morte dovuta ai sacerdoti che strappano il cuore alle loro vittime e lo alzano in alto poco prima che il sole si oscuri. È un'eclissi, eppure i sacerdoti maya, che sapevano leggere nel cielo, paiono non capirlo e gioiscono nello spaventare i fedeli riuniti come in ogni kolossal che si rispetti davanti al tempio.
La vicenda, che si apre con una caccia a un bisonte e si conclude con il feroce inseguimento (non privo di momenti anche emozionanti) dell'eroe della storia, si sviluppa su tre capitoli. Il primo è ambientato in un villaggio nella foresta; il secondo in un luogo di culto, in una città in costruzione, poniamo Tikal che, sommersa dagli alberi e dai cespugli per secoli, tornò alla luce nel '900 e sugli erti scalini dei suoi templi da allora salirono migliaia e migliaia di turisti (vedendo il film si capisce perché gli scalini sono così stretti: servivano a far rotolare meglio i cadaveri delle vittime dei sacrifici). Il terzo è dedicato alla fuga del protagonista, al tentativo di sua moglie di mettersi un salvo da un dirupo dove il consorte l'aveva nascosta mentre dal cielo si scatenato fiumi di acqua e lei rischia di annegare con il suo bambinello e, in aggiunta, partorisce un figlio.
Al senso di morte, che percorre per intero il film, Mel Gibson oppone, dunque, la difesa della famiglia, una famiglia divisa dagli eventi e alla fine riunita, e il dolore dei bambini che, durante la razzia si vedono separati dai ge nitori. Sarebbe lunghissimo, a questo punto, stendere l'elenco degli orrori illustrati dal regista quasi egli non sapesse che l'arte può evocare la crudeltà ma non rappresentarla realisticamente perché ogni arte, per dirsi tale, deve possedere il senso del pudore. Senza dubbio Gibson può considerarsi un "virtuoso"della cinepresa. Ma tale riconoscimento non esclude che di fronte a molte immagini di Apocalypto si possa rimanere imbarazzati. E che manchi al pur valente regista, anche clamorosamente, il senso del limite.