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Apocalypto: spacciare per veri i Maya falsi

di Chiara Evangelista - 07/01/2007

 
I Maya di Mel Gibson sono forti, agili, muscolosi. Adornati con raffinate acconciature e pitture corporali, spesso improbabili, strappano i cuori palpitanti delle loro vittime sacrificali, trafiggono o decapitano uomini e animali, si trasformano in fiere. Il sangue abbonda, proprio come notarono in Centro America, all’inizio del Cinquecento, i conquistatori spagnoli, inorriditi di fronte allo spesso strato di sangue che colava dalle piramidi di Tenochtitlán, l’attuale Città del Messico, capitale di un altro grande impero, l’Azteco. Apocalypto, l’ultimo film di Mel Gibson, costruisce un’immagine dei nativi americani molto diversa da quella edulcorata che si è diffusa negli ultimi decenni, e che presenta i grandi imperi pre-colombiani come culture pacifiche, portatrici di saperi millenari e custodi dell’ecosistema.

Non per questo, però, il film di Gibson è più «vero». Esso infatti cerca di mostrare, con la separazione dei generi (le donne sorridenti e sottomesse, gli uomini violenti e animaleschi) le due facce della visione preconcetta cui continuano a essere soggetti gli indios, ai quali viene negato il diritto alla storia: la capacità di trasformazione, di progettare il futuro. In tal senso, Gibson potrebbe far parte dell’ampia schiera di chi nega la possibilità di scrivere la storia degli indios, perché popoli generalmente senza scrittura e senza solide istituzioni.

Gli studi di etno-storia mostrano invece una realtà diversa: innanzitutto, la presenza di una pluralità di culture e di società, con un insieme di principi e di istituzioni diversi ma non incomunicabili rispetto a quelli dei conquistatori europei: coloro che riuscirono a sopravvivere alla Conquista e al conseguente, impressionante calo demografico (per esempio, secondo alcune stime, il Messico vide la sua popolazione diminuita da 12 milioni a 750 mila abitanti), pur subendo drammatiche e irreparabili trasformazioni, riuscirono a creare spazi di relazione con gli invasori, di tipo non solo sociale e culturale, ma anche politico. Per le società autoctone, dunque, l’arrivo delle tre caravelle, che Gibson pone simbolicamente a fine del film (benché, ovviamente, Colombo non sia sbarcato nello Yucatán e i Maya siano entrati in contatto con gli Spagnoli nel 1517) rappresentò una cesura epocale di dimensioni continentali, ma non l’inizio della storia. Nel caso di Apocalypto, la negazione alla storia va ben oltre le inesattezze o i falsi plateali, che in parte si potrebbero perdonare a un prodotto di questo genere. Sembrerebbe piuttosto che le inesattezze e la superficialità siano volutamente parti costitutive dell’immagine che si vuole costruire. Gli attori non Maya, la lingua improbabile, insieme a tanti altri dettagli, contribuiscono alla negazione non tanto della storia, ma degli stessi Maya, in un discorso razzista che difficilmente può essere ascritto a una semplice operazione commerciale.

Chiara Evangelista
Università di Genova