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Agonia della ''bibliodiversità''

di Gabriele Pedullà - 31/01/2007





 

Libri, giornali, recensioni, librerie: note e allarmi su un sistema sempre più omologato dal Marketing, che ha distrutto l'equazione novecentesca critica = democrazia

Le premesse sono note. Lo strapotere della distribuzione nel determinare l'offerta culturale; il riorientarsi delle librerie Feltrinelli verso il mass market, con un taglio del 30% dei titoli prima normalmente disponibili così da ridurre i costi di gestione (meglio vendere dieci copie del solito, ecumenico Ammaniti che quindici di altrettanti autori diversi); la sempre più rapida senescenza dei nuovi libri che ormai hanno una vita sugli scaffali di meno di tre mesi; insomma la crisi, forse irreversibile, della «bibliodiversità »…

E ancora (questa volta dal punto di vista delle case editrici): l'imperativo di guadagnare su ogni singolo libro, rinunciando a compensare le perdite o anche solo i modesti profitti dei titoli più difficili con i titoli di maggior successo commerciale; le costrizioni dei bilanci preventivi, che obbligano i management delle imprese a replicare risultati eccezionalmente buoni, trasformando l'eccezione in norma, con conseguente riduzione dei margini di manovra e degli spazi per i volumi meno accessibili al grande pubblico… In fondo non è nemmeno il caso di scandalizzarsi: non essendo associazioni di beneficenza ma imprese private, le case editrici si sono preoccupate sempre dei propri bilanci, sebbene la massimizzazione dei margini di profitto perseguita negli ultimi anni abbia incrinato un equilibrio già di per sé molto precario tra qualità e quantità.

Se l'effetto del cambiamento sembra così dirompente è perché è mutato il sistema attorno a esse, dall'università delle mille lauree honoris causa ai giornali dei mille gadget. Un sistema sano in cui tutti fanno il proprio dovere si regge sul libero confronto tra poli diversi: c'è l'autore, che scrive; c'è l'editore, che seleziona le opere; ci sono i critici, che esprimono un parere su quanto pubblicato; c'è infine l'università, dove i valori si assestano lentamente e per ipotesi successive. Il tutto secondo un principio di equilibrio e separazione dei poteri non troppo diverso da quello teorizzato da Montesquieu per i sistemi politici e in base al quale non dovrebbe mai essere la stessa persona a fare le leggi, ad applicarle e a sanzionare l'operato dei cittadini. Per lungo tempo tale indispensabile funzione di sorveglianza è stata demandata soprattutto alle pagine culturali dei quotidiani; oggi, al principio del XXI secolo, si può dire che questa fase storica sia sostanzialmente finita. Una lenta agonia è stata accelerata da tre fenomeni più recenti: il diluvio di anticipazioni, le promozioni dei libri in vendita con i giornali, il diffondersi delle recensioni in subappalto.

I primi due sono troppo evidenti perché sia necessario soffermarvisi: basterà notare che da un certo momento in poi le pagine culturali hanno rinunciato a esercitare il proprio diritto/ dovere di critica preferendo ospitare stralci dei libri in uscita (dei veri e propri trailer, presentati senza alcun commento) e che questa tendenza si è ulteriormente accentuata da quando i quotidiani si sono fatti editori in proprio, dedicando una parte consistente delle proprie terze pagine alla promozione dei volumi in vendita. Più interessante, perché più subdolo, il terzo fenomeno, che consiste nel pubblicare recensioni dei grandi nomi della letteratura contemporanea (da DeLillo a Wallace, da Auster a Franzen) ai quindici o venti presunti esordienti di genio che ogni anno sforna la macchina editoriale USA – recensioni scrupolosamente acquistate, tradotte e poi fornite a titolo gratuito dagli uffici stampa della casa editrice che si appresta a pubblicare il romanzo in Italia. Alla fine, verosimilmente, saranno tutti contenti: l'editore, che si garantisce un lancio esclamativo; il redattore, che non deve nemmeno correggere le bozze; il direttore, che si può fare bello esibendo una firma apprezzata ai quattro angoli del globo; e persino il lettore, che ha l'opportunità di leggere uno dei suoi beniamini senza fare la fatica di cercarsi il pezzo su Internet.

"Tutti contenti, a parte il fatto che per questa via i giornali rinunciano a esprimere una voce autonoma e si trasformano nel megafono delle case editrici o del proprio ufficio marketing. Quando cade la separazione dei poteri, nessuna vera critica è più possibile e anche la democrazia (delle lettere) entra in pericolo. In economia si potrebbe parlare di trust verticale. Questa tendenza inarrestabile del nostro tempo viene presentata spesso come un inveramento dei valori egualitari della nostra società: «Non facciamo pedagogia», «Noi vogliamo solo dare ai lettori quello che ci chiedono », «Non siamo mica in Unione Sovietica». Ma davvero la logica dei grandi numeri è più democratica soltanto perché offre a tutti quello che vogliono o credono di volere? In effetti ci sarebbero parecchi argomenti da opporre a questa ricostruzione, a cominciare dal fatto che non è sufficiente il consenso a caratterizzare una democrazia, altrimenti (tanto per rifarsi ancora ai classici della filosofia politica) avrebbero ragione i teorici novecenteschi della leadership carismatica che legittimavano la fine della mediazione parlamentare in nome dell'adesione spontanea delle masse alla volontà del capo.

La democrazia è fatta invece soprattutto di procedure e proprio la possibilità di dissentire, la ricchezza del dibattito e l'apertura degli spazi di discussione sono i suoi principali indicatori. Da questo punto di vista la critica (letteraria e non) è importante non tanto o non solo perché aiuta a separare il grano dal loglio, né perché consente di comprendere meglio il senso e il valore di un'opera, ma perché, proponendo delle ipotesi di lettura, sollecita la discussione, invita a verificare di persona, costringe a prendere consapevolezza dei propri gusti motivando adesioni e ripulse. Il parallelo con la politica non è casuale. Il sistema delle lettere, come quello della rappresentanza politica, è sottoposto a una trasformazione rapidissima per effetto delle medesime cause, prima tra tutte il dominio della comunicazione televisiva con i suoi miraggi di immediatezza e di contatto diretto.

Nell'epoca delle infinite affabulazioni, in cui nessun ragionamento possiede la forza di persuasione di un testimone in lacrime, è la stessa nozione di critica a risultare scomoda e obsoleta, tanto in letteratura quanto altrove (con quali pericoli per la democrazia è inutile dire). In fondo le case editrici continuano a fare quello che hanno fatto sempre: cercare di vendere i propri libri. A parte la rinuncia dei giornali alla propria funzione di controllo, la vera novità di questi anni è la posizione assunta dai giovani scrittori, che, implicitamente o esplicitamente, manifestano sempre più spesso insofferenza o sufficienza per qualsiasi forma di mediazione culturale, con un atteggiamento che ricorda l'avversione dei politici per i giornalisti che con le proprie obiezioni e domande scomode osano frapporsi tra loro e gli elettori (due fenomeni che forse bisognerebbe leggere alla luce delle acutissime pagine di Tocqueville su democrazia e bonapartismo).

Se si volesse indicare la data d'inizio di questo processo, si potrebbe risalire alla metà degli anni novanta e alla durissima polemica che sulle pagine del Corriere della Sera vide contrapposti Michele Mari e Sandro Veronesi (i due narratori italiani più dotati di quegli anni) a proposito dell'affermazione di quest'ultimo che soltanto i coetanei avrebbero dovuto recensire i nuovi romanzieri. Dopo dieci anni, nei fatti, la linea Veronesi ha trionfato e anzi la boutade di allora appare oggi non più che un'avvisaglia eun timido accenno di quello che sarebbe successo in seguito. Avvalendosi dei loro nomi di maggior richiamo, è sempre più frequente che i romanzieri italiani «facciano tutto da soli», così che spesso a recensire in termini entusiastici il giovane scrittore X è il giovane scrittore Y – in attesa, verosimilmente, di ricevere indietro il favore. Non è escluso che questa tendenza autarchica un giorno travolgerà le stesse case editrici. La novità rivoluzionaria (per ora solo sulla carta) di un progetto come quello della Fandango risiede precisamente nel tentativo di mettere in piedi una «United Artists» che federando una serie di narratori di successo cancelli anche l'ultimo intermediario tra chi scrive e chi legge – un po' come è avvenuto nella New Hollywood, dove gli agenti e le star hanno preso il posto una volta occupato dagli studios. Gli autori certo, per crescere e imporsi, hanno bisogno di interpreti, ma non è detto che questa funzione essenziale, un tempo demandata ai critici, debba essere anche in futuro affidata a essi. L'affermarsi di figure come quelle dell'editor e dell'agente sembra indicare esattamente il contrario.

Si direbbe che la società letteraria si stia conformando in ritardo al modello che da alcuni decenni domina nel mondo dell'arte, con l'eclissi del critico come figura chiave nella ricezione di un'opera, sempre più rimpiazzato dal curatore, un professionista ben retribuito che allestisce la mostra e produce dietro compenso una serie di ragionamenti finalizzati a valorizzare il lavoro dell'artista – a metà strada tra il pubblicitario di alto livello, l'esperto di marketing, il compagno di strada e il critico vecchio stampo. La preparazione e l'intelligenza dei curatori non sono in discussione: quello che però occorre sottolineare è la differenza essenziale della loro posizione rispetto a quella di chi trae altrove le proprie fonti di sostentamento. E che per questo rimane un uomo libero. In un mondo in cui la nozione di classico s'identifica sempre di più con quella di long seller, anche i narratori sembrano essersi piegati completamente alla logica dei grandi numeri; che oggi anche loro, sulla scia degli artisti, possano essere alla ricerca di curatori e che non sappiano che farsene dei critici può forse dispiacere ma non sorprende.

Se nel Novecento gli scrittori da 3000 copie erano orgogliosi di sé e non pensavano che la mancanza di successo di vendite li privasse di qualcosa, oggi si sentono anch'essi, al pari di tutti gli altri, autori di best-seller mancati. Così la speranza di essere il nuovo Piperno o il nuovo Saviano alimenta il conformismo verso la macchina editoriale e l'insofferenza per chiunque non contribuisca a oliare l'ingranaggio. Poiché, come insegna Brecht, non è alle «buone vecchie cose» ma alle «cattive cose nuove» che bisogna rivolgere lo sguardo, dei tanti esempi possibili le risposte di alcuni romanzieri a una recente inchiesta di «Tuttolibri » sui recensori italiani rimangono forse il più istruttivo. Le dichiarazioni di stima per Antonio D'Orrico, che come critico nessuno calcola ma che grazie alle copertine del «Magazine» del Corriere riesce a muovere alcune migliaia di copie, indicano che cosa i nostri giovani narratori si aspettano dai giornali (in quel consesso con le significative eccezioni di Silvia Ballestra e Antonio Scurati). Il populismo – magari ribattezzato anti-paternalismo – si presenta così come la vera cifra della giovane narrativa nostrana. Quando Marco Belpoliti lamenta l'assenza di scrittori criticamente impegnati comequelli della leggendaria generazione degli anni venti è in fondo anche di questo che parla. È cambiata la realtà ma è cambiata anche la retorica, e se qualche decennio fa era ancora comune la figura dello scrittore istintivo che cercava di tenersi aggiornato e magari faceva finta di conoscere Benjamin e Foucault, adesso è più verosimile immaginare il gesto contrario, con il narratore di grido che occulta le proprie letture e predilige un approccio anti-intellettuale e scanzonato, mimando gli atteggiamenti divistici delle rockstar. Muore la critica e sulle sue ceneri prosperano i mediocri che non desiderano essere giudicati.

In pochi anni il mondo è cambiato e tutti si sono riposizionati: gli editori, i redattori dei grandi quotidiani, i romanzieri e persino quei recensori che hanno rinunciato al proprio ruolo di interpreti per recitare la parte dell'imbonitore e del persuasore occulto. Solo coloro che praticano la critica nell'accezione più tradizionale del termine (pochi, sempre di meno, sempre più marginalizzati) continuano a esercitare l'arte di dire anche di no. Sono loro il granello di sabbia nell'ingranaggio perfetto del mercato editoriale, gli uomini-Bartleby del nostro tempo, coloro dai quali dipende la possibilità che ci sia ancora posto per una letteratura non condannata all'eterno ritorno dell'uguale. Vengono tollerati di mala voglia. Ma senza di loro i grandi libri del futuro potrebbero non trovare più nessuno che sappia riconoscerli e valorizzarli.

da Alias de "il Manifesto"