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Il contratto sociale

di Mario Spinetti - 31/01/2007

 

 
“In questo mondo, il migliore dei mondi possibili, ogni evento è interconnesso” (Candide, Voltaire).”L’uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la terra” (Albert Schweitzer, in Rachel Carson, 1963, una precorritrice delle problematiche attinenti alle distruzioni ambientali).
Se, come dice l’Hegel, la creazione dello stato è l’ingresso di Dio nel mondo, è pur vera l’affermazione dell’Hobbes che individua la matrice statale nel reciproco timore che spinge gli uomini ad associarsi, inducendoli a rinunciare al diritto naturale. Rousseau osserva: “Il primo che avendo cintato un terreno pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide per credervi, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie e errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal credere a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno siete perduti!”...........Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento in cui si accorse che era utile ad uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario, le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che gli uomini dovettero bagnare con il loro sudore e nelle quali si videro presto germogliare e crescere, insieme alle messi, la schiavitù e la miseria..........Da libero e indipendente che era prima ecco l’uomo, a causa di una moltitudine di nuovi bisogni, asservito, per così dire, ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo anche quando sembra diventarne il padrone. Se è ricco ha bisogno dei loro servizi, se è povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette affatto in condizione di poter fare a meno di loro........”. Siamo dunque innanzi ad un contratto sociale che non discende da valori assoluti ma che ha invece la propria fonte nel reciproco timore e nell’istinto di “conservazione”. Questi scopi, è vero, appaiono conseguiti, almeno nella loro essenza, nell’aggregazione statuale, ma non possiamo esimerci dal ricordare le lacerazioni che nel corso della storia sono avvenute all’interno stesso degli stati, tra le quali vogliamo emblematicamente ricordare la lotta tra Cesare e Pompeo, o quella tra Ottaviano e Antonio. Ma il fallimento più clamoroso della costituzione dello stato è rappresentato dalla sua incapacità di trasferire i propri principi etici ai rapporti con gli altri stati. E’ con orrore che lo studioso deve soffermarsi a considerare quanto è avvenuto nel corso della storia, contrassegnata com’è dalla violenza, dalle guerre, dai massacri, dalle sopraffazioni, sì che essa appare scritta col sangue, perché troppe Arbie si sono tinte di rosso. Quale ottimismo può germogliare innanzi a simili orrori? E’, in essenza, il trasferimento dello “homo hominis lupus” dell’Hobbes, dall’ambito dei rapporti individuali a quello dei rapporti tra gli stati che si affrontano in conflitti immani (come quello che Benedetto XV° definì “l’inutile strage”, o come l’altro conflitto mondiale, a noi ancora vicino, ma non abbastanza ammonitore. Vedasi poi le tante guerre sparse per il mondo). Com’è possibile accettare il pensiero del Locke e del suo “homo homini deus”?. Sovviene a questo punto l’ironia del Voltaire che nel Candide tratteggia dal par suo il naufragio dell’ottimismo leibniziano innanzi alla dura realtà del mondo.
Il pessimismo non deve tuttavia identificarsi con la filosofia della disperazione, ma deve anzi impegnarci a ricercare nuovi modi di vivere, una nuova “Weltanschaung”. Ma in realtà non si può lottare contro la gente di oggi. Le lacerazioni dell’uomo sull’uomo hanno compreso anche il rapporto uomo-natura, e il pessimismo prende inevitabilmente il sopravvento. “La società e le leggi…. Posero nuovi ostacoli al debole e dettero nuove energie al ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza… e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” (J.J. Rousseau).
La lotta di classe, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sviluppa la sopraffazione dell’uomo sull’ambiente. Concepire il valore in sé della natura, in una visione non utilitaristica, otterrebbe una riconnessione con la natura e, conseguentemente, la nascita di una società egalitaria e “umana”: “..la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali. Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio - basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia - in seno alla società” (Bookchin, 1989). Incalza Hosle (1992): “... lo Stato di diritto sociale e democratico dev’essere al contempo uno Stato ecologico. Con ciò intendo dire che uno dei più importanti compiti dello Stato deve consistere nel conservare i fondamenti naturali della vita......”.
Ma purtroppo, le classi egemoni “orientano” integralmente il pensiero delle masse, con i mezzi più subdoli e penetranti. L’ideologia della cieca logica del profitto è la caratteristica mentale dei nostri tempi, ormai saldamente radicata in ampi strati dell’opinione pubblica e del tessuto sociale. Questo rende ancor più difficile la proposta e la successiva affermazione di una nuova quanto antica ideologia estremamente pratica basata, come detto, sulla riconnessione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura, intima unione ed un tempo vera essenza della vita. Un totalizzante contrasto viene dalle forze scatenanti e prevaricatrici del capitalismo e quindi dell’occidentalismo, tutte proiettate verso l’illimitato accumulo del denaro e del potere decisionale. A proposito del capitalismo scrive Bookchin (1989): “Una cosa comunque deve essere ben chiara: è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. E’ letteralmente il cancro della vita sociale”.
Un’ideologia del valore intrinseco delle cose deve dunque confrontarsi, in una lotta impari, con il valore utilitaristico del pensiero corrente occidentale, valore sorretto dalle forti spinte economiche. Tra l’altro occorre ricordare che il contratto sociale fortemente articolato ha progressivamente ridotto la “vera” libertà individuale. Kaczynskj (1997) ci ricorda che “Libertà significa essere in grado di controllare (sia come individuo che come membro di un piccolo gruppo) tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte; cibo, vestiti, riparo e difesa contro qualsiasi pericolo ci possa essere nel proprio circondario. Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita. Nessuno è libero se qualcun altro (specialmente una grossa organizzazione) lo ha in suo potere, non importa con quanta benevolenza, tolleranza e permissivismo questo potere sia esercitato... “.
In questa immane dialettica, lo sviluppo economico-sociale, dapprima limitato, necessario e controllato, assume poco alla volta un carattere invadente e prevaricatore. Le necessità economiche delle classi lavoratrici, ormai inserite in un tessuto sociale degenerante, spingono gli Stati e ancor più gli imprenditori privati (in società o in proprio), ad “investire” i capitali nella produzione di beni, spesso inutili, con la sola logica del profitto. La società allora affonda progressivamente in una illusione “produttivistica” con l’intento di avere e di accumulare sempre di più. Le classi borghesi si assicurano l’”avere”, mentre quelle imprenditoriali l’accumulo. La logica è quella del profitto, come sappiamo, ed allora i parametri del buon senso e della mediazione perdono ogni significato. La società consumistica, con l’ideologia delle false necessità, spinge il singolo a chiedere le cose, che il sistema partorisce a ritmo incalzante. Ma la parabola dapprima illusoriamente ascendente piega la sua curva, perché la logica perversa del capitalismo pone le sue fondamenta nel saccheggio dell’ambiente, sia nel senso dei prelevamenti (energia, materie prime, ecc.) che in quello dei rilasci (inquinamento dei rifiuti). Il cerchio si chiude ed il sistema umano affonda nella palude e purtroppo con esso anche gli elementi della natura. Marx asseriva che lo sfruttamento della natura è una delle contraddizioni del capitalismo; più in generale direi che la distruzione della natura è il risultato della società umana “civilizzata”! L’uomo è capace di rovinare tutto ciò che tocca perché in fondo la “civiltà” ha in sé il germe della propria distruzione e della distruzione del mondo.
Scrive ancora Murray Bookchin (1995): “La ‘civiltà’ come noi la conosciamo oggi è più muta di quella natura per la quale pretende di parlare e più cieca di quelle forze elementari che pretende di controllare. In realtà, questa ‘civiltà’ vive nell’odio per il mondo che la circonda e nell’odio per se stessa. Le sue città sventrate, le terre rovinate, l’acqua e l’aria avvelenate, la sua meschina ingordigia sono un’accusa quotidiana alla suo odiosa immoralità. Un mondo così ridotto è forse irrecuperabile, per lo meno nel quadro delle sue attuali strutture istituzionali ed etiche......... Questo pianeta si merita un destino migliore di quello che sembra attenderlo nel futuro, se non altro perché la storia, compresa la storia umana, è stata così ricca di promesse, di speranze, di creatività”.
Paradossalmente si potrebbe considerare che anche le opere dell’uomo (città, macchine, tecnologia, ecc.) siano in una qualche misura cose “naturali”, frutto dell’ingegno e dell’evoluzione di un essere senziente. Ciò potrebbe anche essere vero, ma questa “natura umana” è in netto contrasto con tutte le “cose naturali” non umane. Il mondo antropico non solo si oppone e si scinde da quello della natura, ma determina la totale distruzione e prevaricazione di quest’ultimo. In sintesi nessun accordo armonico è possibile stabilire tra le parti perché la scissione determina sempre contrasto e antitesi. Scrisse J. Muir (1995) “Chiamo Carlo e per tornare a casa ripercorro il disagevole tratto di Indian Canon, lieto di essere dove sono e compatendo in cuor mio il povero professore e il generale, vincolati da orologi, calendari, ordini, doveri e quant’altri legami mai e costretti a vivere gli affanni della vita di pianura, la polvere e il rumore, mentre il povero, insignificante vagabondo gode la libertà e la grandiosità della divina natura selvaggia”.
Il concetto di globalizzazione, oggi tanto diffuso e popolare, è un concetto che rende le società umane sempre più dipendenti le une dalle altre, causando un indebolimento dello spirito di “sopravvivenza” tanto che ognuno di noi è sempre più schiavo dei meccanismi infernali della vita quotidiana. Se un tempo, per esempio, un piccolo borgo di montagna rimaneva isolato per mesi durante il lungo inverno, la popolazione era perfettamente in grado di sopravvivere grazie ad una buona dose di autarchia che regnava sia nello spirito che nella pratica quotidiana. Oggi, un borgo, se perde per qualche giorno la strada di accesso, entra in una profonda crisi sia materiale che spirituale. Ecco il risultato delle catene sociali che stiamo amplificando sempre più. Una dipendenza ormai irrinunciabile. Il contratto sociale dovrebbe stipularsi tra piccoli gruppi autonomi senza creare immani strutture sociali fortemente dipendenti le une dalle altre, non libertarie e sempre più ingovernabili. Ovviamente non ci riferiamo alle dipendenze ecologiche proprie degli ecosistemi, ma a quelle catene non cicliche ed inutili che permeano sempre più i rapporti sociali. Lo sviluppo enorme del terziario e dell’industria ha contribuito definitivamente all’asservimento e alla vulnerabilità delle masse.
Scrive Bookchin (1989): “Affinché la tendenza venga invertita, il capitalismo deve essere sostituito da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentrate, su ecotecnologie come l’energia solare, sull’agricoltura organica e su industrie a misura umana, insomma forme di insediamento veramente democratiche, economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate”. Ma una società ecologica non può nascere all’interno del sistema attuale, ma solo da un atto “rivoluzionario”, radicale e totalizzante. Afferma infatti Bookchin (1989): “.... Esso è fondato sull’opinione decisamente errata che la nuova società debba nascere nel seno stesso della vecchia, crescendovi e sviluppandosi come un figlio vigoroso capace di imporsi ai suoi genitori o distruggerli”.
Il contratto sociale sebbene abbia una genesi di positività si è trasformato in una multiforme varietà dove giganteggiano esclusivamente il potere quanto più illimitato possibile, la sopraffazione, le disparità sociali, le menzogne, le mere illusioni, le distruzioni, le discriminazioni, le guerre e chi più ne ha ne metta. Non sembra affatto un buon “contratto”. Riflettiamoci un po’! Concludiamo con una massima di E. B. White, citata dalla Carson nell’epigrafe del suo capolavoro Primavera silenziosa (1963): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”.